domenica 13 maggio 2012

UN MARCHIO OPEN SOURCE PER UNA MODA SOSTENIBILE, APERTA E PARTECIPATA - di Zoe Romano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo scritto di
Zoe Romano


Nel 2010 Johanna Blakley, direttrice di un think-tank  sui media all’Università della California, ha rivelato di fronte a una  platea nutrita della Ted conference che, l'industria della moda, a  differenza di altri ambiti del settore creativo non produce valore a  partire dalla protezione della proprietà intellettuale: non solo la  maggior parte dei capi e accessori venduti non sono coperti da  copyright, è proprio questa mancanza di protezione che permette al  sistema di essere profittevole.

Grazie  a questa libertà infatti, aziende diverse sono in grado di replicare  capi creati da brand conosciuti in copie più economiche e di renderle  disponibili a prezzi più accessibili, ovviamente senza copiare anche il  logo. Quanto più velocemente gli abiti indossati sulle riviste patinate  e esposte nelle vetrine delle vie del centro senza cartellino del  prezzo, diventano indossabili per tutto il resto della popolazione,  tanto più velocemente, più volte l’anno, diventa necessario gettare i  capi acquistati nei mesi precedenti perché “non sono più di moda”  perdendo la loro aura di “coolness” ed esclusività. In economia questa  strategia applicata su molti prodotti, specialmente tecnologici, è  chiamata obsolescenza indotta e la trovate spiegata in modo chiaro in un  documentario disponibile su YouTube intitolato “Obsolescenza  Programmata - Il motore segreto della nostrasocietà dei consumi”.

Nel suo intervento però la Blakely non si sofferma sulle conseguenze di questo sistema, sulle sue esternalità negative, ossia gli  effetti che l’azione di tali soggetti economici ha sul benessere di  altri soggetti non direttamente coinvolti. In questo caso ci riferiamo  ai lavoratori dell’intero sistema moda, periferici o meno, e agli equilibri ecologici del territorio.

Qualche  anno prima, nel 2005 San Precario insieme a un gruppo di precari/e  (freelance, micro-imprese e collaboratori) impegnati a lavorare durante  la settimana della moda si sono presi la libertà di sfidare la  sfavillante vetrina della Camera della Moda facendo sfilare una finta  stilista all'interno del calendario ufficiale.

Lo  fecero, anzi, lo facemmo per denunciare le condizioni di precarietà di  tutta una serie di lavoratori che solitamente non sono nell'elenco dei  classici sfruttati dal sistema moda. Nelle azioni di boicottaggio o  sensibilizzazione, l’attenzione di solito si focalizza sulla vita nelle  fabbriche del sud del mondo che provvedono alla manifattura degli abiti  pensati e poi venduti in Europa e negli Stati Uniti. Durante  quell’azione invece l’obiettivo era mettere al centro anche un altro  tipo di lavoratore, quello classificato come parte delle industrie  creative e che contribuisce a creare e comunicare brand, progettare e  costruire palchi per sfilate, disegnare gli abiti, creare mondi di  esperienze indimendicabili per rafforzare un legame speciale con i  “lovemark”.

Nei  giorni successivi all’azione ci rendemmo conto di come il marchio  Serpica Naro (anagramma di San Precario) registrato all’ufficio marchi e  brevetti di Milano, per partecipare ufficialmente alla settimana della  moda - il viso di una donna asiatica stilizzato in bianco e nero con una  cicatrice sulla guancia sinistra - aveva subito una profonda e  interessante trasformazione.
Dal  suo essere un marchio come gli altri, costruito per piacere e farsi  notare tra gli altri, era diventato espressione di chi l’aveva costruito  ed iniziava ad essere sfoggiato per esprimere un nuovo modo di  intendere il proprio lavoro e anche la stessa moda.

E’  in quel contesto che sono iniziate le riflessioni per ripensare un  sistema moda mettendo al centro sia la condivisione di processi, risorse  e infrastrutture, sia le piccole produzioni artigianali sparse sul  territorio ma con la capacità di fare rete e mettere a valore le proprie  relazioni. Il brand poteva diventare quindi uno strumento collettivo  per creare un legame più stretto all’interno del network di relazioni e  un’efficace strategia comunicativa per rendersi visibili all’esterno,  funzionale all’esprimere un’idea di flessibilità del lavoro oltre la  precarietà e un’attenzione alla filiera corta sostenibile.

Negli  anni successivi abbiamo visto svilupparsi la possibilità concreta di  realizzare quello che fino a quel momento era stata solo un’idea. Nel  2006 il collettivo rimasto dall’azione di Serpica Naro si è riunito in  associazione no-profit e ha lavorato insieme ad alcuni avvocati  specialisti in Creative Commons per realizzare una licenza che liberasse  il marchio. 
Oltre  a ciò ci rendevamo conto che l’ecologia delle relazioni dei piccoli  produttori stava trovando una rinascita attraverso un rinnovato concetto  di fai-da-te, meno legato a un hobbismo da casalinghe disperate o  dopolavoro per passare il tempo prima di andare al centro commerciale.
  
Il  nuovo contesto del fai-da-te o DIY (do-it-yourself), specialmente  internazionale, si stava riappropriando di un saper-fare perduto nel  rifiuto dei lavori manuali, cercando di superare la riduzione di tutto a  prodotto o servizio che ci aveva trasformato in semplici consumatori,  incapaci anche di riconoscere la qualità dei beni acquistati.
  
Piccoli  laboratori nati nei garage, nelle case, in scantinati cittadini ma  spesso anche in campagna iniziano a connettersi, collaborare e rendersi  visibili grazie agli strumenti partecipativi messi a disposizione dal  web 2.0. Piattaforme di e-commerce connettono direttamente produttori a  consumatori, community online e social networks intrecciano persone con  le stesse passioni che possono scambiarsi istruzioni, codici, trovare  soluzioni e cercare collaboratori.
  
Abbiamo  quindi deciso di spingerci oltre e portare l'idea di marchio  open-source nata in Serpica Naro in una sperimentazione più  istituzionale che ci permettesse di raccogliere più risorse e tempo da  investire in essa. Presa al volo l’occasione di un finanziamento  dell’Unione Europea all’interno di un programma di Life Long Learning,  siamo entrati in collaborazione con 5 partner di 4 stati europei, per  organizzare una piattaforma in cui dare il via a questa fase, più  istituzionale, di un nuovo modello di creazione, produzione, consumo e  formazione continua nella moda sulla base delle riflessioni emerse negli  anni precedenti. Per riuscirci, abbiamo cercato di superare le  inconsistenze del vecchio sistema a filiera lunga affiancandolo ad uno  nuovo, basato su un concetto di artigianato diffuso, ricontestualizzato,  e addirittura potenziato da nuove tecnologie di produzione on-demand  (come le macchine per il taglio laser e le stampanti 3d) e da una  cassetta degli attrezzi di codici aperti (come per esempio cartamodelli,  tutorial ma presto anche software di supporto e macchine tessili  open-source ).

Sono  principalmente tre gli strumenti di cui ci siamo dotati per raggiungere  questo obiettivo. Il primo è il marchio aperto e partecipato. Openwear è  un marchio registrato e liberato attraverso una licenza che ne  permette l’utilizzo nel rispetto di alcuni principi. Individui e gruppi  possono utilizzarlo insieme alla Collezione Collaborativa, il secondo  strumento a disposizione dei membri della community. Il marchio  collettivo infatti vuole dotarsi di alcuni “common” a cui tutti i  partecipanti possono accedere. Una serie di collezioni create in modo  collaborativo durante una settimana di lavoro insieme, con maker,  designer e artigiani ospitati da un’istituzione europea. La prima  collezione è stata intitolata Forward to Basics per concentrare il  lavoro progettuale dei partecipanti verso dei capi base, al di là della  stagione, del sesso e della taglia, con un’attenzione al risparmio di  stoffa e al riciclo.

I  capi delle collezioni collaborative Openwear sono e saranno prodotti in  prototipo i cui codici/cartamodelli con le istruzioni (li abbiamo  chiamati Lookmaps)  sono scaricabili dalla piattaforma. I membri della  community possono utilizzarli per produrre dei capi per sè o da inserire  nella propria produzione dando uno stile specifico o modificando anche  la struttura base del cartamodello (a patto di condividerne i  cambiamenti con il resto della community). Al loro logo affiancheranno  il marchio collettivo Openwear.

Mettere  a disposizione questi “common” ha una duplice utilità perchè oltre a  essere immediatamente utili a chi vuol farne uso, sono lo spunto per  ragionare sulle nuove tipologie di sostenibilità economica che emergono  mettendo in campo processi collaborativi.

Il  terzo strumento è la piattaforma online con cui è possibile dare  visibilità all’attività dei singoli ma anche, e nel futuro speriamo  soprattutto, quella degli hub locali in cui si concentrano le attività  collaborative dal vivo e possono nascere dei circoli virtuosi per  l’acquisto collettivo di materie prime, corsi di formazione, momenti di  vendita diretta e presa di contatto con le persone interessate  all’acquisto dei capi e a momenti di laboratori aperti.

Andare  oltre il sistema moda attuale e concentrarsi sulle piccole produzioni  significa, per esempio, pensare oltre alle collezioni stagionali con  data di scadenza inclusa e ragionare invece per catalogo: una serie di  prototipi a cui aggiungerne altri nel tempo senza farli scadere, ma  continuando a rinnovarli con piccole modifiche o scelte di confezione  diverse (magari utilizzando materie prime di riciclo).  Ripensare la  produzione a partire da questo catalogo potrebbe significare essere più  flessibili nel rispondere alla domanda e non rischiare troppo  nell’investire in qualcosa che non si sa in anticipo se funzionerà o che  è facilmente modificabile in corso d’opera per soddisfare particolari  richieste.
  
Il  brand collettivo diventa così una cinghia di trasmissione per lo  sviluppo di micro-iniziative autosostenibili che condividono uno spazio  pubblico online e gravitano intorno a realtà attive sul territorio per  liberare un patrimonio di creatività e di potenziale innovazione che non  riesce ad essere messo a valore a causa delle difficoltà oggettive nel  superare le “barriere” tra ideazione, produzione e distribuzione di beni  così necessari come lo sono gli abiti. Noi ci stiamo provando!

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