venerdì 5 ottobre 2012

LECTIO Letture : 2Re 22, 8-13; 23, 1-3; Mt7, 15-20. di Andrea Ponso



“Dai loro frutti li riconoscerete” ci dice il Gesù di Matteo, riferendosi ai “falsi profeti” ma, in generale, anche ad ogni uomo. Lapidaria sentenza, certo, ma non facile da mettere in pratica: con queste parole, infatti, non si intende semplificare la complessità della vita e dell’uomo, riducendola ad un manicheismo privo di qualsiasi fondamento. Potremmo dire che occorre la pazienza della fioritura, della maturazione e anche del taglio e della raccolta  -  è un richiamo non moralistico ma etico, fondato sull’esperienza, sul “sapore” e quindi sul coinvolgimento diretto nel “frutto”. Gesù, infatti, ci indica una strada che non rischiara dal principio, senza pre-giudizi: una via del genere, infatti, pregiudicherebbe l’esperienza e la prova stessa dell’attesa e del “gustare” e “assaggiare”  -  di un sapere come “sapore”. Ci mostra quindi il rischio dell’apertura, oltre a quello dell’attesa. L’albero non è né buono né cattivo in sé. Rischio, apertura e attesa di maturazione valgono anche in rapporto alle nostre vite, non solo a quelle degli altri.


E, capovolgendo la prospettiva da cui abbiamo guardato fino a ora, possiamo dire che i “frutti” vanno lasciati nelle mani di altri, devono farsi cogliere, staccarsi da noi ed entrare in quella rete vivente che è l’etica e la relazione. Un frutto “cattivo”, da questo punto di vista, è un frutto che non matura, che non vuole appunto de-cidersi, recidersi dalle proprie radici per essere libero e raccolto, mangiato da altri; se rimane appeso al suo ramo può seccare nella sterilità di una attesa e preparazione infinita  -  oppure marcire nella foga del possesso, del trattenere tutto per sé, magari nella ricerca della perfezione.
 L’identificazione con il frutto è il male: l’opera va lasciata, lasciata sola  -  la nudità dell’albero dopo i frutti colti o anche caduti invano è lo spazio necessario per nuove fioriture e nuove opere; voler trattenere i frutti, fosse anche per perfezionarli, impedisce il processo continuo di crescita e nuove nascite  -  rattrappendoci in un Verbo coniugato al passato. Forse, gli alberi che non danno buon frutto e che per questo vengono gettati nel fuoco sono quelli appesantiti da troppe remore, centrati sul loro tronco, potremmo dire, magari anche rigogliosi e spettacolari come i “falsi profeti”; oppure quelli secchi e rattrappiti su se stessi, portatori del medesimo carico degli altri  -  vale a dire dell’identificazione con le loro opere e azioni; ma ci possono essere anche alberi sterili come il ventre di tante donne delle Scritture, che il Signore può far germogliare di nuovo nella loro disposizione e disponibilità.
La Legge, di cui parla la prima lettura, è solo lo strumento, il ferro che de-cide, che sfronda mostrando il negativo e prepara gli innesti. L’eccessivo attaccamento ad essa, come ci dice Paolo, non produce la grazia ma la intralcia: essa evidenzia il male, lo rende visibile e sensibile in vista dello Spirito che vivifica, che non è contro la Legge ma la compie, come si compie la pienezza della fioritura e della maturazione, che dipende in gran parte dall’accettazione della pioggia e del vento, del sole e della linfa che vengono da altro e per altro  -  non quindi dal solo lavoro dell’uomo.

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