martedì 3 luglio 2012

PRODUZIONE ARTIGIANALE e politiche del lavoro e di welfare: un sistema da progettare


A Feltre, in provincia di Belluno, anche quest'anno si è celebrata la Mostra dell'Artigianato, arrivata alle 26esima edizione. Artigiani di tutto il mondo (dall'Italia solo il 35% degli espositori) espongono e lavorano la materia. Gli operatori che esponevano, intervistati dai giornalisti, dichiaravano che le loro abilità sono continuamente ricercate, ed i loro prodotti riescono a trovare acquirenti. 


Sicuramente questi prodotti sono rivolti ad un mercato di nicchia di fascia medio-alta, e abbisognano che siano coadiuvati da politiche e servizi di internazionalizzazione commerciale dei manufatti. La globalizzazione oggi consente a queste abilità e queste competenze di trovare spazi per le vendite dei loro manufatti presso una platea potenziale di acquirenti molto più ampia rispetto a quella che, solo pochi anni fa, ne decretava invece la profonda crisi settoriale. Bene, quindi, che si sensibilizzi l'opinione pubblica sul fatto che un settore manifatturiero, qual è quello della produzione artigianale, possa essere veicolo di occupazione e di lavoro, sia per coloro che fattivamente sono occupati nelle manualità produttive, sia per coloro che s'impegnano nella internazionalizzazione e commercializzazione delle produzioni.
Ma cosa veramente si fa per consentire a questo settore produttivo di continuare ad esistere  ed essere sempre più un'opportunità per i giovani di lavorare sia nelle occupazioni manuali che in quelle intellettuali, e per lo Stato di veder sostenute le sue casse? Francamente nulla!
Per chi ha la pazienza di andare sul sito OCSE e leggersi qualche numero, potrà verificare che l'Italia è il Paese europeo e mondiale che ha il tasso di partecipazione dell'occupazione giovanile fra i 15 e 19 anni più basso: appena il 8% dei giovani italiani di questa fascia di età è parte produttiva attiva. In Germania la percentuale raggiunge il 30%, in Austria quasi il 44%, in Svizzera del 56%. Se scontiamo che abbiamo il minor tasso di laureati, il nostro mercato del lavoro è in grado soltanto di sostenere occupazioni sottoproletarie, non professionalmente qualificate, miseramente retribuite, inefficaci a consentire crescita delle conoscenze e delle abilità. 
Credo che a poco serviranno le normative appena introdotte che agevolano, con credito d'imposta fino a 200.000 euro, l'occupazione di giovani laureati o dottorati in talune discipline a carattere scientifico e tecnico. Sono norme che serviranno esclusivamente a occupare giovani che costano meno, dissimulando un impiego in settori di sviluppo di prodotto e di processo che oggi come oggi ha senso solo se fatto attraverso le Università e le reti di ricerca internazionali, e comunque in forme consorziate e di rete. A meno che non sei così grande, e fai fatturati tali da poterti permettere uffici di ricerca e sviluppo adeguati a raggiungere gli scopi. Ma la PMI, quando ha innovato i suoi prodotti lo ha fatto per le competenze e le abilità e le conoscenze della materia che si erano nel frattempo solidamente depositate nelle mani degli artigiani. L'ingegnerizzazione industriale del prodotto, che interviene successivamente, non è ricerca e sviluppo. Ed in alcuni casi non è servita affatto.
Già in altri post qui in N.O.I. abbiamo scritto della sconsideratezza rispetto all'entrata nel mercato del lavoro di giovani con contratto di apprendistato fino all'età di 29 anni. Parimenti, di come si ostacoli  in ogni modo la possibilità per gli artigiani di poter occupare personale in vera età di apprendistato (che ripetiamolo, non deve superare i 22 anni ed essere ad esclusivo uso di settori produttivi specifici), attraverso normative sul lavoro minorile che inibiscono l'occupazione di giovani che abbiano concluso l'obbligo formativo e scolastico a 16 anni, con scuole e apparati formativi delle istituzioni insensibili a garantire una formazione adeguata per l'entrata in questi settori produttivi, con i sindacati di categoria degli artigiani (ma anche dei lavoratori) che non riescono a supplire in forme sussidiarie al vuoto delle scuole di formazione.

Gli elaborati normativi che sono approvati frettolosamente in materia di lavoro, i decreti sviluppo emessi senza il necessario sostegno finanziario per l'implementazione delle politiche, sono esercizi che lasciano il tempo che trovano, e di fatto sono specchietti per le allodole o esercizi ragioneristici per aumentare le entrate contributive e fiscali, quindi non favorevoli al lavoro ed alle imprese. Senza un progetto economico-produttivo, senza un adeguato sostegno formativo, senza una seria politica di incentivazione all'occupazione giovanile e alla internazionalizzazione commerciale da parte delle camere di commercio o dei sindacati di categoria o con l'incentivazione di questi servizi da parte di terze parti private, potremo soltanto provare a tirare avanti perdendo treni ed opportunità.
Gli schematismi ed i meccanicismi che finora hanno coordinato le politiche sulla formazione il lavoro e il fare impresa in Italia hanno solo consegnato un Paese fiacco, non competitivo, che non crea valore economico ma solo diseguaglianza sociale ed intergenerazionale. 

A queste incapacità da parte della classe dirigente di affrontare le questioni e le problematiche dell'Italia in chiave sistemica e articolata, ovvero di avere un progetto sul quale rinsaldare un patto di cittadinanza, oggi vanno aggiungendosi le urgenze che emergono e che non trovano adeguate analisi e soluzioni, se non sempre nello stesso inadeguato solco finora tracciato.
Già in questo post avevo sollevato il problema della crescita demografica e della necessità di riscrivere il welfare, non negli indirizzi che stanno dando e che si riveleranno inefficaci. 
Basti anche l'allarme che sta lanciando anche il Fondo Monetario Internazionale, riassunto in questo diagramma che segue.


Nel 2016, nei Paesi OCSE, il numero di bambini ragazzi ed anziani (ovvero la popolazione produttivamente inattiva) eguaglierà il numero dei lavoratori (o popolazione attiva).

Il sistema diverrà sempre più insostenibile. Non servirà spingere l'età pensionabile sempre più prossimamente all'età di morte! Per questioni di sicurezza, di produttività, di necessaria cultura al cambiamento ed al miglioramento continuo che le industrie moderne domandano, non è possibile chiedere ad una persona di sostare in attività produttive oltre una certa età.
La deregolamentazione delle politiche di uscita dalle imprese industriali, oltretutto, serviranno a abbandonare ad un destino indefinito tutti quei lavoratori che, appunto perchè anziani dal punto di vista industriale, non sono più ritenuti essere adeguati alle funzioni produttive delle imprese modernamente organizzate. E saranno lavoratori che avranno abilità e competenze non paragonabili a quelle di un coetaneo che ha lavorato nelle manifatture artigianali. E che saranno riqualificati per lavori ed occupazioni a più basso reddito ed ancor più dequalificati e dequalificanti dal punto di vista professionale. Non può essere questa la risposta alle esigenze dell'industria modernamente organizzata, non può essere questa la risposta alla tenuta sociale civile e di ordine pubblico di un popolo. 

Se non si cominciano ad affrontare queste serie questioni relative al ruolo nelle società contemporanee dei giovani e degli adulti ritenuti inadeguati per le attività produttive industriali, rinsaldando un patto intergenerazionale e di cittadinanza, attraverso politiche sistemiche che vedano formazione imprese e lavoro integrarsi e progettare un sistema nuovo di produzione e di occupazione, andremo incontro a serii problemi di impoverimento di sempre più larghe fasce di popolazione, con negative ricadute sul piano socio-sanitario e di ordine pubblico. Ovvero, di maggiori costi pubblici. Finchè resterà di competenza statale la salute e l'ordine pubblico. Non si sa mai dovremo anche pagarci la sicurezza nei quartieri, come già accade negli USA da parte della popolazione più abbiente che domicilia in zone urbane recintate con il filo spinato.

L'Italia, e l'Europa tutta, è di un progetto che hanno urgente bisogno. Un  progetto per un nuovo patto di cittadinanza, dove le politiche di settore si inquadrino nell'indirizzo e negli scopi di sostenibilità sociale ed economica precisi. 
Dobbiamo ripensare i nostri stili di vita e di consumo, agevolare le forme di redistribuzione dei redditi e non consentire che alcune aree di spesa drenino la maggior parte degli stipendi e dei salari dei lavoratori. Abbiamo bisogno di ripensare i nostri modelli produttivi, gli stessi manufatti che devono essere prodotti, e agevolare le competenze e le maestranze artigianali. Abbiamo bisogno di chiedere che nei manufatti siano presenti diritti, perchè è ignobile la concorrenza sleale di coloro che impiegano, non solo in aree produttive internazionali ma anche nel nostro territorio nazionale, lavoratori a migliaia senza le coperture e i diritti di cittadinanza stabiliti dalla legge, come è stato scoperto qui in casa nostra a Varese nei cantieri edili
C'è terra e c'è lavoro, e molto da fare.

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