venerdì 4 ottobre 2013

CHE UN CAPO POLITICO - di Leonardo Tinelli

CHE UN CAPO POLITICO
subisca una condanna definitiva e consistente senza alcuna ombra di malversata giustizia è quasi impossibile che possa realizzarsi. Se poi il capo politico si chiama S. Berlusconi e il luogo dove si concretizza l’impossibile circostanza è l’Italia, allora si potrebbe giustificare tutto e altro ancora...





In Italia, infatti, l’iniziativa politica è sempre all’ordine del giorno, in forme le più varie: dal solidarismo amicale all’accordo interessato; dalla intenzione forte di regolare i conflitti, alla  non sempre giustificata e comunque migliorabile forma di partecipazione; da una sintesi morale umana che si vuole tradurre in politica alla storicizzazione delle volontà confliggenti; dalla facilitazione comoda del governare alla politica come mestiere per i senza-mestiere; ecc. ecc.

Ma pure tutte queste forme e ben altro ancora hanno qualcosa in comune: la ricerca di un equilibrio che riveniente da un conflitto controllato possa avere la pretesa giustificata di trasformare la comunità e adattare al meglio le esigenze del vivere umano, con gli strumenti dei quali si dispone, secondo le forze che si riesce a tenere insieme fino a modificare lo stesso spirito della politica. Politica che anche quando assume forme le meno forti la riuscita delle modificazioni sociali alle quali anela non avrà necessariamente quale suo obiettivo permanente.

E le forme “in politica” sono decisive. Addirittura fanno politica “in politica” le forme forse di più della comunicazione, in quanto ne sono l’indispensabile contenuto… esteriore. E per intenderle le forme della partecipazione politica e della politica in quanto tale, bisogna avere il possesso della “trasformazione astratta” adottata e di ogni contraddittorietà che possa intervenire in ogni ambito della vita umana. Altrimenti nessuna fiducia nel capo politico potrà maturare né alcuno potrà mai intendere come utile e necessario anche se per il minimo, la pratica politica concreta nelle forme disparate nella quale si esercita.

Così capita di dover apprezzare quale stile popolar-comunista anni 60 la manifestazione a Roma a sostegno dell’innocenza e della volontà di continuare ad esercitare politica di Berlusconi. Stile e contenuti di riferimento dove il senso della storia dominava il cambiamento e lo strozzava inevitabilmente. Come se la forza di una micidiale opposizione a qualcosa, una volta esercitata, non avesse più energia a costruire relazioni politiche e a fare politica.
Si deve considerare così che la forma obbligata con la quale si rappresenta la contraddizione e la trasformazione è lo stesso limite dell’avvertire contraddittorietà e proporre trasformazioni e modifiche.

In questo modo le forme della contraddittorietà sociale, produttive e giuridiche, morali ed etiche, culturali e pratiche raggiungono equilibrio una volta incardinate in un processo di validazione politica e si propongano per una affermazione trasformativa estesa che gode direttamente delle forme stesse della contradditorietà sociale che le ha generate.
Da qui la compiuta storicità di ogni cambiamento. Ovvero la negazione di ogni possibilità ulteriore che non sia la apertura di una contraddittorietà ancora più consistente che metta in moto soggettività nuove in grado di oggettivare territori di trasformazione nuovi dove a tutti deve essere riconosciuto ruolo trasformativo e ideale, particolare e universale, dove quell’oggettivo diventa adeguatamente abitabile.

Qualsiasi “dominio politico”, dunque, consegue già il suo risultato decisivo appena la contraddittorietà di cui è portatore si incarna nelle trasformazioni astratte e concrete (!!!) che le forme della politica oggettivano.

In questo senso l’età berlusconiana ha già portato in forme politiche di trasformazione compiuta quanto era contraddittoriamente vissuto nella società italiana.
Questi in sintesi i risultati:
·       protagonismo politico generalizzato di larghe parti della società italiana poco avvezze all’esercizio della politica (l’ultima “scuola estiva” di politica del PdL a Sorrento -luglio 2013 - con i giovani a scoprire che la “politica non è sporca” !? ne è la dimostrazione);
·       trasferimento dei processi di valorizzazione economica dalla produzione alla rappresentabilità del valore dove il carattere astratto della misura contribuisce ad una diffusione più larga della ricchezza e della povertà;
·       rallentamento e riduzione controllata della conflittualità sociale sostituendo la oggettività di una condizione con la soggettivizzazione di uno stato sociale e personale;
·       diffusione di contenitori e tempi chiusi delle soggettività esercitate disposti in condizione di continuità e alternativa dove al massimo del gregarismo è associato il massimo della libertà creativa;
·       diffusione della logica dell’allargamento permanente dei diritti nuovi, soggettivi e oggettivi astrattizzando le ragioni del diritto dalla necessità dello Stato, fino alla scomparsa di ogni necessità della relazione sociale e personale.

Queste dinamiche si concretizzano come la stessa riuscita del disegno politico di Berlusconi e, dato che si affermano secondo i caratteri della ricerca del minimo sforzo per il massimo rendimento, sono il limite della stessa condizione che li rende possibili. Non si potrà in altri termini ricercare una linea di sforzo minore senza che lo stesso sforzo venga completamente compromesso nelle sue ragioni.

Una app, ad es., non avrà più, nella moltiplicazione permanente delle applicazioni possibili, nessuna necessità di giustificarsi, dunque di servire a qualcosa. E in generale si potrà dire che, intesa quale ulteriorità la app, come il progressivo aumento del livello di vita e la sua durata, questa è diventata nell’opinione pubblica una “pretesa giuridica” nella condizione della società di massa. La vita lunga di cui… godiamo, così come l’uso di qualcosa che non si sa più a cosa possa servire.

Dice A. Gehlen: 
Sembra che una forma di potere debba valere come legittima in forza di aspettative, incondizionatamente poste, dei suoi successi in campo eudemonistico-sociale, dando per presupposto che, in tal modo, essa stessa si minimalizza, restringe gli ambiti di libertà e tiene conto (del suo contrario!!!) della suscettibilità generale nei confronti di un’intrusione troppo compatta dello Stato!
Dunque, per Berlusconi non  ci potrà essere futuro! Il “successo eudemonistico-sociale” quale “pretesa giuridica” non può essere né “forma di potere minima”, né iniziativa antistatale “incondizionatamente posta”, dato che i “giudici che fanno politica con le sentenze” sono intesi quale espressione di una forma di potere condizionatamente posta e dalla politica necessariamente, alla quale la traccia dell’incondizionato che corrisponde non potrà consentire che un altro potere, quello giudiziario, vinca per essere stato posto incondizionatamente!!!

Dunque, è la politica a… minimizzarsi per vincere su un potere giudiziario posto incondizionatamente!!!

E una politica minima, minimizzata nelle sue espressioni non avrà mai senso, neppure nelle mani del più potente apparato di comunicazione possibile!!!

Politica e giustizia, dunque, restano oggi, nonostante il miglior Berlusconi, due nani che si combattono quando passa loro per la testa che ne possa tornare un vantaggio per una delle due parti. Niente sostiene la forza del diritto, come nulla si apprezza collettivamente a partire dalla volontà politica condivisa.

Questo spiega la richiesta ultima di Berlusconi sull’abolizione dell’IMU e quella ancora più apparentemente indecifrabile del restare leader del suo partito… nuovo!!! E ancora meglio si può evidenziare l’abbaglio di Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera” del 10 agosto, circa il “potere della magistratura” in grado di resistere la politica e le sue volontà di riformarla, come d’altra parte quelle della sinistra di usarla come leva politica esplicita.

Storicamente, dunque, condizionatamente, il potere giudiziario ha sempre vissuto all’ombra del potere di decisione che la politica esercita. Né in alcuna caso l’affermarsi del “potere giudiziario” si è concretizzato senza lo Stato! Piuttosto è vero il contrario. Senza Stato, o con un apparato potestativo minimo, ciò che scompare è proprio quella autonomia della politica ubiqua, dei partiti, delle lobby, che non riesce più a chiamarsi tale, se non legandosi ad un capo al quale offrire la propria delega senza che alcuna proposta politica venga espressa per la comunità intera intorno ad un criterio, il più elementare possibile, di ripartizione di oneri e ricompense. E questo è anche il caso paradossale del “potere giudiziario” attuale, scomparse le divisioni dovute alle correnti interne alla magistratura, ancora più forte si presenta la istanza di un avallo incondizionato che si concretizza in tempi brevi nel ricorso al potere mediatico, in tempi prossimi al tempo della decisione, direttamente alla espressione formale della politica. Esposito docet.

Anche per questa via, dunque, il futuro di Berlusconi è compromesso. Pure considerando come risultato positivo la diffusione dei comportamenti politici ubiqui che hanno ormai, comunque, raggiunto il massimo della espansione possibile, questi stessi non reggono più nessuna espressione politica che ne richiami una qualche condizione unitaria. E diventa del tutto evidente l’incongruenza del come per fare politica bisogna annullarla o esserne i detrattori più tenaci.

Allo stesso modo quando in un ambito destinato ad una sostanziale minimizzazione, che sia la Costituzione o uno Statuto comunale, o la stessa funzione del rex, questi vengono intesi come qualcosa di dato dai quali cominciare, la stessa libertà si riduce sia negativamente che positivamente. Se fosse per la datità originaria dello Stato questa sarebbe oggettiva, dunque universale, compiuta negazione di ogni idea di Stato. Ove, diversamente, per evidente equivocazione sostitutiva, la libertà fosse intesa come una eventualità, una disponibilità, toglierebbe la decisione e la stessa pensabilità, fino alla più spicciola razionalità interessata, dall’ambito delle stesse prerogative umane.

Si affaccia così una essenzialità della politica che passa quasi per naturale: il potere del tempo del decidere/indecidente è essenzialmente un esaltare le parti messe in evidenza e ridurre l’incidenza, di quelle trascurate. Mentre a fatica si considera che la decisione, invece, è la culla etica di ogni iniziativa umana che se pure destinata alla sconfitta e al danno, addirittura all’impotenza, allo sforzo circa la migliore risoluzione chiamerà ognuno. È paradossale come gli studi ultimi sulla decisione, si prenda C. Shmitt, la qualificano solo in ambito politico e paradossalmente teologico e per nulla quale culla etica del fare umano, dove prevale, piuttosto che la scienza dell’errore etico, quella della colpa e della redenzione tramite giustizia. Dove è ancora il tempo della decisione politica a determinare la “forma generale condivisa” di come l’apparato della giustizia e della redenzione possa oscurare opportunamente l’errore e ogni sua espressione quale materia etica assolutamente fuori da ogni possibilità di combinazione con la politica o la giustizia.

Combinazioni e combinatorie che sono messe così, del tutto in una condizione di coerenza impossibile, e massimamente nella politica e nelle forme di autonomia della giustizia. Mentre non si può non tornare a fare presente che la politica è coerente nelle sue istanze di combinazione solo se riesce a unire in una visione collettiva il futuro di una entità sociale memore di incontro e salvezza, espressioni della ulteriorità permanente dello Stato che è già da prima, e sempre, giustizia. 
Lo Stato e la sua immanenza non rincorre, da sé, infatti, le ragioni delle sue origini e della società/comunità quale contraddittorio rapporto tra individuo e collettività, ovvero non può solo ripresentare come se fosse nuova e vecchia insieme, la “società civile”, come se il contrasto fosse la sua stessa natura, o inseguire affannato e impotente il destino utopico della umana specie, ma rappresenta la sua stessa immanenza per ogni incontrarsi degli uomini e nulla potrà sostituirlo se non parzialmente e per poco!!! E fin quando la Politica avrà la forza di coniugare l’immanenza permanentizzata dello Stato e la salvezza  del pensare, quale inevitabile fare che raccoglie le espressioni di quanto all’idea di Stato si lega: la pensabilità di Dio, espressione della sola mente, quanto accompagna e accompagnerà continuamente l’idea di Stato nel Mondo!!! Null’altro serve all’idea di Stato, infatti, se non  la pensabilità unitaria di quanto possa essere pensato e di fatto si pensa! Come pure per sola mente potrà attivarsi Politica e per il nostro destino umano, ogni politica praticabile!!!

Questa l’unica combinatoria giustificabile che accede al “buono e al giusto” del diritto e della giustizia e consente che ricomprendendo nella “politica  potestativa” ciò che se ne affranca, sempre ricorrendo alla “pretesa politica” attivabile sempre nell’ambito del tempo della decisione/indecidente ci si ritroverà nostro malgrado.
L’affermarsi dello stile autocoscienziale in riferimento alla possibilità permanentizzata dell’errore che la dimensione etica essenziale richiama per propria decisiva salvaguardia ha consentito che della economia come della politica e della giustizia non ci sia più alcuna efficacia.

All’opposto di ogni radice della possibilità di errore la trasformazione in impresa e imprenditorialità di ogni fattualità etica che comporta la sopravvivenza ha dimostrato la sua completa disfatta. Paragonata al grado di efficacia economica di ogni aggregazione umana qualsivoglia impresa, comunque organizzata e per come si possa modernizzare rileva limiti insuperabili e inefficacie pesantissime. Sia sul risultato economico sia sui termini particolari del suo esercizio per lo spirito di impresa, la ricchezza sarà sempre contro la povertà e rimarrà un ossimoro insolubile; il lavoro contro l’abilità resterà altrettanto indecifrabile e irrisolvibile; i beni naturali saranno costretti alla dimensione perenne dello scarto; l’uso e la conservazione, in perenne contesa, fino a sovrapporsi e ad annullarsi non avranno più una identità pratica.
La sintesi è drammatica. L’imprendere e l’impresa hanno raggiunto il grado massimo di sviluppo e ormai costituiscono di fronte al tessuto di reciprocità che le comunità ancora conservano una fonte perenne di danno economico in qualsiasi campo si applichino. Le diseconomie ripudiate sono le stesse economie che si avvalorano, ma non certo per l’efficacia del sistema. Bensì per la capacità della comunità di sostenere la logica dello scambio oltre la misura economica interna come acquisitiva ed esterna come comparativa! E tutto questo sia in relazione alla capacità di mantenere attiva la presenza di un bene naturale in qualsiasi stato questo si presenti, sia per quanto riguarda la percezione diretta della ricaduta del bene nelle comunità medesime!

Le comunità umane rappresentano la soluzione. Nate per la sopravvivenza alla sopravvivenza dedicano la loro stessa esistenza.

Nella specie etica ad es. il “femminicidio” non è altro che la contestualizzazione all’oggi del “delitto d’onore”!!! Cambiano i codici di riferimento alla colpa e alla redenzione, ma la materia etica resta ancora oscura e maggiormente oscurata dalla evidenziabilità del fenomeno fatto passare per nuovo, che se disegna la vittima e il colpevole non riconduce a nessuna materia unitaria il fenomeno, figurarsi la sua essenzialità dinamica e la sua contestualizzazione.

Resta così evidente come sia l’affermazione del “fenomeno nuovo”, sia la “generalizzazione dei diritti nuovi”, che tra l’altro non si capisce dove siano esercitabili se non in territorio difensivo, cautelativo, dunque minore e circoscritto (e un diritto circoscritto non è altro che la contraddizione della libertà che crede di sapere di se stessa, fino all’assurdo del sapere o del non sapere di esercitarsi!!!) e dunque il sistema massimo di riferimento, la cosiddetta democrazia liberale, viene a trovarsi completamente compromesso pur non avendone nessuna intenzione, né mai alcuno avesse mai avuto pretesa di osare tanto!!!

Questa la cella stretta di Berlusconi. Da un lato reclama la democrazia che il… popolo votante gli consegna, dall’altra, quale supremo principio di libertà non saprà mai dove applicarla, come usarla!!! Visto che la democrazia come ogni altra forma di dominio non accetta di essere divisa e compartimentabile a piacere o a comando.
Da ogni parte la democrazia sfugge, appare grandissima e si dilegua ambigua; è ciò che continuamente auspichiamo in caso di impotenza, ma essa stessa rifugge dall’esercizio diretto della forza, fino a depotenziare ogni iniziativa, fino allo stesso spirito di impresa.

Invocarla per Berlusconi, dunque, un suicidio… annunciato, obbligato. Non va oltre i confini della ripartizione… interessata a comparazioni esterne mondiali delle bande di trasmissione televisive. Ma di questo oscuramento della… democrazia nessuno parla e nessuno chiede!!! E… mancando la democrazia la stessa impresa non sa dove applicarsi!!!
Bisognerà essere muti, sordi e inabili. Ma su questo la… democrazia ha già lavorato.

Il “grado massimo di politicizzazione” ottenuto da Berlusconi, di per sé non superabile, in nessuna maniera è compensato/compensabile se non dall’abbassamento/elevazione dei criteri di giudizio del… “popolo delle… libertà”. In altri termini, acquisito “il grado… minimo di competenze e il grado massimo di presenza” il “giudizio del… popolo delle libertà” sarà sempre disponibile e adeguatissimo. Tutti in piazza e tutti a casa!!! Ma spinto in queste atmosfere il… “popolo delle… libertà” non ritrova più e immediatamente gli appoggi dei quali si è sempre servito. Ovvero non riconosce più “la propria antropologia”, dovendo individuare il nemico nell’amico, il privato nel pubblico e… lasciamo perdere… l’universale!!!

Dunque il “grado massimo di politicizzazione” raggiunto non produce più nulla, non è più la leva efficace in grado di garantire l’agibilità politica, la decisione politica. Capacità e forza ricercate, da tutta la politica del “secolo breve” e precedenti nel “popolo delle… libertà” e giammai nell’origine in atto dello Stato che impone a tutti riconoscimento e reciprocità permanenti di ogni condizione, ovvero di ogni storicità che non ha da poggiarsi sull’intero passato che la ha generata e che continua a generarla.
E forse bisogna dire che la contesa con il potere per il dominio ha scelto la via facile della politicizzazione delle masse piuttosto che la regola della giusta contestualizzazione. Ovvero la cultura piuttosto che la politica… delle libertà e dei diritti uguali.

La nuova scoperta di Machiavelli che si deve a M. Viroli, impone di ritenere che la fortuna e il tenere in politica valgano più dell’occasione ricercata e dell’apprezzamento emotivo.

La “fortuna” in Machiavelli è la accettazione e lo studio dell’errore etico quale portato permanente della decisione. Di quella insopprimibile necessità dell’azione che nessuna “società civile” sarà in grado di ordinare anticipatamente e la politica di parte orientare ideologicamente o secondo lo spirito deficiente di impresa!!!

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