sabato 15 giugno 2013

SE NON C'ERA IL GRUPPO... - Intervista a Corrado Mandreoli realizzata da Barbara Bertoncin e Sergio Bevilacqua (UNA CITTÀ n. 203 / 2013 Maggio)

Anonimo artista - il sogno della vita umana. Dopo il 1533

Con una lunga tradizione di aiuto alle persone disagiate, la Camera del Lavoro di Milano, negli ultimi anni si è trovata a occuparsi di un disagio specifico, quello che crea la perdita del lavoro; l'idea di metter su dei gruppi di auto-aiuto tra disoccupati, a cui partecipano operai, ma anche dirigenti; la sensazione degli esodati di essere stati traditi. Intervista a Corrado Mandreoli.





Corrado Mandreoli è responsabile delle Politiche sociali della Camera del lavoro di Milano.
Corrado Mandreoli è responsabile delle Politiche sociali della Camera del lavoro di Milano.
Corrado Mandreoli è responsabile delle Politiche sociali della Camera del lavoro di Milano.
Corrado Mandreoli è responsabile delle Politiche sociali della Camera del lavoro di Milano.

Da qualche tempo la Camera del lavoro di Milano ha promosso dei gruppi di auto aiuto tra disoccupati. È un’iniziativa nuova nell’ambito del sindacato. Puoi raccontare?
La Camera del lavoro di Milano ha alle spalle una lunga esperienza di sportelli che intercettano il tema del disagio. Conosciamo storicamente il disagio legato a situazioni di handicap, di dipendenza da sostanza, a storie di marginalità, di devianza. Noi ci siamo sempre occupati di questo disagio prendendo in carico la storia della persona e cercando di ricostruire un percorso, eventualmente con un inserimento lavorativo. In questi ultimi anni abbiamo però visto crescere un disagio specifico, quello legato alla crisi e in particolare alla perdita del lavoro. Trovarsi da un giorno all’altro fuori dal mercato del lavoro crea uno smarrimento molto forte, e se a questo smarrimento si aggiunge una fragilità soggettiva, una rete di relazioni compromessa o addirittura assente, se c’è vera e propria solitudine, ecco che questo smarrimento diventa panico. Un panico quotidiano che poco a poco mina la tua identità e le tue certezze; a quel punto iniziano processi che non sono automatici ma riconoscibili: la perdita d’identità appunto, ma anche i sensi di colpa; insomma, una situazione di grande sofferenza.
Questo tipo di disagio lo abbiamo cominciato a leggere nelle storie delle aziende che chiudevano, ma anche nei percorsi di lavoro che si interrompevano. Il giovane precario, suo malgrado, ce l’ha nelle sue corde, ne fa anche un motivo di incazzatura, di rivendicazione. Chi invece ha sempre lavorato e ha raggiunto magari i 45-50 anni, vive questa condizione con grande difficoltà.
È stato alla luce di queste considerazioni che abbiamo deciso di provare a fare qualcosa. Abbiamo cominciato con una grossa azienda, l’Eutelia. In assemblea abbiamo proposto di creare un gruppo con quelli che si sentivano particolarmente male in quella situazione. Questo primo gruppo ci ha dato un’indicazione forte: in situazioni gravi, quando una persona è spinta a prendere in esame anche scelte estreme come quella del suicidio, trovare un luogo alternativo alla propria solitudine, dove si può raccontare ed essere ascoltati può essere decisivo.
Ormai siamo al quinto gruppo e siamo convinti che questo sia uno strumento utile. Utile a che cosa? Non certo a trovare soluzioni al problema che ha scatenato il disagio e cioè la perdita del lavoro. Questo rimane un obiettivo ad appannaggio delle persone in rapporto ai servizi preposti. L’obiettivo di questa proposta è di permettere alle persone che sono in una situazione di prostrazione, piegate su se stesse, invischiate in una spirale distruttiva (tale per cui se anche arrivasse una proposta di lavoro non sarebbero neanche in grado di coglierla perché al primo colloquio verrebbero scartati come soggetti inadeguati) di rimettersi in piedi. Solo così saranno in grado di ricostruire un loro percorso di vita, senza quel peso di angoscia e di sofferenza che impedisce loro di vedere un futuro anche quando sarebbe possibile. Nel senso che noi possiamo anche dire, ed è vero, che rispetto ad altre situazioni, ad altri paesi, non possiamo comunque lamentarci, ma questo ragionamento, fatto a una persona che è centrata sul suo dolore, non ha alcun effetto: se quella persona non riacquista la capacità di fare una valutazione oggettiva della sua situazione tutti i nostri discorsi sono vani.
Bene, il gruppo dimostra che compiere questo passo è possibile. Io ho visto persone arrivare in condizioni davvero preoccupanti, con sguardi tristi, e nel tempo le ho viste di nuovo serene.
Alla fine la proposta è molto semplice. Dove sta la sua forza? Nel fatto che il gruppo riconsegna un protagonismo alle persone in una dimensione collettiva. Anche qui non inventiamo niente, nel senso che la storia del sindacato è fatta di lavoratori che si parlano, condividono i problemi e sulla base di questi scrivono piattaforme e fanno lotte per raggiungere gli obiettivi; in questo ambito il sentirsi protagonisti, il capire che la tua sofferenza non è solo la tua, ma semplicemente il poter parlare ed essere ascoltati... Qualche tempo fa un uomo è arrivato al gruppo e, una volta presa la parola, ha parlato per un’ora. Io mi sono permesso di fare una battuta, ma la cosa grandiosa è che nessuno s’è permesso di interromperlo. Lui a un certo punto si è reso conto e rivolto a tutti ha detto: "Scusate, ma erano sei mesi che non parlavo con qualcuno”. Potete immaginare: ha tirato fuori tutto il mondo che aveva dentro. Questo fatto di essere ascoltati, che può sembrare banale, beh, non avete idea di quanta gente viene qua e alla fine capisci che il bisogno principale era quello di essere ascoltati.
Allora il gruppo, attraverso questa risorsa della relazione, ha questa grande forza di rimettere in piedi le persone facendole sentire protagoniste, facendole condividere una storia che spesso per troppo tempo è rimasta invece solo una vicenda individuale.
Il gruppo ci ha sollecitato anche a fare un ragionamento più complessivo, che stiamo cercando di portare all’interno dell’attività sindacale, cioè che non c’è futuro se non ripartiamo dalla cura della relazione, che vuol dire la cura della condizione di vita delle persone. Stiamo cercando di riportare all’interno dei luoghi di lavoro il tema del clima, delle relazioni, dei linguaggi, degli atteggiamenti. Ma non è un approccio intimista, è proprio riconsegnare alla persona il suo valore.
Come funzionano i gruppi, chi partecipa?
Come dicevo siamo partiti da una grande azienda. Tra parentesi, ora abbiamo altre due aziende candidate, ma non sono aziende in crisi, cioè non hanno un problema occupazionale, bensì problemi di relazione. In assemblea, delle donne si sono alzate dicendo che i ritmi e gli atteggiamenti erano tali che le facevano vivere con senso di colpa la maternità. Anche questo è un problema. A un certo punto però ci siamo detti: "A Milano quanti sono i lavoratori in difficoltà che non hanno dietro la grande fabbrica?”. Allora siamo andati a Radio popolare; il mercoledì c’è un trasmissione che si chiama "La terra è blu”, che riguarda soprattutto persone che hanno problemi di disagio di salute mentale; la conduce Massimo Cirri, che collabora con noi. Allora siamo andati lì e abbiamo lanciato l’idea del gruppo: "Per chi vuole, ci troviamo in sala Teresa Noce”. Ci tengo anche a dire che abbiamo messo a disposizione la sala bella della Camera del lavoro, dove si fanno le segreterie, ecc. Ebbene, dopo questo annuncio sono arrivate parecchie persone. Ora, mentre quelli delle fabbriche, delle aziende, avevano comunque dei codici identificativi, dei linguaggi, una storia comune, qui è arrivato di tutto: il professionista, l’attore, il giornalista, l’insegnante, l’operaio della piccola azienda, il direttore sanitario di un ospedale. Questa miscellanea si è rivelata esplosiva.
L’ultimo gruppo è partito in seguito al protocollo d’intesa col Comune di Milano. La cosa bella è che un paio del primo gruppo sono i facilitatori di questo. Uno dei due quando è arrivato era distrutto. Lo ricordo perché aveva chiamato durante la trasmissione di Radio popolare, aveva fatto una telefonata carica di emozioni, si capiva che era al limite. Se lo vedi adesso...
Come età dei partecipanti, l’affollamento è intorno ai 50 anni, però ci sono persone più vecchie e persone più giovani; ci sono anche alcune donne quarantenni, non c’è il giovanissimo. 
Un gruppo arriva a delle punte di 22 persone e non ne ha mai meno di 15. Complessivamente penso che qui, finora, siano passate all’incirca 150 persone.
Ora anche la Camera del lavoro di Monza vuol far partire un’esperienza analoga. A Lodi e a Parma sono già partiti; ieri qui c’erano quelli della Camera del lavoro di Bergamo. La Camera del lavoro di Trieste ci ha chiesto documentazione... Evidentemente c’è un bisogno diffuso.
Che storie emergono in questi gruppi? Ci sono elementi ricorrenti?
Io rimango sempre molto colpito quando, raggiunto un certo clima di confidenza, qualcuno racconta di essere arrivato a pensare di chiudere con la vita. Sono racconti molto personali, però c’è quasi una ritualità che si ripete. Per esempio, molti parlano di questa preoccupazione di lasciare qualcosa per le persone amate. Per cui raccontano di aver preparato questa cosa e che poi sono andati chi verso il treno, chi voleva affogarsi...
Poi c’è tutto il dramma personale di chi si sente in colpa verso la famiglia. Chi ha la responsabilità di figli piccoli ha il dramma di dover dire loro che devono cambiare lo stile di vita. Non raramente si rompono le relazioni. Se il partner invece riesce a reggere la situazione e a essere comprensivo, si vive sempre male però almeno c’è questa sponda. Certo, il senso di fallimento è sempre presente e molto pesante.
Ci sono anche dinamiche di genere. Se la donna perde il lavoro e invece il marito è affermato, la conversazione tipica è: "Vabbé, non ti preoccupare, tanto ci sono io che porto a casa i soldi”, non capendo quale sia la ferita. Una delle partecipanti a un gruppo raccontava di non riuscire a dormire alla notte e che, oltre al disagio dell’insonnia, doveva sottoporsi al sacrificio di non potersi alzare perché altrimenti disturbava il marito, l’unico rimasto a percepire un reddito. Allora si sfogava: "Sono prigioniera due volte: primo perché non sono capita e poi perché non posso nemmeno fare ciò che almeno allevierebbe un po’ la mia pena”. E rivolgendosi invece a una collega sola diceva: "Tu almeno, se ti svegli alle quattro, puoi alzarti e accenderti la radio o leggerti un libro, non devi render conto a nessuno”. E quest’altra: "Sì, capisco, ma sappi che reggere tutto questo da sola...”.
Questi sono aspetti frequenti. Il ruolo della famiglia, che ci sia o meno, è molto sentito. Poi c’è la questione dell’identità, dei sensi di colpa, il fatto di non essere capito, di vergognarsi di essere senza lavoro, il dover mentire. Questi sono tutti temi ricorrenti. Un’altra cosa curiosa è che il gruppo mette in moto la scrittura: quasi tutti tengono un diario; questa è proprio una cosa che viene spontanea.
Chi gestisce i gruppi?
Noi, io, Cirri, un altro collega. Per esempio, il gruppo degli esodati è guidato da un simpaticissimo psicologo che di lavoro fa il macchinista. È un nostro delegato della Cgil che fa lo psicologo e che però siccome si guadagna di più a guidare i treni, continua a svolgere quel lavoro e poi fa lo psicologo gratis. Come dicevo, ora abbiamo chiesto ad alcuni dei più vecchi, quelli che hanno partecipato ai primi gruppi, di fare da facilitatori.
In genere c’è qualche difficoltà alla partenza, specialmente nel tarare il senso di quello che si va facendo. Qualcuno infatti viene al gruppo pensando sia il luogo in cui si trova lavoro. Non è così. Ecco, chiarito questo, il gruppo va da solo. Bisogna considerare che la condizione di assenza di lavoro slatentizza ferite che non si erano rimarginate; una volta che si parte, vengono raccolte le parole chiave che emergono nelle storie dei partecipanti, che possono essere solitudine, sofferenza, la famiglia, lo psicofarmaco...
Dai racconti viene fuori che la prima risposta che viene data alla sofferenza è chimica, farmacologica, e allora c’è chi l’ha vissuta male e chi invece ammette che comunque la pasticca in quel momento gli è servita. L’importante è non diventarne schiavi. Comunque, a seconda delle parole che emergono, la volta dopo si riprende.
Quanto durano i singoli incontri?
Un’ora e un quarto. A volte si sfora: ci sono occasioni in cui la gente non andrebbe mai via. La frequenza è quindicinale e guai a saltarne uno!
C’è un operaio a cui sono molto affezionato che è dentro il gruppo "misto”, quello dove c’è il primario, il giornalista. Lui è stato licenziato in un modo brutale; è di una concretezza, di una solidità, cioè, solidità... è stato anche ricoverato, però è davvero una persona notevole.
Nel gruppo, per quanto eterogeneo, c’è molta comprensione e questo ci dice qualcosa su tutte queste sovrastrutture legate al ceto, all’appartenenza... Vedere il primario che dialoga con questo operaio, e che si capiscono, perché l’operaio, nonostante l’evidente differenza dei redditi, capisce cos’ha significato per il primario dell’ospedale l’umiliazione subita.
Sono momenti anche emozionanti. Voglio raccontare un aneddoto sul senso del gruppo. A un certo punto all’operaio è stato prospettato un colloquio. Al gruppo è dunque venuto a raccontare dell’avvenuto incontro e della sua speranza che la cosa andasse in porto. Lui è anche invalido, quindi categoria protetta, però ha una sua professionalità.
Bene, io di solito la mattina vado su presto; il gruppo parte alle dieci, però chi non ha niente da fare è qui già un’ora prima e allora, nell’attesa, ci si beve un caffè e si fanno quattro chiacchiere. Quella mattina Leonardo non c’era. La cosa mi ha stupito perché è uno di quelli che arrivano per primi. A un certo punto arriva, ma con una faccia... Si siede -non era ancora iniziato il gruppo- e mi dice: "Ero sulla banchina della metropolitana e mi è arrivata la telefonata che è andata male”. Mi fissa negli occhi e continua: "Mi sono detto: al prossimo treno mi butto sotto. Poi ho pensato: però c’è il gruppo...”. Mi ha detto: "Corrado, se non c’era il gruppo, io...”.
Che durata hanno i vari gruppi?
Tieni conto che il gruppo vecchio si vede ancora. L’unico che si è chiuso veramente è quello dell’Eutelia, anche se un paio di partecipanti continuano a essere nei gruppi. Tutti gli altri, a distanza di un anno e mezzo, vanno avanti.
L’organizzazione sindacale non si è mai preoccupata di alcune tipologie di lavoratori, penso al dirigente licenziato, per esempio...
Al gruppo partecipa anche una persona di Assolombarda, qualcuno che in effetti siamo abituati ad avere come controparte nelle trattative. Dentro a questo ragionamento la questione di fondo è sicuramente il lavoro, ma la cosa che nel gruppo emerge di più è la dimensione della persona. Il primo maggio abbiamo messo in piedi un’iniziativa dal titolo "Insieme si può”, proponendo alle associazioni che si occupano di soddisfare prevalentemente bisogni materiali, come la Caritas, il Pane quotidiano, la Casa della carità, ecc., di metterci assieme perché tra i bisogni, quello di essere ascoltati, quello delle relazioni sono dirompenti. Abbiamo iniziato anche lì un percorso.
A seguito di queste esperienze abbiamo pensato di mettere in campo un’iniziativa analoga anche con i colleghi che sono agli sportelli e che ogni giorno, dalla mattina alla sera, ascoltano storie drammatiche. Abbiamo provato a coinvolgere quelli dell’Inca, delle politiche sociali, dell’ufficio stranieri, lo sportello donna, ecc.; è bastato metterli insieme per far emergere l’angoscia di un lavoro in cui tutti i giorni ascolti situazioni difficilissime e l’unica cosa che puoi fare è cercare di mettere una pezza.
Si tratta ancora di "lavori in corso”, però è stimolante la quantità di cose che questi esperimenti stanno mettendo in moto. È significativa anche l’attenzione che stiamo suscitando: da quando siamo partiti in molti sono venuti a vedere cosa stiamo facendo.
Lei però mi chiedeva dell’utenza, che non è quella tipica del sindacato, perché qui non viene solo l’operaio, ma anche il dirigente o la partita Iva. Ecco, questa parte la lascerei ancora un po’ sotto osservazione. Non voglio trarre conclusioni affrettate.
Tradizionalmente la formula dell’auto aiuto è utilizzata in ambito sociale. Voi l’avete riproposta in un contesto inedito...
In realtà, questa riflessione e questa pratica fa parte della storia del sindacato. Non è una novità. Negli anni Settanta facevamo i "gruppi di operai omogenei” nelle fabbriche dove si lavorava a contatto con sostanze cancerogene; lì le persone si raccontavano i sintomi delle loro malattie. Sono state esperienze forti e importanti. È vero che nel tempo sono intervenute delle trasformazioni, dei processi che hanno messo l’organizzazione sindacale davanti a questioni nuove.
Quando io sono entrato in fabbrica si parlava di tutto, le assemblee duravano una vita. I processi di individualizzazione, che sono processi legati a mutamenti (mi verrebbe da dire: a sconfitte) culturali hanno portato le persone a essere molto più individualiste e per un’organizzazione che associa persone questa è una bella sfida. Per me è ancora una cosa straordinaria che la Cgil abbia oltre cinque milioni di iscritti. Certo, oggi si fa molta più fatica. Noi abbiamo sempre combattuto la delega: un tempo in fabbrica c’era la corsa a fare il delegato, si sgomitava; oggi devi pregare le persone perché lo facciano, perché vuol dire impegnarsi in un processo in cui non hai nemmeno un riconoscimento sociale.
Un’organizzazione di massa come la nostra, essendo fatta di persone, risente di quello che è il clima e quindi una riflessione come quella di oggi in effetti va in controtendenza.
Però voglio ribadirlo: questa pratica io non sono andato a prenderla dal gruppo degli alcolisti anonimi, l’ho recuperata dalla mia memoria dell’esperienza in fabbrica. Certo, in una condizione assolutamente diversa. All’epoca era facile mettersi attorno a un tavolo e dire: "Quando tossisco ci sono tracce di sangue”. Dirsi i sintomi portava intanto a scoprire che la causa non andava cercata in te, ma nell’ambiente, e questo dava forza. I tempi sono cambiati, ma il meccanismo è un po’ quello.
Dicevi che c’è un gruppo di auto aiuto fatto di esodati...
Ora, verosimilmente la loro situazione verrà risolta, e, bene o male, presto si sistemerà, ma devi anche sapere che in questa fase, dire questa cosa non ha alcun valore riparatore per loro. C’è una rabbia... La ferita che queste persone hanno subìto è profonda: loro si sono sentiti traditi. Avevano fatto un accordo con l’azienda, di più: con lo Stato! E quell’accordo è andato in fumo. Io ci sono stato solo all’inizio, poi ho lasciato tutto in mano al ferroviere-psicologo, ma dicono delle cose, che tu pensi: "Beh, meno male che c’è il gruppo”. Per non parlare di quello che pensano della Fornero, molti proprio se la sognano. D’altra parte, queste erano persone che avevano fatto i loro conti, i loro progetti, ed è stato tutto spazzato via.
In quest’anno e mezzo qualcuno ha trovato lavoro?
Qualcuno ha smesso di venire al gruppo perché ha trovato lavoro e però magari passa a salutarci. Ce ne sono diversi. Alcuni si reinventano delle attività sul piano sociale. Non c’è niente di automatico, intendiamoci, e comunque deve essere la persona a rimettersi in moto. L’ho già detto: il gruppo non trova lavoro, però poter condividere il disagio se non altro cambia la disposizione d’animo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Sergio Bevilacqua)
Da qualche tempo la Camera del lavoro di Milano ha promosso dei gruppi di auto aiuto tra disoccupati. È un’iniziativa nuova nell’ambito del sindacato. Puoi raccontare?
La Camera del lavoro di Milano ha alle spalle una lunga esperienza di sportelli che intercettano il tema del disagio. Conosciamo storicamente il disagio legato a situazioni di handicap, di dipendenza da sostanza, a storie di marginalità, di devianza. Noi ci siamo sempre occupati di questo disagio prendendo in carico la storia della persona e cercando di ricostruire un percorso, eventualmente con un inserimento lavorativo. In questi ultimi anni abbiamo però visto crescere un disagio specifico, quello legato alla crisi e in particolare alla perdita del lavoro. Trovarsi da un giorno all’altro fuori dal mercato del lavoro crea uno smarrimento molto forte, e se a questo smarrimento si aggiunge una fragilità soggettiva, una rete di relazioni compromessa o addirittura assente, se c’è vera e propria solitudine, ecco che questo smarrimento diventa panico. Un panico quotidiano che poco a poco mina la tua identità e le tue certezze; a quel punto iniziano processi che non sono automatici ma riconoscibili: la perdita d’identità appunto, ma anche i sensi di colpa; insomma, una situazione di grande sofferenza.
Questo tipo di disagio lo abbiamo cominciato a leggere nelle storie delle aziende che chiudevano, ma anche nei percorsi di lavoro che si interrompevano. Il giovane precario, suo malgrado, ce l’ha nelle sue corde, ne fa anche un motivo di incazzatura, di rivendicazione. Chi invece ha sempre lavorato e ha raggiunto magari i 45-50 anni, vive questa condizione con grande difficoltà. 
È stato alla luce di queste considerazioni che abbiamo deciso di provare a fare qualcosa. Abbiamo cominciato con una grossa azienda, l’Eutelia. In assemblea abbiamo proposto di creare un gruppo con quelli che si sentivano particolarmente male in quella situazione. Questo primo gruppo ci ha dato un’indicazione forte: in situazioni gravi, quando una persona è spinta a prendere in esame anche scelte estreme come quella del suicidio, trovare un luogo alternativo alla propria solitudine, dove si può raccontare ed essere ascoltati può essere decisivo. 
Ormai siamo al quinto gruppo e siamo convinti che questo sia uno strumento utile. Utile a che cosa? Non certo a trovare soluzioni al problema che ha scatenato il disagio e cioè la perdita del lavoro. Questo rimane un obiettivo ad appannaggio delle persone in rapporto ai servizi preposti. L’obiettivo di questa proposta è di permettere alle persone che sono in una situazione di prostrazione, piegate su se stesse, invischiate in una spirale distruttiva (tale per cui se anche arrivasse una proposta di lavoro non sarebbero neanche in grado di coglierla perché al primo colloquio verrebbero scartati come soggetti inadeguati) di rimettersi in piedi. Solo così saranno in grado di ricostruire un loro percorso di vita, senza quel peso di angoscia e di sofferenza che impedisce loro di vedere un futuro anche quando sarebbe possibile. Nel senso che noi possiamo anche dire, ed è vero, che rispetto ad altre situazioni, ad altri paesi, non possiamo comunque lamentarci, ma questo ragionamento, fatto a una persona che è centrata sul suo dolore, non ha alcun effetto: se quella persona non riacquista la capacità di fare una valutazione oggettiva della sua situazione tutti i nostri discorsi sono vani.
Bene, il gruppo dimostra che compiere questo passo è possibile. Io ho visto persone arrivare in condizioni davvero preoccupanti, con sguardi tristi, e nel tempo le ho viste di nuovo serene. 
Alla fine la proposta è molto semplice. Dove sta la sua forza? Nel fatto che il gruppo riconsegna un protagonismo alle persone in una dimensione collettiva. Anche qui non inventiamo niente, nel senso che la storia del sindacato è fatta di lavoratori che si parlano, condividono i problemi e sulla base di questi scrivono piattaforme e fanno lotte per raggiungere gli obiettivi; in questo ambito il sentirsi protagonisti, il capire che la tua sofferenza non è solo la tua, ma semplicemente il poter parlare ed essere ascoltati... Qualche tempo fa un uomo è arrivato al gruppo e, una volta presa la parola, ha parlato per un’ora. Io mi sono permesso di fare una battuta, ma la cosa grandiosa è che nessuno s’è permesso di interromperlo. Lui a un certo punto si è reso conto e rivolto a tutti ha detto: "Scusate, ma erano sei mesi che non parlavo con qualcuno”. Potete immaginare: ha tirato fuori tutto il mondo che aveva dentro. Questo fatto di essere ascoltati, che può sembrare banale, beh, non avete idea di quanta gente viene qua e alla fine capisci che il bisogno principale era quello di essere ascoltati.
Allora il gruppo, attraverso questa risorsa della relazione, ha questa grande forza di rimettere in piedi le persone facendole sentire protagoniste, facendole condividere una storia che spesso per troppo tempo è rimasta invece solo una vicenda individuale. 
Il gruppo ci ha sollecitato anche a fare un ragionamento più complessivo, che stiamo cercando di portare all’interno dell’attività sindacale, cioè che non c’è futuro se non ripartiamo dalla cura della relazione, che vuol dire la cura della condizione di vita delle persone. Stiamo cercando di riportare all’interno dei luoghi di lavoro il tema del clima, delle relazioni, dei linguaggi, degli atteggiamenti. Ma non è un approccio intimista, è proprio riconsegnare alla persona il suo valore. 
Come funzionano i gruppi, chi partecipa?
Come dicevo siamo partiti da una grande azienda. Tra parentesi, ora abbiamo altre due aziende candidate, ma non sono aziende in crisi, cioè non hanno un problema occupazionale, bensì problemi di relazione. In assemblea, delle donne si sono alzate dicendo che i ritmi e gli atteggiamenti erano tali che le facevano vivere con senso di colpa la maternità. Anche questo è un problema. A un certo punto però ci siamo detti: "A Milano quanti sono i lavoratori in difficoltà che non hanno dietro la grande fabbrica?”. Allora siamo andati a Radio popolare; il mercoledì c’è un trasmissione che si chiama "La terra è blu”, che riguarda soprattutto persone che hanno problemi di disagio di salute mentale; la conduce Massimo Cirri, che collabora con noi. Allora siamo andati lì e abbiamo lanciato l’idea del gruppo: "Per chi vuole, ci troviamo in sala Teresa Noce”. Ci tengo anche a dire che abbiamo messo a disposizione la sala bella della Camera del lavoro, dove si fanno le segreterie, ecc. Ebbene, dopo questo annuncio sono arrivate parecchie persone. Ora, mentre quelli delle fabbriche, delle aziende, avevano comunque dei codici identificativi, dei linguaggi, una storia comune, qui è arrivato di tutto: il professionista, l’attore, il giornalista, l’insegnante, l’operaio della piccola azienda, il direttore sanitario di un ospedale. Questa miscellanea si è rivelata esplosiva. 
L’ultimo gruppo è partito in seguito al protocollo d’intesa col Comune di Milano. La cosa bella è che un paio del primo gruppo sono i facilitatori di questo. Uno dei due quando è arrivato era distrutto. Lo ricordo perché aveva chiamato durante la trasmissione di Radio popolare, aveva fatto una telefonata carica di emozioni, si capiva che era al limite. Se lo vedi adesso... 
Come età dei partecipanti, l’affollamento è intorno ai 50 anni, però ci sono persone più vecchie e persone più giovani; ci sono anche alcune donne quarantenni, non c’è il giovanissimo. 
Un gruppo arriva a delle punte di 22 persone e non ne ha mai meno di 15. Complessivamente penso che qui, finora, siano passate all’incirca 150 persone.
Ora anche la Camera del lavoro di Monza vuol far partire un’esperienza analoga. A Lodi e a Parma sono già partiti; ieri qui c’erano quelli della Camera del lavoro di Bergamo. La Camera del lavoro di Trieste ci ha chiesto documentazione... Evidentemente c’è un bisogno diffuso.
Che storie emergono in questi gruppi? Ci sono elementi ricorrenti?
Io rimango sempre molto colpito quando, raggiunto un certo clima di confidenza, qualcuno racconta di essere arrivato a pensare di chiudere con la vita. Sono racconti molto personali, però c’è quasi una ritualità che si ripete. Per esempio, molti parlano di questa preoccupazione di lasciare qualcosa per le persone amate. Per cui raccontano di aver preparato questa cosa e che poi sono andati chi verso il treno, chi voleva affogarsi...
Poi c’è tutto il dramma personale di chi si sente in colpa verso la famiglia. Chi ha la responsabilità di figli piccoli ha il dramma di dover dire loro che devono cambiare lo stile di vita. Non raramente si rompono le relazioni. Se il partner invece riesce a reggere la situazione e a essere comprensivo, si vive sempre male però almeno c’è questa sponda. Certo, il senso di fallimento è sempre presente e molto pesante. 
Ci sono anche dinamiche di genere. Se la donna perde il lavoro e invece il marito è affermato, la conversazione tipica è: "Vabbé, non ti preoccupare, tanto ci sono io che porto a casa i soldi”, non capendo quale sia la ferita. Una delle partecipanti a un gruppo raccontava di non riuscire a dormire alla notte e che, oltre al disagio dell’insonnia, doveva sottoporsi al sacrificio di non potersi alzare perché altrimenti disturbava il marito, l’unico rimasto a percepire un reddito. Allora si sfogava: "Sono prigioniera due volte: primo perché non sono capita e poi perché non posso nemmeno fare ciò che almeno allevierebbe un po’ la mia pena”. E rivolgendosi invece a una collega sola diceva: "Tu almeno, se ti svegli alle quattro, puoi alzarti e accenderti la radio o leggerti un libro, non devi render conto a nessuno”. E quest’altra: "Sì, capisco, ma sappi che reggere tutto questo da sola...”. 
Questi sono aspetti frequenti. Il ruolo della famiglia, che ci sia o meno, è molto sentito. Poi c’è la questione dell’identità, dei sensi di colpa, il fatto di non essere capito, di vergognarsi di essere senza lavoro, il dover mentire. Questi sono tutti temi ricorrenti. Un’altra cosa curiosa è che il gruppo mette in moto la scrittura: quasi tutti tengono un diario; questa è proprio una cosa che viene spontanea. 
Chi gestisce i gruppi?
Noi, io, Cirri, un altro collega. Per esempio, il gruppo degli esodati è guidato da un simpaticissimo psicologo che di lavoro fa il macchinista. È un nostro delegato della Cgil che fa lo psicologo e che però siccome si guadagna di più a guidare i treni, continua a svolgere quel lavoro e poi fa lo psicologo gratis. Come dicevo, ora abbiamo chiesto ad alcuni dei più vecchi, quelli che hanno partecipato ai primi gruppi, di fare da facilitatori.
In genere c’è qualche difficoltà alla partenza, specialmente nel tarare il senso di quello che si va facendo. Qualcuno infatti viene al gruppo pensando sia il luogo in cui si trova lavoro. Non è così. Ecco, chiarito questo, il gruppo va da solo. Bisogna considerare che la condizione di assenza di lavoro slatentizza ferite che non si erano rimarginate; una volta che si parte, vengono raccolte le parole chiave che emergono nelle storie dei partecipanti, che possono essere solitudine, sofferenza, la famiglia, lo psicofarmaco... 
Dai racconti viene fuori che la prima risposta che viene data alla sofferenza è chimica, farmacologica, e allora c’è chi l’ha vissuta male e chi invece ammette che comunque la pasticca in quel momento gli è servita. L’importante è non diventarne schiavi. Comunque, a seconda delle parole che emergono, la volta dopo si riprende. 
Quanto durano i singoli incontri?
Un’ora e un quarto. A volte si sfora: ci sono occasioni in cui la gente non andrebbe mai via. La frequenza è quindicinale e guai a saltarne uno! 
C’è un operaio a cui sono molto affezionato che è dentro il gruppo "misto”, quello dove c’è il primario, il giornalista. Lui è stato licenziato in un modo brutale; è di una concretezza, di una solidità, cioè, solidità... è stato anche ricoverato, però è davvero una persona notevole. 
Nel gruppo, per quanto eterogeneo, c’è molta comprensione e questo ci dice qualcosa su tutte queste sovrastrutture legate al ceto, all’appartenenza... Vedere il primario che dialoga con questo operaio, e che si capiscono, perché l’operaio, nonostante l’evidente differenza dei redditi, capisce cos’ha significato per il primario dell’ospedale l’umiliazione subita.
Sono momenti anche emozionanti. Voglio raccontare un aneddoto sul senso del gruppo. A un certo punto all’operaio è stato prospettato un colloquio. Al gruppo è dunque venuto a raccontare dell’avvenuto incontro e della sua speranza che la cosa andasse in porto. Lui è anche invalido, quindi categoria protetta, però ha una sua professionalità. 
Bene, io di solito la mattina vado su presto; il gruppo parte alle dieci, però chi non ha niente da fare è qui già un’ora prima e allora, nell’attesa, ci si beve un caffè e si fanno quattro chiacchiere. Quella mattina Leonardo non c’era. La cosa mi ha stupito perché è uno di quelli che arrivano per primi. A un certo punto arriva, ma con una faccia... Si siede -non era ancora iniziato il gruppo- e mi dice: "Ero sulla banchina della metropolitana e mi è arrivata la telefonata che è andata male”. Mi fissa negli occhi e continua: "Mi sono detto: al prossimo treno mi butto sotto. Poi ho pensato: però c’è il gruppo...”. Mi ha detto: "Corrado, se non c’era il gruppo, io...”.
Che durata hanno i vari gruppi?
Tieni conto che il gruppo vecchio si vede ancora. L’unico che si è chiuso veramente è quello dell’Eutelia, anche se un paio di partecipanti continuano a essere nei gruppi. Tutti gli altri, a distanza di un anno e mezzo, vanno avanti.
L’organizzazione sindacale non si è mai preoccupata di alcune tipologie di lavoratori, penso al dirigente licenziato, per esempio...
Al gruppo partecipa anche una persona di Assolombarda, qualcuno che in effetti siamo abituati ad avere come controparte nelle trattative. Dentro a questo ragionamento la questione di fondo è sicuramente il lavoro, ma la cosa che nel gruppo emerge di più è la dimensione della persona. Il primo maggio abbiamo messo in piedi un’iniziativa dal titolo "Insieme si può”, proponendo alle associazioni che si occupano di soddisfare prevalentemente bisogni materiali, come la Caritas, il Pane quotidiano, la Casa della carità, ecc., di metterci assieme perché tra i bisogni, quello di essere ascoltati, quello delle relazioni sono dirompenti. Abbiamo iniziato anche lì un percorso. 
A seguito di queste esperienze abbiamo pensato di mettere in campo un’iniziativa analoga anche con i colleghi che sono agli sportelli e che ogni giorno, dalla mattina alla sera, ascoltano storie drammatiche. Abbiamo provato a coinvolgere quelli dell’Inca, delle politiche sociali, dell’ufficio stranieri, lo sportello donna, ecc.; è bastato metterli insieme per far emergere l’angoscia di un lavoro in cui tutti i giorni ascolti situazioni difficilissime e l’unica cosa che puoi fare è cercare di mettere una pezza.
Si tratta ancora di "lavori in corso”, però è stimolante la quantità di cose che questi esperimenti stanno mettendo in moto. È significativa anche l’attenzione che stiamo suscitando: da quando siamo partiti in molti sono venuti a vedere cosa stiamo facendo.
Lei però mi chiedeva dell’utenza, che non è quella tipica del sindacato, perché qui non viene solo l’operaio, ma anche il dirigente o la partita Iva. Ecco, questa parte la lascerei ancora un po’ sotto osservazione. Non voglio trarre conclusioni affrettate. 
Tradizionalmente la formula dell’auto aiuto è utilizzata in ambito sociale. Voi l’avete riproposta in un contesto inedito...
In realtà, questa riflessione e questa pratica fa parte della storia del sindacato. Non è una novità. Negli anni Settanta facevamo i "gruppi di operai omogenei” nelle fabbriche dove si lavorava a contatto con sostanze cancerogene; lì le persone si raccontavano i sintomi delle loro malattie. Sono state esperienze forti e importanti. È vero che nel tempo sono intervenute delle trasformazioni, dei processi che hanno messo l’organizzazione sindacale davanti a questioni nuove.
Quando io sono entrato in fabbrica si parlava di tutto, le assemblee duravano una vita. I processi di individualizzazione, che sono processi legati a mutamenti (mi verrebbe da dire: a sconfitte) culturali hanno portato le persone a essere molto più individualiste e per un’organizzazione che associa persone questa è una bella sfida. Per me è ancora una cosa straordinaria che la Cgil abbia oltre cinque milioni di iscritti. Certo, oggi si fa molta più fatica. Noi abbiamo sempre combattuto la delega: un tempo in fabbrica c’era la corsa a fare il delegato, si sgomitava; oggi devi pregare le persone perché lo facciano, perché vuol dire impegnarsi in un processo in cui non hai nemmeno un riconoscimento sociale. 
Un’organizzazione di massa come la nostra, essendo fatta di persone, risente di quello che è il clima e quindi una riflessione come quella di oggi in effetti va in controtendenza. 
Però voglio ribadirlo: questa pratica io non sono andato a prenderla dal gruppo degli alcolisti anonimi, l’ho recuperata dalla mia memoria dell’esperienza in fabbrica. Certo, in una condizione assolutamente diversa. All’epoca era facile mettersi attorno a un tavolo e dire: "Quando tossisco ci sono tracce di sangue”. Dirsi i sintomi portava intanto a scoprire che la causa non andava cercata in te, ma nell’ambiente, e questo dava forza. I tempi sono cambiati, ma il meccanismo è un po’ quello.
Dicevi che c’è un gruppo di auto aiuto fatto di esodati...
Ora, verosimilmente la loro situazione verrà risolta, e, bene o male, presto si sistemerà, ma devi anche sapere che in questa fase, dire questa cosa non ha alcun valore riparatore per loro. C’è una rabbia... La ferita che queste persone hanno subìto è profonda: loro si sono sentiti traditi. Avevano fatto un accordo con l’azienda, di più: con lo Stato! E quell’accordo è andato in fumo. Io ci sono stato solo all’inizio, poi ho lasciato tutto in mano al ferroviere-psicologo, ma dicono delle cose, che tu pensi: "Beh, meno male che c’è il gruppo”. Per non parlare di quello che pensano della Fornero, molti proprio se la sognano. D’altra parte, queste erano persone che avevano fatto i loro conti, i loro progetti, ed è stato tutto spazzato via.
In quest’anno e mezzo qualcuno ha trovato lavoro?
Qualcuno ha smesso di venire al gruppo perché ha trovato lavoro e però magari passa a salutarci. Ce ne sono diversi. Alcuni si reinventano delle attività sul piano sociale. Non c’è niente di automatico, intendiamoci, e comunque deve essere la persona a rimettersi in moto. L’ho già detto: il gruppo non trova lavoro, però poter condividere il disagio se non altro cambia la disposizione d’animo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Sergio Bevilacqua)
Da qualche tempo la Camera del lavoro di Milano ha promosso dei gruppi di auto aiuto tra disoccupati. È un’iniziativa nuova nell’ambito del sindacato. Puoi raccontare?
La Camera del lavoro di Milano ha alle spalle una lunga esperienza di sportelli che intercettano il tema del disagio. Conosciamo storicamente il disagio legato a situazioni di handicap, di dipendenza da sostanza, a storie di marginalità, di devianza. Noi ci siamo sempre occupati di questo disagio prendendo in carico la storia della persona e cercando di ricostruire un percorso, eventualmente con un inserimento lavorativo. In questi ultimi anni abbiamo però visto crescere un disagio specifico, quello legato alla crisi e in particolare alla perdita del lavoro. Trovarsi da un giorno all’altro fuori dal mercato del lavoro crea uno smarrimento molto forte, e se a questo smarrimento si aggiunge una fragilità soggettiva, una rete di relazioni compromessa o addirittura assente, se c’è vera e propria solitudine, ecco che questo smarrimento diventa panico. Un panico quotidiano che poco a poco mina la tua identità e le tue certezze; a quel punto iniziano processi che non sono automatici ma riconoscibili: la perdita d’identità appunto, ma anche i sensi di colpa; insomma, una situazione di grande sofferenza.
Questo tipo di disagio lo abbiamo cominciato a leggere nelle storie delle aziende che chiudevano, ma anche nei percorsi di lavoro che si interrompevano. Il giovane precario, suo malgrado, ce l’ha nelle sue corde, ne fa anche un motivo di incazzatura, di rivendicazione. Chi invece ha sempre lavorato e ha raggiunto magari i 45-50 anni, vive questa condizione con grande difficoltà. 
È stato alla luce di queste considerazioni che abbiamo deciso di provare a fare qualcosa. Abbiamo cominciato con una grossa azienda, l’Eutelia. In assemblea abbiamo proposto di creare un gruppo con quelli che si sentivano particolarmente male in quella situazione. Questo primo gruppo ci ha dato un’indicazione forte: in situazioni gravi, quando una persona è spinta a prendere in esame anche scelte estreme come quella del suicidio, trovare un luogo alternativo alla propria solitudine, dove si può raccontare ed essere ascoltati può essere decisivo. 
Ormai siamo al quinto gruppo e siamo convinti che questo sia uno strumento utile. Utile a che cosa? Non certo a trovare soluzioni al problema che ha scatenato il disagio e cioè la perdita del lavoro. Questo rimane un obiettivo ad appannaggio delle persone in rapporto ai servizi preposti. L’obiettivo di questa proposta è di permettere alle persone che sono in una situazione di prostrazione, piegate su se stesse, invischiate in una spirale distruttiva (tale per cui se anche arrivasse una proposta di lavoro non sarebbero neanche in grado di coglierla perché al primo colloquio verrebbero scartati come soggetti inadeguati) di rimettersi in piedi. Solo così saranno in grado di ricostruire un loro percorso di vita, senza quel peso di angoscia e di sofferenza che impedisce loro di vedere un futuro anche quando sarebbe possibile. Nel senso che noi possiamo anche dire, ed è vero, che rispetto ad altre situazioni, ad altri paesi, non possiamo comunque lamentarci, ma questo ragionamento, fatto a una persona che è centrata sul suo dolore, non ha alcun effetto: se quella persona non riacquista la capacità di fare una valutazione oggettiva della sua situazione tutti i nostri discorsi sono vani.
Bene, il gruppo dimostra che compiere questo passo è possibile. Io ho visto persone arrivare in condizioni davvero preoccupanti, con sguardi tristi, e nel tempo le ho viste di nuovo serene. 
Alla fine la proposta è molto semplice. Dove sta la sua forza? Nel fatto che il gruppo riconsegna un protagonismo alle persone in una dimensione collettiva. Anche qui non inventiamo niente, nel senso che la storia del sindacato è fatta di lavoratori che si parlano, condividono i problemi e sulla base di questi scrivono piattaforme e fanno lotte per raggiungere gli obiettivi; in questo ambito il sentirsi protagonisti, il capire che la tua sofferenza non è solo la tua, ma semplicemente il poter parlare ed essere ascoltati... Qualche tempo fa un uomo è arrivato al gruppo e, una volta presa la parola, ha parlato per un’ora. Io mi sono permesso di fare una battuta, ma la cosa grandiosa è che nessuno s’è permesso di interromperlo. Lui a un certo punto si è reso conto e rivolto a tutti ha detto: "Scusate, ma erano sei mesi che non parlavo con qualcuno”. Potete immaginare: ha tirato fuori tutto il mondo che aveva dentro. Questo fatto di essere ascoltati, che può sembrare banale, beh, non avete idea di quanta gente viene qua e alla fine capisci che il bisogno principale era quello di essere ascoltati.
Allora il gruppo, attraverso questa risorsa della relazione, ha questa grande forza di rimettere in piedi le persone facendole sentire protagoniste, facendole condividere una storia che spesso per troppo tempo è rimasta invece solo una vicenda individuale. 
Il gruppo ci ha sollecitato anche a fare un ragionamento più complessivo, che stiamo cercando di portare all’interno dell’attività sindacale, cioè che non c’è futuro se non ripartiamo dalla cura della relazione, che vuol dire la cura della condizione di vita delle persone. Stiamo cercando di riportare all’interno dei luoghi di lavoro il tema del clima, delle relazioni, dei linguaggi, degli atteggiamenti. Ma non è un approccio intimista, è proprio riconsegnare alla persona il suo valore. 
Come funzionano i gruppi, chi partecipa?
Come dicevo siamo partiti da una grande azienda. Tra parentesi, ora abbiamo altre due aziende candidate, ma non sono aziende in crisi, cioè non hanno un problema occupazionale, bensì problemi di relazione. In assemblea, delle donne si sono alzate dicendo che i ritmi e gli atteggiamenti erano tali che le facevano vivere con senso di colpa la maternità. Anche questo è un problema. A un certo punto però ci siamo detti: "A Milano quanti sono i lavoratori in difficoltà che non hanno dietro la grande fabbrica?”. Allora siamo andati a Radio popolare; il mercoledì c’è un trasmissione che si chiama "La terra è blu”, che riguarda soprattutto persone che hanno problemi di disagio di salute mentale; la conduce Massimo Cirri, che collabora con noi. Allora siamo andati lì e abbiamo lanciato l’idea del gruppo: "Per chi vuole, ci troviamo in sala Teresa Noce”. Ci tengo anche a dire che abbiamo messo a disposizione la sala bella della Camera del lavoro, dove si fanno le segreterie, ecc. Ebbene, dopo questo annuncio sono arrivate parecchie persone. Ora, mentre quelli delle fabbriche, delle aziende, avevano comunque dei codici identificativi, dei linguaggi, una storia comune, qui è arrivato di tutto: il professionista, l’attore, il giornalista, l’insegnante, l’operaio della piccola azienda, il direttore sanitario di un ospedale. Questa miscellanea si è rivelata esplosiva. 
L’ultimo gruppo è partito in seguito al protocollo d’intesa col Comune di Milano. La cosa bella è che un paio del primo gruppo sono i facilitatori di questo. Uno dei due quando è arrivato era distrutto. Lo ricordo perché aveva chiamato durante la trasmissione di Radio popolare, aveva fatto una telefonata carica di emozioni, si capiva che era al limite. Se lo vedi adesso... 
Come età dei partecipanti, l’affollamento è intorno ai 50 anni, però ci sono persone più vecchie e persone più giovani; ci sono anche alcune donne quarantenni, non c’è il giovanissimo. 
Un gruppo arriva a delle punte di 22 persone e non ne ha mai meno di 15. Complessivamente penso che qui, finora, siano passate all’incirca 150 persone.
Ora anche la Camera del lavoro di Monza vuol far partire un’esperienza analoga. A Lodi e a Parma sono già partiti; ieri qui c’erano quelli della Camera del lavoro di Bergamo. La Camera del lavoro di Trieste ci ha chiesto documentazione... Evidentemente c’è un bisogno diffuso.
Che storie emergono in questi gruppi? Ci sono elementi ricorrenti?
Io rimango sempre molto colpito quando, raggiunto un certo clima di confidenza, qualcuno racconta di essere arrivato a pensare di chiudere con la vita. Sono racconti molto personali, però c’è quasi una ritualità che si ripete. Per esempio, molti parlano di questa preoccupazione di lasciare qualcosa per le persone amate. Per cui raccontano di aver preparato questa cosa e che poi sono andati chi verso il treno, chi voleva affogarsi...
Poi c’è tutto il dramma personale di chi si sente in colpa verso la famiglia. Chi ha la responsabilità di figli piccoli ha il dramma di dover dire loro che devono cambiare lo stile di vita. Non raramente si rompono le relazioni. Se il partner invece riesce a reggere la situazione e a essere comprensivo, si vive sempre male però almeno c’è questa sponda. Certo, il senso di fallimento è sempre presente e molto pesante. 
Ci sono anche dinamiche di genere. Se la donna perde il lavoro e invece il marito è affermato, la conversazione tipica è: "Vabbé, non ti preoccupare, tanto ci sono io che porto a casa i soldi”, non capendo quale sia la ferita. Una delle partecipanti a un gruppo raccontava di non riuscire a dormire alla notte e che, oltre al disagio dell’insonnia, doveva sottoporsi al sacrificio di non potersi alzare perché altrimenti disturbava il marito, l’unico rimasto a percepire un reddito. Allora si sfogava: "Sono prigioniera due volte: primo perché non sono capita e poi perché non posso nemmeno fare ciò che almeno allevierebbe un po’ la mia pena”. E rivolgendosi invece a una collega sola diceva: "Tu almeno, se ti svegli alle quattro, puoi alzarti e accenderti la radio o leggerti un libro, non devi render conto a nessuno”. E quest’altra: "Sì, capisco, ma sappi che reggere tutto questo da sola...”. 
Questi sono aspetti frequenti. Il ruolo della famiglia, che ci sia o meno, è molto sentito. Poi c’è la questione dell’identità, dei sensi di colpa, il fatto di non essere capito, di vergognarsi di essere senza lavoro, il dover mentire. Questi sono tutti temi ricorrenti. Un’altra cosa curiosa è che il gruppo mette in moto la scrittura: quasi tutti tengono un diario; questa è proprio una cosa che viene spontanea. 
Chi gestisce i gruppi?
Noi, io, Cirri, un altro collega. Per esempio, il gruppo degli esodati è guidato da un simpaticissimo psicologo che di lavoro fa il macchinista. È un nostro delegato della Cgil che fa lo psicologo e che però siccome si guadagna di più a guidare i treni, continua a svolgere quel lavoro e poi fa lo psicologo gratis. Come dicevo, ora abbiamo chiesto ad alcuni dei più vecchi, quelli che hanno partecipato ai primi gruppi, di fare da facilitatori.
In genere c’è qualche difficoltà alla partenza, specialmente nel tarare il senso di quello che si va facendo. Qualcuno infatti viene al gruppo pensando sia il luogo in cui si trova lavoro. Non è così. Ecco, chiarito questo, il gruppo va da solo. Bisogna considerare che la condizione di assenza di lavoro slatentizza ferite che non si erano rimarginate; una volta che si parte, vengono raccolte le parole chiave che emergono nelle storie dei partecipanti, che possono essere solitudine, sofferenza, la famiglia, lo psicofarmaco... 
Dai racconti viene fuori che la prima risposta che viene data alla sofferenza è chimica, farmacologica, e allora c’è chi l’ha vissuta male e chi invece ammette che comunque la pasticca in quel momento gli è servita. L’importante è non diventarne schiavi. Comunque, a seconda delle parole che emergono, la volta dopo si riprende. 
Quanto durano i singoli incontri?
Un’ora e un quarto. A volte si sfora: ci sono occasioni in cui la gente non andrebbe mai via. La frequenza è quindicinale e guai a saltarne uno! 
C’è un operaio a cui sono molto affezionato che è dentro il gruppo "misto”, quello dove c’è il primario, il giornalista. Lui è stato licenziato in un modo brutale; è di una concretezza, di una solidità, cioè, solidità... è stato anche ricoverato, però è davvero una persona notevole. 
Nel gruppo, per quanto eterogeneo, c’è molta comprensione e questo ci dice qualcosa su tutte queste sovrastrutture legate al ceto, all’appartenenza... Vedere il primario che dialoga con questo operaio, e che si capiscono, perché l’operaio, nonostante l’evidente differenza dei redditi, capisce cos’ha significato per il primario dell’ospedale l’umiliazione subita.
Sono momenti anche emozionanti. Voglio raccontare un aneddoto sul senso del gruppo. A un certo punto all’operaio è stato prospettato un colloquio. Al gruppo è dunque venuto a raccontare dell’avvenuto incontro e della sua speranza che la cosa andasse in porto. Lui è anche invalido, quindi categoria protetta, però ha una sua professionalità. 
Bene, io di solito la mattina vado su presto; il gruppo parte alle dieci, però chi non ha niente da fare è qui già un’ora prima e allora, nell’attesa, ci si beve un caffè e si fanno quattro chiacchiere. Quella mattina Leonardo non c’era. La cosa mi ha stupito perché è uno di quelli che arrivano per primi. A un certo punto arriva, ma con una faccia... Si siede -non era ancora iniziato il gruppo- e mi dice: "Ero sulla banchina della metropolitana e mi è arrivata la telefonata che è andata male”. Mi fissa negli occhi e continua: "Mi sono detto: al prossimo treno mi butto sotto. Poi ho pensato: però c’è il gruppo...”. Mi ha detto: "Corrado, se non c’era il gruppo, io...”.
Che durata hanno i vari gruppi?
Tieni conto che il gruppo vecchio si vede ancora. L’unico che si è chiuso veramente è quello dell’Eutelia, anche se un paio di partecipanti continuano a essere nei gruppi. Tutti gli altri, a distanza di un anno e mezzo, vanno avanti.
L’organizzazione sindacale non si è mai preoccupata di alcune tipologie di lavoratori, penso al dirigente licenziato, per esempio...
Al gruppo partecipa anche una persona di Assolombarda, qualcuno che in effetti siamo abituati ad avere come controparte nelle trattative. Dentro a questo ragionamento la questione di fondo è sicuramente il lavoro, ma la cosa che nel gruppo emerge di più è la dimensione della persona. Il primo maggio abbiamo messo in piedi un’iniziativa dal titolo "Insieme si può”, proponendo alle associazioni che si occupano di soddisfare prevalentemente bisogni materiali, come la Caritas, il Pane quotidiano, la Casa della carità, ecc., di metterci assieme perché tra i bisogni, quello di essere ascoltati, quello delle relazioni sono dirompenti. Abbiamo iniziato anche lì un percorso. 
A seguito di queste esperienze abbiamo pensato di mettere in campo un’iniziativa analoga anche con i colleghi che sono agli sportelli e che ogni giorno, dalla mattina alla sera, ascoltano storie drammatiche. Abbiamo provato a coinvolgere quelli dell’Inca, delle politiche sociali, dell’ufficio stranieri, lo sportello donna, ecc.; è bastato metterli insieme per far emergere l’angoscia di un lavoro in cui tutti i giorni ascolti situazioni difficilissime e l’unica cosa che puoi fare è cercare di mettere una pezza.
Si tratta ancora di "lavori in corso”, però è stimolante la quantità di cose che questi esperimenti stanno mettendo in moto. È significativa anche l’attenzione che stiamo suscitando: da quando siamo partiti in molti sono venuti a vedere cosa stiamo facendo.
Lei però mi chiedeva dell’utenza, che non è quella tipica del sindacato, perché qui non viene solo l’operaio, ma anche il dirigente o la partita Iva. Ecco, questa parte la lascerei ancora un po’ sotto osservazione. Non voglio trarre conclusioni affrettate. 
Tradizionalmente la formula dell’auto aiuto è utilizzata in ambito sociale. Voi l’avete riproposta in un contesto inedito...
In realtà, questa riflessione e questa pratica fa parte della storia del sindacato. Non è una novità. Negli anni Settanta facevamo i "gruppi di operai omogenei” nelle fabbriche dove si lavorava a contatto con sostanze cancerogene; lì le persone si raccontavano i sintomi delle loro malattie. Sono state esperienze forti e importanti. È vero che nel tempo sono intervenute delle trasformazioni, dei processi che hanno messo l’organizzazione sindacale davanti a questioni nuove.
Quando io sono entrato in fabbrica si parlava di tutto, le assemblee duravano una vita. I processi di individualizzazione, che sono processi legati a mutamenti (mi verrebbe da dire: a sconfitte) culturali hanno portato le persone a essere molto più individualiste e per un’organizzazione che associa persone questa è una bella sfida. Per me è ancora una cosa straordinaria che la Cgil abbia oltre cinque milioni di iscritti. Certo, oggi si fa molta più fatica. Noi abbiamo sempre combattuto la delega: un tempo in fabbrica c’era la corsa a fare il delegato, si sgomitava; oggi devi pregare le persone perché lo facciano, perché vuol dire impegnarsi in un processo in cui non hai nemmeno un riconoscimento sociale. 
Un’organizzazione di massa come la nostra, essendo fatta di persone, risente di quello che è il clima e quindi una riflessione come quella di oggi in effetti va in controtendenza. 
Però voglio ribadirlo: questa pratica io non sono andato a prenderla dal gruppo degli alcolisti anonimi, l’ho recuperata dalla mia memoria dell’esperienza in fabbrica. Certo, in una condizione assolutamente diversa. All’epoca era facile mettersi attorno a un tavolo e dire: "Quando tossisco ci sono tracce di sangue”. Dirsi i sintomi portava intanto a scoprire che la causa non andava cercata in te, ma nell’ambiente, e questo dava forza. I tempi sono cambiati, ma il meccanismo è un po’ quello.
Dicevi che c’è un gruppo di auto aiuto fatto di esodati...
Ora, verosimilmente la loro situazione verrà risolta, e, bene o male, presto si sistemerà, ma devi anche sapere che in questa fase, dire questa cosa non ha alcun valore riparatore per loro. C’è una rabbia... La ferita che queste persone hanno subìto è profonda: loro si sono sentiti traditi. Avevano fatto un accordo con l’azienda, di più: con lo Stato! E quell’accordo è andato in fumo. Io ci sono stato solo all’inizio, poi ho lasciato tutto in mano al ferroviere-psicologo, ma dicono delle cose, che tu pensi: "Beh, meno male che c’è il gruppo”. Per non parlare di quello che pensano della Fornero, molti proprio se la sognano. D’altra parte, queste erano persone che avevano fatto i loro conti, i loro progetti, ed è stato tutto spazzato via.
In quest’anno e mezzo qualcuno ha trovato lavoro?
Qualcuno ha smesso di venire al gruppo perché ha trovato lavoro e però magari passa a salutarci. Ce ne sono diversi. Alcuni si reinventano delle attività sul piano sociale. Non c’è niente di automatico, intendiamoci, e comunque deve essere la persona a rimettersi in moto. L’ho già detto: il gruppo non trova lavoro, però poter condividere il disagio se non altro cambia la disposizione d’animo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Sergio Bevilacqua)
Da qualche tempo la Camera del lavoro di Milano ha promosso dei gruppi di auto aiuto tra disoccupati. È un’iniziativa nuova nell’ambito del sindacato. Puoi raccontare?
La Camera del lavoro di Milano ha alle spalle una lunga esperienza di sportelli che intercettano il tema del disagio. Conosciamo storicamente il disagio legato a situazioni di handicap, di dipendenza da sostanza, a storie di marginalità, di devianza. Noi ci siamo sempre occupati di questo disagio prendendo in carico la storia della persona e cercando di ricostruire un percorso, eventualmente con un inserimento lavorativo. In questi ultimi anni abbiamo però visto crescere un disagio specifico, quello legato alla crisi e in particolare alla perdita del lavoro. Trovarsi da un giorno all’altro fuori dal mercato del lavoro crea uno smarrimento molto forte, e se a questo smarrimento si aggiunge una fragilità soggettiva, una rete di relazioni compromessa o addirittura assente, se c’è vera e propria solitudine, ecco che questo smarrimento diventa panico. Un panico quotidiano che poco a poco mina la tua identità e le tue certezze; a quel punto iniziano processi che non sono automatici ma riconoscibili: la perdita d’identità appunto, ma anche i sensi di colpa; insomma, una situazione di grande sofferenza.
Questo tipo di disagio lo abbiamo cominciato a leggere nelle storie delle aziende che chiudevano, ma anche nei percorsi di lavoro che si interrompevano. Il giovane precario, suo malgrado, ce l’ha nelle sue corde, ne fa anche un motivo di incazzatura, di rivendicazione. Chi invece ha sempre lavorato e ha raggiunto magari i 45-50 anni, vive questa condizione con grande difficoltà. 
È stato alla luce di queste considerazioni che abbiamo deciso di provare a fare qualcosa. Abbiamo cominciato con una grossa azienda, l’Eutelia. In assemblea abbiamo proposto di creare un gruppo con quelli che si sentivano particolarmente male in quella situazione. Questo primo gruppo ci ha dato un’indicazione forte: in situazioni gravi, quando una persona è spinta a prendere in esame anche scelte estreme come quella del suicidio, trovare un luogo alternativo alla propria solitudine, dove si può raccontare ed essere ascoltati può essere decisivo. 
Ormai siamo al quinto gruppo e siamo convinti che questo sia uno strumento utile. Utile a che cosa? Non certo a trovare soluzioni al problema che ha scatenato il disagio e cioè la perdita del lavoro. Questo rimane un obiettivo ad appannaggio delle persone in rapporto ai servizi preposti. L’obiettivo di questa proposta è di permettere alle persone che sono in una situazione di prostrazione, piegate su se stesse, invischiate in una spirale distruttiva (tale per cui se anche arrivasse una proposta di lavoro non sarebbero neanche in grado di coglierla perché al primo colloquio verrebbero scartati come soggetti inadeguati) di rimettersi in piedi. Solo così saranno in grado di ricostruire un loro percorso di vita, senza quel peso di angoscia e di sofferenza che impedisce loro di vedere un futuro anche quando sarebbe possibile. Nel senso che noi possiamo anche dire, ed è vero, che rispetto ad altre situazioni, ad altri paesi, non possiamo comunque lamentarci, ma questo ragionamento, fatto a una persona che è centrata sul suo dolore, non ha alcun effetto: se quella persona non riacquista la capacità di fare una valutazione oggettiva della sua situazione tutti i nostri discorsi sono vani.
Bene, il gruppo dimostra che compiere questo passo è possibile. Io ho visto persone arrivare in condizioni davvero preoccupanti, con sguardi tristi, e nel tempo le ho viste di nuovo serene. 
Alla fine la proposta è molto semplice. Dove sta la sua forza? Nel fatto che il gruppo riconsegna un protagonismo alle persone in una dimensione collettiva. Anche qui non inventiamo niente, nel senso che la storia del sindacato è fatta di lavoratori che si parlano, condividono i problemi e sulla base di questi scrivono piattaforme e fanno lotte per raggiungere gli obiettivi; in questo ambito il sentirsi protagonisti, il capire che la tua sofferenza non è solo la tua, ma semplicemente il poter parlare ed essere ascoltati... Qualche tempo fa un uomo è arrivato al gruppo e, una volta presa la parola, ha parlato per un’ora. Io mi sono permesso di fare una battuta, ma la cosa grandiosa è che nessuno s’è permesso di interromperlo. Lui a un certo punto si è reso conto e rivolto a tutti ha detto: "Scusate, ma erano sei mesi che non parlavo con qualcuno”. Potete immaginare: ha tirato fuori tutto il mondo che aveva dentro. Questo fatto di essere ascoltati, che può sembrare banale, beh, non avete idea di quanta gente viene qua e alla fine capisci che il bisogno principale era quello di essere ascoltati.
Allora il gruppo, attraverso questa risorsa della relazione, ha questa grande forza di rimettere in piedi le persone facendole sentire protagoniste, facendole condividere una storia che spesso per troppo tempo è rimasta invece solo una vicenda individuale. 
Il gruppo ci ha sollecitato anche a fare un ragionamento più complessivo, che stiamo cercando di portare all’interno dell’attività sindacale, cioè che non c’è futuro se non ripartiamo dalla cura della relazione, che vuol dire la cura della condizione di vita delle persone. Stiamo cercando di riportare all’interno dei luoghi di lavoro il tema del clima, delle relazioni, dei linguaggi, degli atteggiamenti. Ma non è un approccio intimista, è proprio riconsegnare alla persona il suo valore. 
Come funzionano i gruppi, chi partecipa?
Come dicevo siamo partiti da una grande azienda. Tra parentesi, ora abbiamo altre due aziende candidate, ma non sono aziende in crisi, cioè non hanno un problema occupazionale, bensì problemi di relazione. In assemblea, delle donne si sono alzate dicendo che i ritmi e gli atteggiamenti erano tali che le facevano vivere con senso di colpa la maternità. Anche questo è un problema. A un certo punto però ci siamo detti: "A Milano quanti sono i lavoratori in difficoltà che non hanno dietro la grande fabbrica?”. Allora siamo andati a Radio popolare; il mercoledì c’è un trasmissione che si chiama "La terra è blu”, che riguarda soprattutto persone che hanno problemi di disagio di salute mentale; la conduce Massimo Cirri, che collabora con noi. Allora siamo andati lì e abbiamo lanciato l’idea del gruppo: "Per chi vuole, ci troviamo in sala Teresa Noce”. Ci tengo anche a dire che abbiamo messo a disposizione la sala bella della Camera del lavoro, dove si fanno le segreterie, ecc. Ebbene, dopo questo annuncio sono arrivate parecchie persone. Ora, mentre quelli delle fabbriche, delle aziende, avevano comunque dei codici identificativi, dei linguaggi, una storia comune, qui è arrivato di tutto: il professionista, l’attore, il giornalista, l’insegnante, l’operaio della piccola azienda, il direttore sanitario di un ospedale. Questa miscellanea si è rivelata esplosiva. 
L’ultimo gruppo è partito in seguito al protocollo d’intesa col Comune di Milano. La cosa bella è che un paio del primo gruppo sono i facilitatori di questo. Uno dei due quando è arrivato era distrutto. Lo ricordo perché aveva chiamato durante la trasmissione di Radio popolare, aveva fatto una telefonata carica di emozioni, si capiva che era al limite. Se lo vedi adesso... 
Come età dei partecipanti, l’affollamento è intorno ai 50 anni, però ci sono persone più vecchie e persone più giovani; ci sono anche alcune donne quarantenni, non c’è il giovanissimo. 
Un gruppo arriva a delle punte di 22 persone e non ne ha mai meno di 15. Complessivamente penso che qui, finora, siano passate all’incirca 150 persone.
Ora anche la Camera del lavoro di Monza vuol far partire un’esperienza analoga. A Lodi e a Parma sono già partiti; ieri qui c’erano quelli della Camera del lavoro di Bergamo. La Camera del lavoro di Trieste ci ha chiesto documentazione... Evidentemente c’è un bisogno diffuso.
Che storie emergono in questi gruppi? Ci sono elementi ricorrenti?
Io rimango sempre molto colpito quando, raggiunto un certo clima di confidenza, qualcuno racconta di essere arrivato a pensare di chiudere con la vita. Sono racconti molto personali, però c’è quasi una ritualità che si ripete. Per esempio, molti parlano di questa preoccupazione di lasciare qualcosa per le persone amate. Per cui raccontano di aver preparato questa cosa e che poi sono andati chi verso il treno, chi voleva affogarsi...
Poi c’è tutto il dramma personale di chi si sente in colpa verso la famiglia. Chi ha la responsabilità di figli piccoli ha il dramma di dover dire loro che devono cambiare lo stile di vita. Non raramente si rompono le relazioni. Se il partner invece riesce a reggere la situazione e a essere comprensivo, si vive sempre male però almeno c’è questa sponda. Certo, il senso di fallimento è sempre presente e molto pesante. 
Ci sono anche dinamiche di genere. Se la donna perde il lavoro e invece il marito è affermato, la conversazione tipica è: "Vabbé, non ti preoccupare, tanto ci sono io che porto a casa i soldi”, non capendo quale sia la ferita. Una delle partecipanti a un gruppo raccontava di non riuscire a dormire alla notte e che, oltre al disagio dell’insonnia, doveva sottoporsi al sacrificio di non potersi alzare perché altrimenti disturbava il marito, l’unico rimasto a percepire un reddito. Allora si sfogava: "Sono prigioniera due volte: primo perché non sono capita e poi perché non posso nemmeno fare ciò che almeno allevierebbe un po’ la mia pena”. E rivolgendosi invece a una collega sola diceva: "Tu almeno, se ti svegli alle quattro, puoi alzarti e accenderti la radio o leggerti un libro, non devi render conto a nessuno”. E quest’altra: "Sì, capisco, ma sappi che reggere tutto questo da sola...”. 
Questi sono aspetti frequenti. Il ruolo della famiglia, che ci sia o meno, è molto sentito. Poi c’è la questione dell’identità, dei sensi di colpa, il fatto di non essere capito, di vergognarsi di essere senza lavoro, il dover mentire. Questi sono tutti temi ricorrenti. Un’altra cosa curiosa è che il gruppo mette in moto la scrittura: quasi tutti tengono un diario; questa è proprio una cosa che viene spontanea. 
Chi gestisce i gruppi?
Noi, io, Cirri, un altro collega. Per esempio, il gruppo degli esodati è guidato da un simpaticissimo psicologo che di lavoro fa il macchinista. È un nostro delegato della Cgil che fa lo psicologo e che però siccome si guadagna di più a guidare i treni, continua a svolgere quel lavoro e poi fa lo psicologo gratis. Come dicevo, ora abbiamo chiesto ad alcuni dei più vecchi, quelli che hanno partecipato ai primi gruppi, di fare da facilitatori.
In genere c’è qualche difficoltà alla partenza, specialmente nel tarare il senso di quello che si va facendo. Qualcuno infatti viene al gruppo pensando sia il luogo in cui si trova lavoro. Non è così. Ecco, chiarito questo, il gruppo va da solo. Bisogna considerare che la condizione di assenza di lavoro slatentizza ferite che non si erano rimarginate; una volta che si parte, vengono raccolte le parole chiave che emergono nelle storie dei partecipanti, che possono essere solitudine, sofferenza, la famiglia, lo psicofarmaco... 
Dai racconti viene fuori che la prima risposta che viene data alla sofferenza è chimica, farmacologica, e allora c’è chi l’ha vissuta male e chi invece ammette che comunque la pasticca in quel momento gli è servita. L’importante è non diventarne schiavi. Comunque, a seconda delle parole che emergono, la volta dopo si riprende. 
Quanto durano i singoli incontri?
Un’ora e un quarto. A volte si sfora: ci sono occasioni in cui la gente non andrebbe mai via. La frequenza è quindicinale e guai a saltarne uno! 
C’è un operaio a cui sono molto affezionato che è dentro il gruppo "misto”, quello dove c’è il primario, il giornalista. Lui è stato licenziato in un modo brutale; è di una concretezza, di una solidità, cioè, solidità... è stato anche ricoverato, però è davvero una persona notevole. 
Nel gruppo, per quanto eterogeneo, c’è molta comprensione e questo ci dice qualcosa su tutte queste sovrastrutture legate al ceto, all’appartenenza... Vedere il primario che dialoga con questo operaio, e che si capiscono, perché l’operaio, nonostante l’evidente differenza dei redditi, capisce cos’ha significato per il primario dell’ospedale l’umiliazione subita.
Sono momenti anche emozionanti. Voglio raccontare un aneddoto sul senso del gruppo. A un certo punto all’operaio è stato prospettato un colloquio. Al gruppo è dunque venuto a raccontare dell’avvenuto incontro e della sua speranza che la cosa andasse in porto. Lui è anche invalido, quindi categoria protetta, però ha una sua professionalità. 
Bene, io di solito la mattina vado su presto; il gruppo parte alle dieci, però chi non ha niente da fare è qui già un’ora prima e allora, nell’attesa, ci si beve un caffè e si fanno quattro chiacchiere. Quella mattina Leonardo non c’era. La cosa mi ha stupito perché è uno di quelli che arrivano per primi. A un certo punto arriva, ma con una faccia... Si siede -non era ancora iniziato il gruppo- e mi dice: "Ero sulla banchina della metropolitana e mi è arrivata la telefonata che è andata male”. Mi fissa negli occhi e continua: "Mi sono detto: al prossimo treno mi butto sotto. Poi ho pensato: però c’è il gruppo...”. Mi ha detto: "Corrado, se non c’era il gruppo, io...”.
Che durata hanno i vari gruppi?
Tieni conto che il gruppo vecchio si vede ancora. L’unico che si è chiuso veramente è quello dell’Eutelia, anche se un paio di partecipanti continuano a essere nei gruppi. Tutti gli altri, a distanza di un anno e mezzo, vanno avanti.
L’organizzazione sindacale non si è mai preoccupata di alcune tipologie di lavoratori, penso al dirigente licenziato, per esempio...
Al gruppo partecipa anche una persona di Assolombarda, qualcuno che in effetti siamo abituati ad avere come controparte nelle trattative. Dentro a questo ragionamento la questione di fondo è sicuramente il lavoro, ma la cosa che nel gruppo emerge di più è la dimensione della persona. Il primo maggio abbiamo messo in piedi un’iniziativa dal titolo "Insieme si può”, proponendo alle associazioni che si occupano di soddisfare prevalentemente bisogni materiali, come la Caritas, il Pane quotidiano, la Casa della carità, ecc., di metterci assieme perché tra i bisogni, quello di essere ascoltati, quello delle relazioni sono dirompenti. Abbiamo iniziato anche lì un percorso. 
A seguito di queste esperienze abbiamo pensato di mettere in campo un’iniziativa analoga anche con i colleghi che sono agli sportelli e che ogni giorno, dalla mattina alla sera, ascoltano storie drammatiche. Abbiamo provato a coinvolgere quelli dell’Inca, delle politiche sociali, dell’ufficio stranieri, lo sportello donna, ecc.; è bastato metterli insieme per far emergere l’angoscia di un lavoro in cui tutti i giorni ascolti situazioni difficilissime e l’unica cosa che puoi fare è cercare di mettere una pezza.
Si tratta ancora di "lavori in corso”, però è stimolante la quantità di cose che questi esperimenti stanno mettendo in moto. È significativa anche l’attenzione che stiamo suscitando: da quando siamo partiti in molti sono venuti a vedere cosa stiamo facendo.
Lei però mi chiedeva dell’utenza, che non è quella tipica del sindacato, perché qui non viene solo l’operaio, ma anche il dirigente o la partita Iva. Ecco, questa parte la lascerei ancora un po’ sotto osservazione. Non voglio trarre conclusioni affrettate. 
Tradizionalmente la formula dell’auto aiuto è utilizzata in ambito sociale. Voi l’avete riproposta in un contesto inedito...
In realtà, questa riflessione e questa pratica fa parte della storia del sindacato. Non è una novità. Negli anni Settanta facevamo i "gruppi di operai omogenei” nelle fabbriche dove si lavorava a contatto con sostanze cancerogene; lì le persone si raccontavano i sintomi delle loro malattie. Sono state esperienze forti e importanti. È vero che nel tempo sono intervenute delle trasformazioni, dei processi che hanno messo l’organizzazione sindacale davanti a questioni nuove.
Quando io sono entrato in fabbrica si parlava di tutto, le assemblee duravano una vita. I processi di individualizzazione, che sono processi legati a mutamenti (mi verrebbe da dire: a sconfitte) culturali hanno portato le persone a essere molto più individualiste e per un’organizzazione che associa persone questa è una bella sfida. Per me è ancora una cosa straordinaria che la Cgil abbia oltre cinque milioni di iscritti. Certo, oggi si fa molta più fatica. Noi abbiamo sempre combattuto la delega: un tempo in fabbrica c’era la corsa a fare il delegato, si sgomitava; oggi devi pregare le persone perché lo facciano, perché vuol dire impegnarsi in un processo in cui non hai nemmeno un riconoscimento sociale. 
Un’organizzazione di massa come la nostra, essendo fatta di persone, risente di quello che è il clima e quindi una riflessione come quella di oggi in effetti va in controtendenza. 
Però voglio ribadirlo: questa pratica io non sono andato a prenderla dal gruppo degli alcolisti anonimi, l’ho recuperata dalla mia memoria dell’esperienza in fabbrica. Certo, in una condizione assolutamente diversa. All’epoca era facile mettersi attorno a un tavolo e dire: "Quando tossisco ci sono tracce di sangue”. Dirsi i sintomi portava intanto a scoprire che la causa non andava cercata in te, ma nell’ambiente, e questo dava forza. I tempi sono cambiati, ma il meccanismo è un po’ quello.
Dicevi che c’è un gruppo di auto aiuto fatto di esodati...
Ora, verosimilmente la loro situazione verrà risolta, e, bene o male, presto si sistemerà, ma devi anche sapere che in questa fase, dire questa cosa non ha alcun valore riparatore per loro. C’è una rabbia... La ferita che queste persone hanno subìto è profonda: loro si sono sentiti traditi. Avevano fatto un accordo con l’azienda, di più: con lo Stato! E quell’accordo è andato in fumo. Io ci sono stato solo all’inizio, poi ho lasciato tutto in mano al ferroviere-psicologo, ma dicono delle cose, che tu pensi: "Beh, meno male che c’è il gruppo”. Per non parlare di quello che pensano della Fornero, molti proprio se la sognano. D’altra parte, queste erano persone che avevano fatto i loro conti, i loro progetti, ed è stato tutto spazzato via.
In quest’anno e mezzo qualcuno ha trovato lavoro?
Qualcuno ha smesso di venire al gruppo perché ha trovato lavoro e però magari passa a salutarci. Ce ne sono diversi. Alcuni si reinventano delle attività sul piano sociale. Non c’è niente di automatico, intendiamoci, e comunque deve essere la persona a rimettersi in moto. L’ho già detto: il gruppo non trova lavoro, però poter condividere il disagio se non altro cambia la disposizione d’animo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Sergio Bevilacqua)

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