mercoledì 20 giugno 2012

18 NON E' L'ISOLA BELLA

La nuova legge fortemente voluta da questo governo e dal ministro Fornero è in via di approvazione. E non credo ci saranno le sorprese annunciate dai partiti che sostengono questo esecutivo, il quale vuole presentarsi sul tavolo europeo il prossimo 28 e 29 Giugno con la legge approvata e pubblicata. 
Una parte di questa legge va ad intervenire sulla dualità che si è venuta a determinare nel mercato del lavoro dopo gli interventi legislativi promossi dal Pacchetto Treu del 1996 e la legge c.d. Biagi del 2003. Questi due interventi hanno flessibilizzato i contratti di assunzione nelle imprese, che nelle ipotesi che ne hanno sostenuto l'introduzione si pensava avrebbero consentito una più facile occupazione per i tanti giovani senza lavoro, ridotto la disoccupazione di lunga durata di cui soffre il mercato del lavoro italiano, e favorito l'ingresso nel lavoro delle donne (che in Italia è fra i più bassi).


Quello che è accaduto, invece, è stato tutt'altro (a parte una ripresa delle occupazioni): i giovani prima di vedere la loro posizione consolidata attraversano anche lunghi periodi di precariato (in media 5 anni). La loro posizione pensionistica è andata inquinandosi attraverso la gestione separata dei fondi pensionistici da parte dell'INPS, con il rischio concretissimo di essere poveri adesso ed ancor più poveri quando potranno andare in pensione. Infine, ha indotto nelle imprese la scarsa propensione all'investimento formativo ed alla crescita professionale degli assunti, poichè la flessibilità sia in ingresso che in uscita non agevola questo tipo di investimento, dato che un datore di lavoro sa che un rapporto atipico ha un'alta probabilità di risolversi e terminare. Parimenti, questo mancato investimento a prodotto effetti sulla produttività delle nostre imprese, viziate dall'induzione a ridurre i costi (nei primi tempi meno contribuzione pensionistica, meno costo del lavoro per assenza di tredicesime, malattia e ferie, ecc). Questi risparmi solo da poche aziende sono stati sfruttati per la riconversione tecnologica (di processo) e di prodotto, ma sono andati tutti in parte in nuove tassazioni (IRAP e ICI) ed in parte in maggiori profitti individuali (sia dei managers che degli stessi datori), profitti non reinvestiti ma sfumati nei consumi.
I contratti atipici sono i primi ad essere rescissi nei periodi di crisi come quello che stiamo attraversando dal settembre 2008 (il rischio è 15 volte maggiore di un occupato a tempo indeterminato), non accedono agli ammortizzatori sociali, e creano forti diseguaglianze nella società e nelle famiglie fra lavoratori tutelati e lavoratori affatto tutelati. Quindi, la messa a punto di questi aspetti da parte del ministro Fornero, privilegiando e sostenendo le occupazioni a tempo indeterminato sono il benvenuto. Seppur ancora oggi il 65% degli occupati è a tempo indeterminato, negli ultimi anni ben il 35% è assunto attraverso una giungla contrattualistica e attraverso forme dissimulate di assunzione con partita iva. 
I dati ISFOL-PLUS 2010 sommano al 18,5% gli occupati con contratti a termine, parasubordinati, finte partite iva e part time involontari. Il restante è dato dai contratti di apprendistato (comunque a termine, se non vengono trasformati), e a tempo determinato con promessa di trasformazione a indeterminato.
Per questa pletora di persone la maternità o paternità è assicurata solo se sono stati versati almeno 3 mesi di contributi nel precedenti 12 mesi, il trattamento pensionistico è minore e separata nella gestione INPS (ovvero quando si andrà in pensione si dovrà scegliere da quale gestione percepire la misera pensione), non si godono gli ammortizzatori sociali. Queste minori tutele sono servite unicamente a ridurre i costi di un'industria manifatturiera decotta (cui bisogna sommare i massicci ingressi e le sanatorie di migranti utilizzati anche per questo scopo). 
Questi lavoratori non godono delle protezioni dal licenziamento ingiustificato, ne delle tutele addizionali derivanti dai licenziamenti collettivi. Inoltre, secondo l'OCSE (i dati sono qui), l'Italia è il Paese con i lavoratori a tempo indeterminato meno protetti (dati che tengono conto di 21 indicatori di stabilità e protezione lavorativa).





Parimenti, i lavoratori italiani, rispetto a quelli degli altri Paesi OCSE, godono di maggiori tutele legali, poichè appunto l'art. 18 della legge 300/70 della Statuto dei Lavoratori prevede il reintegro in azienda per i licenziamenti ingiustificati. Sempre che un lavoratore intenda aspettare i tempi biblici dei tribunali, e voglia rientrare in una sede di lavoro che naturalmente non simpatizza più con quella persona.

Ma che cosa è l'art. 18?
Il 20 Maggio 1970 viene approvata la legge nr 300 detta Statuto dei Lavoratori. Suo estensore il socialista Gino Giugni.
L'articolo 18 regolamenta la protezione dai licenziamenti discriminatori ed ingiustificati, prevedendo il reintegro sul luogo del lavoro per il lavoratore licenziato senza giusta causa (la giusta causa può essere, per esempio, la riduzione del personale per chiusura dell'azienda, o per ridotta capacità di produttiva a seguito di innovazione di processo o crisi del mercato, naturalmente dopo il passaggio per gli ammortizzatori sociali previsti), oppure licenziato per non giustificato motivo (sei licenziato e basta, senza che venga eplicitata la motivazione che ha condotto a questa decisione, per esempio ha picchiato un collega o rubato informazioni  tecniche che hai venduto alla concorrenza), oppure licenziato per discriminazione (sei una donna incinta, un marocchino, un mussulmano... un sindacalista).
L'articolo 18 si applica a tutti i lavoratori, ma i dipendenti di imprese con meno di 15 dipendenti (che riguarda quasi il 90% dei lavoratori italiani) in caso di licenziamento ingiustificato hanno solo diritto ad un indennizzo che solitamente è stabilito dai giudici (o in accordo dalle parti) in circa 6-8 mensilità. Resta comunque per il lavoratore la possibilità di rivolgersi ad un tribunale e richiedere il reintegro. Solitamente le vertenze vengono ugualmente avviate dai lavoratori poichè, in caso il giudice stabilisca l'illegittimità del licenziamento e nei rari casi eventuale reintegro, il lavoratore può opzionare per un risarcimento indennitario più alto.
Per i lavoratori assunti nelle imprese con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento di occupati a tempo determinato, ebbene questi non godono della tutela dell'art. 18. Per gli occupati a tempo indeterminato, per licenziamenti (con giustificato motivo) fino a 5 dipendenti viene applicato l'art. 18, per più di 5 dipendenti si apre la procedura dei licenziamenti collettivi, che investono le parti sociali, gli organi istituzionali (prefettura, regione e provincia, ecc). In caso di licenziamenti senza giustificato motivo, viene applicato l'art. 18. Il lavoratore procede avviando una vertenza, e in caso di riconoscimento della illegittimità, ritornare nel posto di lavoro (o accettare un'indennità).


I licenziamenti sono illegittimi perchè discriminatori quando riguardano il sesso, la fede religiosa o politica del lavoratore, la partecipazione agli eventi promossi dal sindacato o dalle parti politiche costituzionalmente riconosciute.
I licenziamenti disciplinari, invece, intervengono per giusta causa nei casi di risse sul luogo del lavoro, furti di materiale o informazioni, assenza ingiustificata dal lavoro, o anche abbandono del luogo del lavoro senza motivo.
I licenziamenti per motivi economici sono quelli che intervengono nelle crisi aziendali, o anche perchè il lavoratore non è possibile ricollocarlo in altre mansioni essendo venuta a mancare, per innovazione tecnologica, quella in cui era occupato.
Il licenziamento può anche intervenire per inadeguatezza ed inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore. E dopo sei mesi continuativi di malattia nell'anno solare. Legittimamente.

In linea teorica, se le imprese potessero licenziare senza incorrere in una serie di problematiche legali, potrebbero assumere quando hanno richieste produttive, e licenziare nei periodi di crisi e di recessione. Se però licenziare costa, le imprese assumono meno nei tempi buoni (facendo fronte alle richieste con personale interinale, a tempo determinato o ricorrendo agli straordinari), e licenziando il meno possibile nei tempi di crisi (sostenendo questi periodi recessivi con la cassa integrazione per tutti i lavoratori o a rotazione). Nel caso sia facile licenziare, è chiaro che il lavoratore licenziato nei periodi di crisi avrà maggiori difficoltà a trovare lavoro. Nel caso, invece, sia oneroso licenziare, i datori di lavoro richiederanno politiche di flessibilità di entrata nel lavoro, e sosterranno i momenti di maggiore richiesta di merci con lavoratori precari, venendo quindi a determinare un dualismo di trattamento nel mercato del lavoro fra lavoratori tutelati e non.

In linea teorica, ai lavoratori converrebbe un mercato del lavoro più tutelato, anche se questo si traduce in minore mobilità nel mercato, minori opportunità di carriera e di crescita retributiva.
I critici dell'art. 18 sostengono che le tutele previste da questa norma valgono solo per pochi lavoratori (seppur dobbiamo riconoscere che il metodo è stato in parte esteso anche agli altri, se le dismissioni aziendali vengono concordate con le parti sociali e le istituzioni), ed i costi sostenuti da tutti i lavoratori ed in particolare da quelli meno protetti, e che adesso riguardano particolari fasce sociali della popolazione. Certo, questi costi potrebbero essere ridotti se i processi del lavoro fossero più celeri. Ma ad ogni modo, è indubbio che questo articolo 18, insieme alle altre norme sulla flessibilità del lavoro che nel frattempo sono intervenute, hanno determinato una sperequazione di trattamento fra i lavoratori che determina di conseguenza una profonda diseguaglianza fra gli stessi lavoratori, le generazioni, e la società in generale.



Cosa propone il governo con la nuova legge in via di approvazione nella parte riguardante l'articolo 18?
In caso di licenziamento discriminatorio, se il giudice lo dichiara illegittimo, non cambia nulla rispetto a prima. Al lavoratore spetta il diritto al risarcimento alla reintegrazione e (in caso di rifiuto alla reintegrazione da parte del lavoratore) all'indennità. 
Nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari (giusta causa o giustificato motivo soggettivo), se il giudice lo dichiara illegittimo, è il giudice stesso (mentre prima era il lavoratore) il reintegro con risarcimento (se il fatto non sussiste o non è menzionato nel CCNL applicato). Negli altri casi un'indennità che, a seconda degli anni di anzianità, va da un minimo di 15 mensilità ad un massimo di 27 mensilità.
Nei casi di licenziamento per motivi economici (per giustificato motivo oggettivo), non è più possibile il reintegro, la procedura di licenziamento è resa più rapida, ed è prevista un'indennità di uscita come quella per i licenziamenti disciplinari. Resta in capo al lavoratore la possibilità di dimostrare che il licenziamento per motivi economici serve solo a giustificare un licenziamento disciplinare. In sede giudiziaria, naturalmente.
La ratio del provvedimento è quella, così dichiara il governo, di aumentare la flessibilità in uscita. Il rischio, osservato da alcuni, è quello che i datori di lavoro mascherino licenziamenti disciplinari con quelli economici (in particolare in questo momento di congiuntura di crisi e di recessione), e che stabilendo di fatto che sia unicamente il giudice a stabilire questa dissimulazione del licenziamento, i tempi di decisione giudiziaria si allunghino ancora di più. Il governo a fronte di queste critiche ha dichiarato che emanerà, per le cause riguardanti contenziosi sul lavoro, riti speciali e più brevi di quelli finora sperimentati o che si andrebbero a sperimentare ulteriormente.

Questo lungo post può chiudersi con questa semplice constatazione: l'inutilità ed inefficacia delle leggi di modifica del mercato del lavoro fin qui intervenute (eccetto alcuni importanti elementi) nel consentire maggiore occupazione stabile, e parimenti dell'inutilità ed inefficacia di questo intervento di ridimensionamento dell'art. 18. Tutte queste misure non sono servite, e non serviranno, a farci diventare più competitivi nello scenario del mercato globale, salvo che si reintroducano misure protezionistiche come quelle che Obama vorrebbe scongiurare, come dalle dichiarazioni del 18 scorso al G20, e che stanno diventando l'unica risposta possibile ad uno scenario produttivo mondiale che non credo sia semplicemente da inquadrare nella ciclicità delle fasi di mercato dei beni, mercato che si dice essere saturo ed in sovrapproduzione per un verso, e con una raffreddamento dell'innovazione tecnologica (quella finora prodotta è stata particolarmente indirizzata nell'espansione monetaria ed industriale dei Paesi come la Cina e l'India). 
Credo, invece, che siamo in presenza di un processo di deindustrializzazione e riconversione economica e produttiva, che richiede risposte politiche e legislative diverse. Un patto fra lavoratori, imprese e diritto di cittadinanza completamente da riformulare.
Queste sono le sfide per i prossimi decenni.


Ringraziamo LaVoce.info e Il Progetto Quattrogatti

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