lunedì 21 gennaio 2013

LA FEBBRE TEDESCA E IL DETERIORAMENTO DEMOCRATICO INTERNAZIONALE: la questione dei dazi e del Made in Italy, e l'ECOLABEL

In questi giorni si sono letti molti blog (anche di quelli presenti sul nostro blogroll) con post che commentano i dati economici del 4° trimestre 2012 della Germania. Segnano un rallentamento (appena lo 0,5% di crescita di PIL). E ciò, anche se non è l'unico motivo, la Merkel lo sta pagando sul piano del consenso, così come risulta dai risultati elettorali regionali in Sassonia (clicca qui per i risultati)

Sulla situazione economica della Germania, oltre che averne dato sintetica ma efficace informazione kthrcds in un commento al post La tragedia della Grecia, sempre in riferimento alla Grecia ne avevamo dato informazione in questo altro post, L'oro della Grecia, dicendoci preoccupati anche della situazione della Francia.

Dismettendo i panni di coloro che, mal comune mezzo gaudio, sono contenti che dalla situazione di crisi europea non sia immune manco l'austera e integerrima Germania, preferiamo invece indossare le ragioni di coloro che sono particolarmente preoccupati nel verificare che l'Europa non sta affatto affrontando la situazione nella quale versa, e sta provando a tirare a campare. Elezione dopo elezione, così come si celebrano nei paesi europei. Senza che nulla di nuovo e di buono veramente emerga. E senza che i Paesi che assurgono ad essere guida di questa Europa sappiano veramente indicare una via di uscita che non sia ancora una volta sparare qualche proiettile in Africa o pensare unicamente al proprio tornaconto di consenso elettorale prossimo venturo, gabbando i soliti noti e foraggiando i soliti ignoti.



Ad ogni modo, solo per insistere un po' sul tema, a sinistra è possibile verificare che, rispetto ai Paesi dove le bolle immobiliari sono oggi causa delle sofferenze delle banche private e dei redditi dei cittadini, la Germania ha evitato di imbarcarsi in questo tipo di speculazioni sul proprio territorio. L'Economist, da cui riprendiamo il diagramma a sinistra, sta a dimostrare che mentre in Paesi come la Spagna, la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia il costo delle abitazioni dal 1975 ad oggi è cresciuto anche del 150%, in Germania dove già da tempo di costruiscono abitazioni in classe energetica elevata, il costo delle abitazioni è perfino diminuito. Evidentemente le politiche sul lavoro e sul welfare molto radicali effettuate negli anni scorsi sono state accompagnate da politiche di redistribuzione reale dei redditi, conservando il più possibile il potere di acquisto dei salari tedeschi che andavano ad essere ridotti.

Lo stesso può dirsi sulle politiche di diversificazione energetica implementate dalla Germania (leggasi anche il post precedente e anche questo di Pietro Acquistapace per meglio introdursi alla partita energetica internazionale che si sta giocando): non c'è tetto di abitazione  familiare o condominiale che non abbia un impianto di produzione fotovoltaica, o che non abbia una produzione cogenerativa di energia termica ed elettrica, sviluppando estesamente sul territorio  l'autosufficienza energetica. In Italia (ma anche in Spagna) l'economia delle fonti rinnovabili è stata esaurita in appena 3 anni, tutta la filiera è in forte crisi, è stata oggetto di forti speculazioni internazionali derivanti da fondi d'investimento asiatici russi ed europei. Poco ne hanno beneficiato le famiglie e le imprese. Molto chi ha investito (fondi finanziari e multinazionali dell'energia) nei parchi fotovoltaici a terra, cui è tappezzata la Puglia, che come modello di utilizzo delle fonti rinnovabili è da contrapporre a quello lombardo, quest'ultimo fatto di piccoli impianti molto distribuiti sul territorio (ma non perchè siano stati più bravi, ma unicamente perchè non c'era territorio da occupare rispetto alla Puglia). Ma se il modello energetico di taluni aspiranti politici è quello della Puglia, c'è sta stare freschi.

Rispetto alla questione monetaria, che tanto sta appassionando gli italiani,  l'uscita dall'area euro potrà, forse (dato che nulla di certo esiste sui rischi cui si andrebbe incontro derivanti da questa opzione), salvare provvisoriamente le economie di qualche Paese, con il ritorno alle monete nazionali e alle politiche inflattive e svalutative. Quando avevamo ancora la lira ne sono state adottate, e sono state pagate  solo dai lavoratori (a beneficio di imprese e produzioni non più competitive nell'economia del libero scambio globale): a onor di memoria vogliamo ricordare le due maggiori svalutazioni della lira, quella del 1982  che fu pagata dal taglio di tre punti di scala mobile con il cosiddetto decreto di san valentino dell'allora governo Craxi e con la contrazione salariale che provava a spegnere il galoppo inflattivo, e quella del 1992 che vide l'istituzione della concertazione salariale e degli aumenti salariali non più indicizzati attraverso la scala mobile, i cui effetti immediati furono la contrattazione degli aumenti salariali agganciati alla inflazione prevista dalle leggi di bilancio, ma non a quella reale). Oltretutto, le politiche svalutative poco aiutano le imprese a maturare politiche di investimento tecnologico ed organizzativo, ma semmai "inquinano" il mercato produttivo con imprese a basso investimento tecnologico e basso capitale umano occupato (ovvero, che non hanno bisogno di occupare laureati e professionisti, come dimostrano i dati italiani a fronte del minor numero di laureati rispetto ai Paesi europei omogenei ha il più basso tasso di occupati laureati nelle aziende). Invece, per capire come attorno alle politiche monetarie si giocano gli equilibri geopolitici e strategici globali può venirci utile leggere questo breve scritto di Antimo Verde sulla prima grave crisi valutaria della lira nel 1962 (nel 1959 essa era appena entrata fra le star currency) che l'allora Governatore della Banca d'Italia Guido Carli sventò accordando all'Italia un grosso prestito in dollari (che non verrà comunque utilizzato ma che bloccherà la speculazione sulla lira) proveniente dagli USA, e contro la volontà dei tedeschi che già allora ritenevano che la crisi andasse "aggiustata" e non "finanziata" (e così magari si comprende meglio il senso di questo nostro post sulle relazioni fra USA e Germania negli ultimi 150 anni)

Ma non è di questo che qui vogliamo scrivere, seppur ci è utile come premessa.
Quello che invece ci interessa sottolineare è che l'Europa non riesce a cogliere veramente ed efficacemente la sfida internazionale, oltre che continentale, che le sta difronte. 
Certamente il pensare di occupare un ruolo internazionale unicamente attraverso una moneta forte e solvibile, che così diventa rifugio finanziario globale alternativo al dollaro, e senza detenere nessuna reale risorsa fisica ed energetica propria  (o militare come gli USA) che la sostenga, si sta rivelando una velleità. Pensare che poi questa moneta forte europea possa essere sostenuta attraverso la diffusione di sacche sempre più profonde di povertà sociale  derivante dai tagli di spesa pubblica utile, sia trasversalmente in ogni Paese europeo che geograficamente "dedicata" anche  solo a parte (gran parte, ormai) dell'Europa "fannullona", è veramente  follia. Gli uomini del FMI e della Goldman diffusi nei diversi governi nazionali ed istituiti europei iniziano a dimostrarsi inconcludenti e dannosi, seppur abbiano allentato la morsa per non destabilizzare ulteriormente il quadro politico europeo, e passando al contrattacco proprio con le politiche tedesche (indipendenti dalla Merkel). Questo atteggiamento è meglio funzionale solo agli assi di potere dei grossi gruppi industriali e finanziari internazionali, ma affatto ai popoli e alla salvaguardia dei diritti di cittadinanza.

Quello che è entrato in crisi è il quadro degli scambi internazionali  finanziari ed economici. Sono questi i motivi che oggi inducono taluni protagonisti della politica italiana a parlare di correzione degli scambi internazionali attraverso un inasprimento dei dazi doganali per un verso (gli stessi esistenti prima della grande crisi del 1929, e che ne determinarono in parte l'evento associato alla crisi di sovrapproduzione di merci, derivante dai progressi tecnologici ed organizzativi  - catena di montaggio e taylorismo - che aumentarono notevolmente la produttività), e attraverso la più stretta regolamentazione del cosiddetto made in Italy, oggi consentito anche alle imprese che semplicemente assemblano semilavorati provenienti dalle aree produttive più competitive sul piano dei prezzi.

Certamente il made in Italy deve essere meglio e più efficacemente tutelato ma non è semplice. Nella ripartizione dei costi di produzione di una qualsiasi merce made in Italy, cosa deve farla da padrone? La produzione (lavorazione delle materie prime) almeno dell'80%  - poniamo ad esempio - dei componenti in distinta base di un prodotto? Questo è possibile, ma quali ripercussioni si avrebbero nello scenario degli scambi internazionali quando si riducono gli scambi commerciali unicamente all'importazione delle materie prime per essere lavorate poi in Italia? E per fare questo, cioè attribuire l'etichetta di Made in Italy solo alle merci che hanno in distinta base almeno l'80% del costo di lavorazione e produzione in Italia, l'incidenza del costo del lavoro consentirà a queste merci di essere poi competitive, anche lasciando stabili i costi delle materie prime ai livelli attuali e senza gli eventuali aumenti che ne potrebbero derivare per stabilizzare le partire correnti dei bilanci statali?
E', questa del Made in Italy, una questione spinosissima. Cioè, se lasciare che sia soltanto un marchio affidabile di qualità (un po' quello che avviene con le merci tedesche, in gran parte prodotte in Cina ed assemblate in Germania ma che stanno facendo comunque declinare la qualità intrinseca e classica delle produzioni tedesche), oppure a fronte dello scenario economico internazionale che vede l'emergenza di nuovi ceti ricchi globali restringere l'attribuzione dell'etichetta di Made in Italy (naturalmente violando le normative europee a riguardo) e puntare sulla internazionalizzazione delle nostre produzioni di maestranza? Sarebbe un'occasione ghiotta non solo per il nostro artigianato e per la PMI di qualità, ma anche per la costituzione di società di servizio adatte all'internazionalizzazione delle produzioni (lo strumento delle reti d'impresa deve anche essere visto in quest'ottica consortile). Ma parimenti si renderebbe necessario da parte delle imprese produttrici effettuare forti investimenti tecnologici ed organizzativi cui non sono abituati. E' per questi motici che si prediligono le politiche svalutative che rendono senza fatica (o meglio, questa sostenuta solo da alcuni blocchi sociali) ed immediatamente le proprie produzioni competitive.

Rispetto invece alla questione dei dazi, questi già esistono, seppur non su tutte le merci e non nelle entità applicate ed inasprite (ma solo recentemente) dagli USA. Ad ogni modo, il notevolmente più basso costo del lavoro e burocratico dei Paesi economici emergenti può assorbire anche dazi che dagli attuali 5-10% applicati alle merci extraeuropee li vedesse anche raddoppiare. Gli effetti poi sarebbero quelli di rallentare i processi di democratizzazione che in talune esperienze produttive sono già avvenute, vedasi la Romania e altri Paesi dell'est europeo, dove gli aumenti salariali derivanti dalle lotte operaie hanno determinato un raddoppiamento dei salari rispetto a 10 anni fa (anche se ancora ancora dal 30 al 40% inferiori a quelle italiane, e molto di più rispetto alle retribuzioni tedesche o francesi).
Ma l'entità dei dazi a quale criterio dovrebbero fare corrispondenza? E quali effetti provocherebbero su un'Europa che non possiede risorse minerarie ed energetiche (in soldoni le materie prime) sufficienti? L'innalzamento dei dazi doganali comporterebbe anche una reazione di innalzamento dei prezzi delle materie prime?
Pensiamo di sì: se non si stipulano accordi commerciali che governano le politiche daziarie standard, gli effetti potrebbero essere quelli di una produzione di disavanzi commerciali delle partite correnti, con il rischio di non risultare più competitivi o di scivolare verso relazioni autarchiche.

La questione, piuttosto ambiziosa anche nella formulazione, è quella di stabilire delle quote di importazione libera e senza dazi. Ma questa politica soggiace appunto agli accordi internazionali del commercio. Potrebbe essere una soluzione... ma non è diversa da quella finora stabilita dal tavolo internazionale della WTO, seppur lasciata all'autoregolamentazione del mercato stesso, relegando appunto i governi nazionali solo alle politiche monetarie ma non industriali.

Invece per gli USA e la UE oggi sarebbe il caso di indicare chiaramente ai loro popoli che bisogna uscire rapidamente dalle logiche della produzioni di massa e dei consumi di massa. Modificare gli stili di vita e di consumo è non solo indispensabile per la sostenibilità energetica di un Paese, ma soprattutto per maturare anche una migliore consapevolezza critica sui consumi e la qualità della vita. Non serve lavorare tutta la settimana se poi nei ristoranti al sabato e alla domenica viene smaltito molto cibo non consumato dai clienti. Non serve lavorare e pretendere di guadagnare molto solo perchè non ci sono politiche che consentono di conservare equi rapporti e poteri d'acquisto (costi delle abitazioni latissime ed affitti che succhiano metà salari). Non serve fare una vita sedentaria e poi andare in palestra per tenere i propri fisici in tono, quando si potrebbe avere più tempo, lavorando meno, per dedicarsi ai lavori di casa o a coltivare un orto.
Questa quindi la prima scelta da fare da parte di governi seri che nel rispetto dei principi di libertà e di cittadinanza costituzionalmente fissati sanno siglare nuovi patti con il propri popoli.

Ma anche si rende necessario che le merci circolanti nel proprio Paese siano a contenuto di diritto di cittadinanza almeno pari alle proprie internamente prodotte. Un prodotto cinese, cioè di un Paese dove i diritti di cittadinanza non sono pari ai nostri, possono essere importarti paritariamente rispetto a quelli prodotti per esempio dal Brasile o dall'India?
L'Europa ha prodotto uno strumento che potrebbe efficacemente essere applicato (ed anche esteso ulteriormente nella definizione dei criteri che lo fissano), e che si chiama Ecolabel.
l'Ecolabel è però una certificazione spesso non obbligatoria e richiesta facoltativamente dalle imprese importatrici, e quando obbligatoria lo è nulla impedisce che queste certificazioni ambientali (la ISO 14000) possano essere "acquistate" senza che tutto corrisponda la vero.
In secondo luogo a questo tipo di certificazioni, che dovrebbe essere resa obbligatoria per legge per tutte le importazioni e prevedere degli organismi nazionali che periodicamente verificano attraverso ispezioni in fabbrica che queste norme siano rispettate per i produttori che chiedono di poter commercializzare con l'Italia, dovrebbe anche sommarsi un'altra certificazione che valuti lo stato di estensione dei diritti di cittadinanza esistenti in quello Stato da cui importiamo quelle merci. Risulta molto difficile competere, è vero, rispetto a Paesi dove non esistono diritti democratici e di cittadinanza, dove le leggi sulla sicurezza e la salute di chi lavora e dell'ambiente sono sistematicamente violate, dove i lavoratori non godono degli stessi diritti di cittadinanza. Parametrizzare questi caratteri è possibile. E già avviene. Impedirebbe di importare la compressione dei diritti nelle nostre democrazie, che viaggia insieme a queste merci. Come consumatori compulsivi abbiamo smarrito queste consapevolezze, e smarrendo queste abbiamo smarrito il senso del diritto che ogni merce racchiude.

E' per questo che i padri costituenti vollero che il LAVORO fosse fondativo del patto di cittadinanza.

1 commento:

N.O.I. - Nuova Officina Italiana ha detto...

“A dicembre la produzione industriale è calata del 10,6 per cento, mentre il tasso di disoccupazione raggiungerà probabilmente il 15 per cento. L’inizio dell’anno nuovo ha portato la notizia di un’incombente crisi dell’impiego”, scrive il quotidiano sottolineando che il 2013 potrebbe essere “più difficile per l’economia polacca rispetto ad altri anni di crisi”. Uno dei motivi è legato al “drammatico” rallentamento economico in Germania, principale partner commerciale della Polonia. Le ultime previsioni parlano di una crescita di appena lo 0,4 per cento del pil tedesco, e non dell'1 per cento come attestavano le stime precedenti.