lunedì 3 febbraio 2014

Ci sono cose di cui (non) serve parlare


Ci sono cose di cui non serve parlare, c'è scritto nel murales ripreso nella foto di testa di questo post. Ed una di queste cose è quanto sta accadendo in Italia: due persone, una che non siede in Parlamento, ed una che non potrà più sedervici, stanno decidendo le sorti del governo di questo Paese. Questo è motivo sufficiente per non entrare nel merito delle decisioni che si stanno prendendo poichè mancano i presupposti formali e preliminari alla stessa decisione. Quanto avviene è, lapalissianamente, un colpo di coda dell'animale politico italico agonizzante. Il popolo certamente saprà riscattarsi dal conflitto oligarchico che si sta consumando e che lo sta consumando. E' solo questione di tempi. Storici, e non biblici.
Tutt'altra e di maggiore importanza è quanto invece sta avvenendo in Europa: da altri blog veniamo a conoscenza che un comunicato stampa della Commissione Europea manifesta tutta la sua preoccupazione sui livelli di occupazione e di crescita economica in alcuni Paesi dell'eurozona, e delle politiche che per far fronte alla situazione si stanno implementando o si vorrebbero implementare. Solo per fare un esempio, se si accettassero le condizioni retributive che la Elettrolux vorrebbe imporre ai suoi dipendenti per recuperare competitività e dette condizioni divenissero modello da applicare su larga scala, i riflessi sul sistema Paese sarebbe disastrosi: minor gettito fiscale e contributivo, contrazione ancor più netta dei consumi con riflessi sulle produzioni, effetto retroattivo ulteriore sul gettito IVA e fiscale, ulteriore aumento della disoccupazione... e così via. Senza contare i gravi problemi d'ordine sociale e pubblico che ciò comporterebbe e che già sta comportando: l'aumento della microcriminalità nelle città a maggiore concentrazione urbana.
Ma perchè solo adesso la Commissione Europea denuncia il fallimento delle politiche economico-finanziarie e fiscali finora adottate?



In immediata istanza potrebbe anche dirsi che i potenti d'Europa sono molto preoccupati del voto prossimo a Maggio per il rinnovo del Parlamento Europeo, che certamente vedrà una larga ed estesa astensione al voto e la presenza massiccia di forze politiche che, con diverse gradazioni, si oppongono a questa Europa così come è andata strutturandosi istituzionalmente negli ultimi 20 anni. Ma a noi questo convince poco: le linee di frattura politica non hanno più natura ideologica e programmatica così come le abbiamo conosciute nel '900. La frattura politica trova radicalità nelle espressioni di regressione democratica e popolare che la governance europea e regionale ha incarnato nel tempo. I motivi risiedono principalmente nella sfida che i sistemi economico e finanziario hanno lanciato al sistema politico e al processo di egemonia che su quest'ultimo hanno col tempo consolidato su sfera globale. Vi basti riflettere che la forma mentis di questi sistemi, guidati dall'economia politica e finanziaria e vocati al rischio, sono in grado unicamente di ragionare su tempi brevi se non brevissimi... nella migliore delle ipotesi (dove persiste ancora una vocazione industriale) a medio termine. Il governo a medio-lungo termine era (dato che adesso è in totale crisi) funzione degli Stati e della statalità in generale, funzione che è andata con il tempo abdicata nelle mani di personalità che, appunto, non ne possono assumere le competenze poichè non rispondono ai principi propri del diritto e della politica economica ed industriale di una comunità. Qualunque essa sia.

Gli Stati ed il governo degli stessi, nelle forme e nelle dinamiche intra-istituzionali ed internazionali, sono stati oggetto di conquista "semantica" di linguaggi e metodi di governo impropri. Ed adesso non aver previsto con razionalità politica oggettiva le conseguenze di questo abbandono delle funzioni degli Stati ed essendosi affidati totalmente a logiche economicistiche di governo delle relazioni sociali e politiche, definiscono le ragioni profonde che circoscrivono nettamente la natura dell'attuale crisi del sistema capitalistico ed occidentale, fin dentro la sua civiltà politica che lo sorregge. La regressione "ottocentesca", o se preferite protocapitalistica, cui stiamo assistendo dice manifestamente della natura profonda e radicale della crisi di sistema che stiamo affrontando. Ci sono voluti parecchi anni affinchè ci si convincesse che questa crisi non avesse natura congiunturale. E la si definisse per quella che è. Adesso si spera che non ci voglia ulteriore tempo affinchè si prenda consapevolezza del ruolo che la politica deve ritornare ad assumere. Almeno così vogliamo interpretare le parole di Squinzi sul timido processo politico-decisionale del governo italiano presieduto da Enrico Letta.
Ma le parole del comunicato stampa della Commissione Europea trovano ragione nelle consapevolezze che la implementazione di certe politiche monetaristiche ed economicistiche hanno fatto maturare, oppure lanciano solo un grido di allarme per quanto va rovesciandosi anche addosso a coloro che invece sperano di cavarsela, in continuità con le logiche che fin qui hanno governato gli Stati europei e l'Europa stessa? Proviamo a dare un po' di dati... economici, allora!

L'agenzia di statistica tedesca Destatis ha pubblicato la relazione economica sulla stato di salute dell'economia della Germania: nel 2013 un misero 0,4% rispetto all'anno precedente. L'ultimo trimestre solo lo 0,25% rispetto al trimestre dell'anno precedente. Questo dato sul 2013 segue quello del 2012 anch'esso fermo allo 0,7%. Ma l'economista Rahbari di Citygroup è ottimista, e racconta di un'espansione del 2% nel 2014 e del 1',9% nel 2015... Booommmm!!! Destatis, però, è molto più cauta nelle previsioni.

Il suo presidente, Egeler, ripara a commento dei dati affatto positivi dichiarando che sono congiunturali alla recessione che investe gran parte dei Paesi europei e  alla contenuta crescita globale. Ma è accorto nel continuare dicendo che questo dato di crescita contenuta dell'economia tedesca sarebbe stato peggiore se nel frattempo non fosse intervenuto un aumento dello 0,9% dei consumi interni ed un aumento della spesa pubblica dell' 1,1%. Nel frattempo, gli investimenti sono crollati del 2,2% in Germania (le imprese preferiscono investire in Cina!), e che a fronte della modesta crescita delle esportazioni (+0,6%) le importazioni sono aumentate dell' 1,3%.



Insomma, il cosiddetto "malato di Europa" quale fu considerata la Germania, che nella prima fase della crisi internazionale del 2007 (abbattutasi in Europa nell'autunno del 2008) ha determinato un profondo collasso economico della Germania nel 2009 con un - 5,1% che negli anni successivi fu recuperato grazie ancora alle politiche espansive delle finanze pubbliche nei Paesi europei oggi oggetto di stretta fiscale e di profonda crisi economico-sociale, oggi ripiomba dal 2012 ai livelli di crescita di 10 anni fa. Insomma, le politiche del lavoro e industriali che sono nel frattempo diventate un modello per l'Europa stanno rivelando la loro inefficacia. Il modello di crescita tedesco ha l'alito che puzza!



I dati destagionalizzati per trimestre mostrano che la Germania riesce a mascherare, con il debito pubblico che gli altri non possono contrarre e con l'aumento della domanda interna, ciò che ogni economista chiamerebbe: recessione. Ma il mercato azionario tedesco è più che ottimista: l'indice del DAX dal 5898 dell'inizio del 2012 al 9733 di fine 2013. Come se nulla stesse accadendo. Evidentemente si fa molto affidamento sull'attrazione di capitali stranieri in Germania... in particolare dagli USA, le cui relazioni sono più intense di quanto invece appare manifestamente (ne abbiamo dato informazione, vedasi nelle etichette Germania e USA).

E gli effetti di questa recessione mascherata in Germania si fanno sentire in riverbero in quei Paesi che dipendono dalle importazioni tedesche. Ad esempio in Austria!

Se leggiamo i dati sulla disoccupazione in Austria, appena dopo le elezioni politiche in settembre 2013, il tasso del 4,8% in Ottobre 2013 era anche migliore del 5,2 della Germania... e abissale rispetto a quello spagnolo (26,7%) e greco (27,3%) nello stesso mese. Parrebbe una crisi di crescita, quella austriaca, se non fosse che nel frattempo, prima a Luglio e poi a Settembre del 2013, i dati riportassero un aumento della disoccupazione, che in termini assoluti significava 320.000 persone in più disoccupate.
Attualmente, con le "armonizzazioni" compiute dalle statistiche ufficiali, siamo al 7,4% di disoccupazione (dato del dicembre 2013). Sarebbe maggiore se non fossero intervenute politiche di prepensionamento che hanno eliminato alcuni numeri dalle statistiche ufficiali, oltre ad altre "rimozioni" operate dalle politiche di inclusione nel mercato del lavoro. Il dato più preoccupante è che il 46% di queste persone in cerca di occupazione non ha assolto al completo obbligo scolastico, e non possiede titoli di studio qualificati. Se pensiamo che, non ostante i più basso numero di laureati in Italia, la disoccupazione intellettuale italiana è molto alta, i nostri laureati disoccupati possono dirsi "disperati" 2 volte rispetto a quelli austriaci. Ma c'è poco da rallegrarsi: entro la fine 2014 le previsioni parlano di un esercito (rispetto alla popolazione austriaca) di 500.000 disoccupati. Un Paese con una profonda convinzione sulla sicurezza del posto del lavoro adesso vede, secondo un sondaggio di poco tempo fa, più di un terzo della sua popolazione temere della perdita del posto di lavoro, percentuale che si alza e di tanto fra coloro che hanno una bassa istruzione.

Nel frattempo, colossi delle costruzioni come la Alpine Bau, o catene della GDO come la Dayli e (dell'elettronica) Niedermeyer falliscono o ristrutturano con decisi tagli al personale. E questi sono solo nomi esemplificativi della situazione che si sta vivendo in Austria. Ma potremmo aggiungerci il colosso dell'acciaio Voestalpine, in procinto di delocalizzare verso l'Asia...

Qualcuno potrebbe obiettare che si sono creati, comunque, nuovi posti di lavoro. Ma se leggiamo le statistiche, possiamo vedere che questi sono lavori part-time e malamente retribuiti.

Insomma, che qualcuno sorridendo annunci che la crisi è finita e che nell'area euro presto tutto riprenderà a navigare, o che alcuni sono immuni dalla crisi, sta raccontando filastrocche. Che non fanno oltretutto addormentare. Anzi, è il caso di destarsi e restare con gli occhi ben aperti sulla realtà. Cosa cui noi italiani ci siamo disabituati da tempo a fare, preferendo distoglierci con la chiacchiera. Quello che sta accadendo è invece che gli indici di povertà in Europa stanno aumentando. E che comincia ad affacciarsi anche in quei Paesi che si pensavano immuni.

Nessun commento: