giovedì 25 ottobre 2012

VIVERE O LAVORARE, ovvero Sulla Struttura dell'Esperienza Etica (1)



“non sei al mondo per lavorare, ma il lavoro ti serve per vivere”
Questo leggevo ieri sera sull'ottimo  blog "diario della disoccupazione" (nel blogroll), redatto da una giovane donna da quasi un mese in cerca di occupazione, dopo il mancato rinnovo del contratto a tempo determinato in uno di quei innumerevoli call center (di assistenza clienti, di telemarketing, e quant'altro) che affollano le vite professionali e lavorative dei giovani di oggi come anche di quelli di ieri.

Ecco, il post della giornata da cui traggo l'espressione è intimo, rispettabile per la manifestazione emotiva e partecipativa che in quella scrittura ne scaturisce e che vuole condividere. Ma non è condivisibile per quella frase sopra riportata del lavoro per vivere, poichè essa (la più diffusa sulle labbra di coloro che "provano" a trovare le ragioni del proprio fare) funzionalizza il lavoro ad un qualcosa (vivere, essere liberi, o quel che vi pare). Invece è vero che senza lavoro, senza un’attività pratica e intellettuale che ci gratifichi umanamente, nessuna realizzazione identitaria è possibile. Ogni volta che percepiamo il lavoro come funzione della sopravvivenza stiamo svilendo il lavoro e differendoci nella funzione che la “struttura” che lo detiene e lo dispensa agisce su ognuno. 


E così mi è ritornato in mente il libro che ogni casa dovrebbe avere nella sua biblioteca, Se questo è un uomo di Primo Levi. Un libro che, con l'aridità emotiva necessaria affinchè sia resa tutta la consapevolezza dell'esperienza dei campi di lavoro concentrazionari, è la descrizione della quintessenza e dell'archetipo estremo e radicale della concezione moderna e contemporanea del lavoro e dell'attività umana del fare , nella scomparsa totale del Soggetto che fa. Quindi senza richiamo alcuno al valore umano della realizzazione delle cose... della vita. Anzi, questo lavorare (e l'organizzazione di questo lavorare che ne deriva) è ripiegato e finalizzato tutto al "consumo" e all'"annullamento" di ogni esperienza di vita. Quindi alla morte. 

Il campo di concentramento da lavoro è l'espressione più netta ed indicativa dello svilimento che, attraverso la funzionalizzazione biologica e sociale dell'attività umana della laboriosità, si è adoperata del lavoro e dell'uomo al lavoro. Questa metafisica e questa ideologia del lavoro, riposta tutta nella frase che sovrastava il cancello d'ingresso ad Auschwitz e che quivi ne è stata praticata, ci ha impregnato fino in fondo le coscienze: lavorare non è più l'agire del Soggetto, ma il ripiegamento oggettivo a tutte quelle forme e vincoli cui l'uomo ha sempre provato a liberarsi. Il lavoro non è unicamente necessario per procurarsi il cibo, o per ripararsi dalle intemperie, ma per l'uomo è anche di più: è la possibilità di realizzare la propria personalità, la possibilità etica di costruire un criterio (la legge) della propria azione. E di condividere questa azione etica con gli altri uomini, sapendone riconoscere la stessa struttura di (auto)determinazione. E sapendosi dare, con la libertà e la creatività che è propria dell'azione e della realizzazione umana, eticamente fondata, le leggi per regolare il patto sociale che lega ogni uomo all'altro uomo. 
E' su questo fondamento etico  che l'art.1 della nostra Costituzione, fonte primaria del diritto prima di ogni deliberazione di diritto internazionale ratificata (la quale deve comunque essere, come disposto dall'art. 11 della stessa, in linea con gli stessi principi costituzionali italiani senza violazione alcuna), sigla il patto di cittadinanza fra le popolazioni italiane. Nessuna Legge può darsi prima scavalcando l'uomo e la sua operativa azione di autodeterminazione, ma essa (la Legge) promana proprio dalla sua azione: l'etica è la materia che quotidianamente manipoliamo (nel bene e nel male, e ad Auschiwitz al di qua del bene e del male, come intitola un capitolo lo stesso Levi proprio a sintesi del travalicamento etico avvenuto in quel luogo delle dinamiche del lavoro e dell'inumanità perpetrata attraverso esso) nelle nostre attività. 


Fare o non fare un lavoro non è una questione di essere delicati o schizzinosi, altro luogo comune inflazionato come ogni cosa sia caratterizzata dalla ideologia. Anzi, se l'uomo che lavora non fosse stato ed è ancora "schizzinoso",  oggi non agiremmo "in diritto" affinchè la sua operatività venga effettuata con le procedure che gli consentono  di agire in sicurezza e salubrità, solo per fare un esempio e molti altri se ne potrebbero fare.

 Il lavoro consente ad ognuno di realizzarsi come persone intere. Poi, che alcuni lavori siano stati sviliti, ideologicamente, di dignità è l’altra occasione (persa) di aver potuto imparare un lavoro da mestiere. Ma questa responsabilità la dobbiamo proprio a quella insana idea economicistica che sta tutta in quel luogo comune che ci hanno instillato sapientemente: non sono al mondo per lavorare, ma lavoro per vivere. Questo significativo errore semantico (ed etico) non ci ha fatto intendere come, ad esempio, alcuni lavori manuali ed anche duri (ma niente affatto intellettuali) meritassero maggiore rispetto e considerazione, mentre invece sono stati oggetto di stratificazione culturale e sociale. Ma questo è un altro discorso.

Spero si capisca che è il lavoro e l'impresa che del lavoro ne organizza le competenze che, quali operatività etiche di realizzazione dell’identità e dell'autenticità della persona, dobbiamo con tutte le nostre forze difendere. Il lavoro non è l'esercizio per ottenere una "rendita" utile al vivere, ma ciò che proprio contro la rendita si è sempre battuta: questo è la storia del lavoro, borghese e proletario, e questa è l'etica che ci insegna. Il lavoro ha sempre combattuto le posizioni di rendita, da qualunque parte esse provenissero.

Questa è quindi la sfida che come giovani e meno giovani dobbiamo porre sul tavolo delle argomentazioni ai Fornero, ai Passera, ai Monti, ai Clini, ai Bersani, ai Renzi, ai Vendola, agli Alfano, ai Casini, ai Ferraro e a tutta la compagnia bella … Stanarli nelle loro retoriche, slegare le loro mani, e divincolarli dagli specchi dove provano ad arrampicarsi invece di ragionare di cose serie. E di fare le cose sul serio, nel mentre stanno trasportandoci nell'infimo e nel declino insieme con loro e tutti coloro che adesso ripongono fiducia in queste persone dal sottile spessore etico ed umano, distruggendo impresa e lavoro.


Occorre essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi della ragione, ossia con i capi carismatici (o i salvatori della Patria, aggiungerei): dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poichè è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perchè si acquistano gratis. E' meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione ed il ragionamento, e che possono essere dimostrate e verificate. (ed aggiungerei, falsificate!)
La citazione appena letta è tratta da Se questo è un uomo - Primo Levi, pag. 176 - Einaudi Editore. La avverto discriminate fra il dire ideologico e la faticosa creatività e libertà del fare dell'uomo.
 

Il brano che segue, Fatti un Pianto di Lucio Battisti, è invece dedicato a tutti i retori della schizzinosità. Poichè sarebbe bastato quel pianto e quel singhiozzo che interruppe quel dire giustificativo ed ideologico a farci intendere dello scarso coraggio e della mediocrità di alcune donne ed alcuni uomini che non traggono statuto etico dal loro agire, ma che come servi di qualcos'altro e di qualcun'altro, eseguono ordini secondo il copione rappresentativo che l'opera detta: ad esempio, un pianto. 



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