venerdì 9 novembre 2012

LA NAVE DEI GRULLI: Europa e le determinanti della produttività e della competitività.

La nave dei folli va.
Obama è stato confermato Presidente USA, il Presidente che dovrà (continuare) a gestire la crisi economica  e finanziaria che dal 2007 è ancora viva e pulsante negli USA, e i cui effetti si sono riverberati, come era inevitabile che fosse, sull'Europa e sulla moneta unica. Non perchè saldati a doppio filo con l'economia statunitense (tolte alcune eccezioni e le relative ripercussioni (per certi aspetti punitive) in azione ed in nostra attuale sofferenza), ma semmai perchè l'Europa non ha ancora maturato il suo indirizzo strategico. 
Notiamolo, ad esempio, nella sterilità del dibattito generale sulla moneta unica europea, che vede una prima opzione confrontarsi da una parte il partito anti-euro e di ritorno alla sovranità monetaria nazionale, ed in seconda opzione la variante soft di costituzione di un'area europea meridionale con una moneta unica europea svalutata, in un quadro reale definito dall'ostinazione franco-germanica e di alcune aree internazionali d'influenza globale a conservare l'euro e la formazione delle politiche monetarie così come sono (più per incapacità di divenire ad un progetto che  per consapevole decisione) nel tentativo di provare a  resistere agli attacchi di drenaggio di liquidità che provengono dagli istituti finanziari d'oltreoceano (e non solo) attraverso  la stretta fiscale dei Paesi europei che meno degli altri si sono preparati agli sviluppi degli eventi del 2007 accaduti negli USA, anzi (come per l'Italia) si sono addirittura addormentati dopo le ubriacature elettorali di quegli anni (2007-2009). Il risveglio che fra 2011 e 2012 ha attraversato con le elezioni anticipate, e  in alcuni casi anche ripetute, alcuni Stati europei (ne eravamo candidati anche noi italiani nel 2011, se non fosse che nessun partito ne aveva la forza di affrontarle), non sono servite a destare dal provincialismo globocentrico un'Europa il cui ceto dirigente è più o meno quello rappresentato nell'icona ad immagine del post.

Chi organizza uomini in vista della produzione sa quanto è decisivo questo passaggio culturale per vincere la sfida della competizione globale: solo se la conoscenza è sociale (diffusa) può generare ricchezza e valore a monte. Ma qui siamo di fronte ad un evidente trade-off. Maggiore è la moltiplicazione della conoscenza sociale, per effetto  magari della parcellizzazione delle specializzazioni del sapere, maggiore è la potenziale crescita del processo di accumulazione. Ma, affinché il processo di accumulazione si svolga in modo effettivo, è necessario che tale conoscenza venga il più possibile incorporata nella struttura dell’impresa. Le Procedure Operative Standardizzate della moderna impresa servono a questo, e le tecnologie della comunicazione sono lo strumento più efficiente di diffusione della conoscenza, e di riproduzione creativa ed evolutiva di essa stessa, nella combinatoria che se ne viene a determinare fra conoscenza codificabile e conoscenza più esclusiva e caratterizzante la competenza propria dell'agente produttore (l'imprenditore o il sapiente tecnico, figure professionali di condensato cognitivo specifico e codificabile). Generando insieme innovazione di prodotto e di processo. E' per questi motivi che la separazione della scuola dall'attività produttiva è sterile, e dove invece la relazione fra scuola e produzione è stretta e più integrata si registrano migliori risultati in termini di produttività e competitività globale, oltre che migliori indici di occupazione giovanile. La conoscenza è un meccanismo dell'accumulazione. Oltretutto, la natura cooperativa della produzione di conoscenza è quanto di più salutare per il fare impresa, proprio per il modello culturale ed il metodo che in essa vi introduce ed inocula. Rendendo, come ben sanno le PMI, dove le competenze e le sapienze professionali sono per nulla facilmente intercambiabili, e quindi incentivate a restare (fino alla fine del ciclo di vita di quella conoscenza) nell'impresa (seppur questo indica il limite organizzativo delle stesse PMI ad evolvere verso modelli organizzativi reticolari). E' in questo contesto che si parla di capitale umano come fattore determinante della produzione, e dove si coordinano le conoscenze codificate e quelle più proprie e specifiche autoprodotte dalle capacità personali del lavoratore. Le obiezioni che più rilevanti sono mosse a questo discorso sono che la conoscenza è dovunque ed è immateriale. Rimandiamo a quanto scritto sui Distretti produttivi e Territorio  su questo blog, e allo scritto su Impredere, ovvero aver cura di sé per le critiche a queste supposizioni.
Il mercato: il luogo della socialità e non dell'individualità
Foucault ci aiuta a capire come il mercato è stato  il luogo dove si è esercitata, da parte di un ceto sociale (quello borghese), l'azione di sottrazione di potere allo Stato per assumerlo nelle dinamiche di scambio. Dinamiche di scambio che comunque non possono prescindere da una qualche dinamica che travalichi l'agire individuale in forme cooperative. Altrimenti nessuna divisione del lavoro si renderebbe esercitabile senza un'organizzazione di sistema. Anzi, è proprio nelle forme di produzione neo-capitalistica che l'apporto individuale è teso verso l'organizzazione appropriativa degli apporti individuali. Se nel capitalismo fordista, finalizzato alla produzione di beni materiali senza valore aggiunto l'apporto di ogni singolo lavoratore era misurabile per unità fisica prodotta per una determinata unità di tempo (secondo uno schema meccanicistico), nel neo-capitalismo è invece l'organizzazione a network, ovvero la rete dei flussi e delle relazioni in grado di generare quella dimensione cooperativa generatrice di valore, che rende possibile il processo accumulativo. Qui l'apporto individuale è rintracciabile nel grado di interdipendenza che è in grado di sviluppare in qualità di nodo fra nodi di una rete. La produzione, e parimenti il mercato, non vengono più a definirsi nella dicotomia fra individuale e collettivo, o fra mercato e Stato, ma nella competenza generata dal saper mettere in-comune. Questo paradigma è strategico per gli stessi territori, che dovrebbero funzionare come sovrafunzione organizzativa delle attività produttive specifiche che di quel territorio ne sono la diretta espressione (politiche di internazionalizzazione dei territori). Quindi, la dicotomia e la presunta inconciliabilità fra individuo e collettività, così come quella fra Mercato e Stato, non hanno motivo ulteriore di essere se non per caratterizzazione meramente ideologiche.
A questa dinamicità strutturale fra spazi di esercizio economico e politico in soluzione di contiguità, alla quale corrisponde metodologicamente una dinamicità organizzativa dove i confini fra le funzioni non sono netti ed indicativi di una separazione struttural-funzionalistica ma contingenti e intersecanti, se ne associa anche un'altra, tutta temporale.
Se ne conviene, allora, che il lavoro di una società capitalisticamente matura non può ridursi alla mera contabilizzazione di una produttività intesa unicamente come energia fisica impiegata e tempo di lavoro esercitato, poichè la generazione di valore è anche riconducibile all'appropriazione  (da parte del capitale) della sua produttività generale, ovvero del deposito di socialità della sua individualità. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte di ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il plusvalore della massa, ed il non-lavoro di pochi,  non hanno nessun ulteriore motivo di esistere nelle forme attuali di capitalismo, dove invece l'evoluzione personale (umana, cognitiva, culturale, relazionale, sociale) è fattore decisivo della creazione di valore. Il tempo libero (non consumato nel tempo del consumo, ma reso tempo di lavoro della ulteriorità di senso) non è un tempo diverso e contrapposto a quello del lavoro, ma ciò che in forme diverse continua ad essere ancora tempo di lavoro, in forme riproduttive. La crisi del capitalismo fordista è tutta incuneata nella incomprensione dello stesso processo che esso stesso ha innescato, separando il tempo produttivo dal tempo (ri)generativo, e sopratutto chiudendo il secondo nella mera funzione di un tempo dedicato al consumo di quello precedente, fra tempo superfluo al lavoro utilizzato per il consumo (e la generazione del plusvalore dallo scambio delle merci) del tempo necessario al lavoro.



Diciamocelo francamente: l'Europa pensa ancora di essere l'ombelico del mondo quando a malapena riesce ad essere lo sfintere delle deiezioni digestive altrui.

Facciamo alcune (lunghe) premesse.

Capitalismo:  produzione, scambio ed accumulazione del capitale. Attuali evoluzioni neocapitalistiche: il ruolo della conoscenza nella costituzione del (plus)valore.

L’economia capitalistica è un’economia monetaria di produzione e non un’economia di scambio. Con tale locuzione, s’intende ribadire la supremazia dell’attività di produzione/accumulazione su quella di scambio/realizzazione. Il motore dell’attività di produzione è l’attività di investimento (accumulazione privata di capitale), frutto delle decisioni imprenditoriali, in grado di modificare, in modo dinamico, il progresso tecnologico e l’utilizzo combinato dei fattori produttivi (siamo teoricamente debitori di Schumpeter, è vero). 
L’investimento rappresenta la manifestazione del potere capitalistico. È dall’investimento che si determina il livello di consumo e di risparmio (L’approccio neoliberista, ancora oggi, persiste nel sostenere che è il risparmio a determinare il livello di investimento. Tale opinione è resa possibile proprio dal fatto che per la teoria dell’equilibrio economico generale, ogni atto economico è riducibile  a semplice e puro scambio (infatti, si parla di economia di libero scambio); anche l’attività di produzione è riducibile a scambio, in quanto esito del processo di  allocazione (ottimale) dei fattori produttivi in presenza di progresso tecnico esogeno; l’attività di investimento dunque, si riduce al semplice acquisto di beni capitali, in condizione di certezza o con possibilità di formulare aspettative sul futuro comunque riducibili a rischio).

Certamente l’attività di investimento è condizionata dalle modalità di finanziamento e dalle aspettative sul valore atteso della domanda finale di beni, ovvero dalla realizzazione attesa. Ma non deve perdersi di vista che lo scopo dell’attività di accumulazione è la generazione di un plusvalore e non di un plusprodotto, ovvero la generazione di un profitto monetario, che si concretizza tramite la fase della realizzazione sulla base delle modalità di accumulazione, e non di un sovrappiù fisico.  L’economia capitalistica è intrinsecamente un’economia monetaria. 

E' altresì certo che l'imprenditore capitalista agisce all'interno di un quadro d'incertezza, e che non c'è modello matematico che tenga, non ostante viga l'idea insana che le aspettative possano essere statisticamente formulate e previste (al massimo si investe per indurle!, non solo facendo lobby, ma anche producendo un universo simbolico pertinente). Il luogo del capitale è un luogo di conflitto permanente: la contesa, e l'incertezza derivante dal conflitto, è il principio determinante dell'agire capitalistico stesso. Non c'è produzione senza conflitto, ed esercitato nell'arena del conflitto, e nella determinazione giuridica che successivamente la stabilizzazione di quel conflitto coordina nella formazione dello Stato capitalistico). Tutto il resto è trastullamento ideologico buono per allietare le serate in poltrona dei mai-stanchi, che in fase digestiva sono seduti comodamente nelle proprie poltrone nei salotti post-moderni delle abitazioni spesso di proprietà, prendendo parte ora per l'una o per l'altra (di parte). Anzichè occupare  la propria.

Quindi, la produzione (attraverso il suo agente che è l'impresa privata) è il mezzo (sic!) di accumulazione finalizzato al profitto monetario. La produzione è vincolata alle modalità di investimento, ovvero alla immissione di liquidità monetaria necessaria ad avviare le attività di produzione. A valle c'è la realizzazione (attraverso lo scambio) dell'esito della produzione atteso, che può essere mediamente previsto ma che molto più reddittiziamente viene indotto attraverso la valorizzazione del prodotto, (la psicologia cognitivista è riuscita con maggiori facilità a costruire le teorie e le pratiche di determinazione delle aspettative per via induttiva che di previsione per via deduttiva - solo per tirare in ballo la pubblicità). 
Non è così? Allora leggiamoci un po' quanto scritto in questo post Lo Stretto Occidentale riguardante tutt'altre cose, di cui qui vi riportiamo qualche stralcio su un felice incipit di più facile comprensione sui limiti tecnologici e le relative induzioni cognitive che istruiscono le decisioni:

Circa l’80% delle merci utilizzate nei mercati e nelle produzioni industriali di tutto il mondo vengono trasportate via mare da navi commerciali, porta-container, porta-rinfuse, petroliere, ecc. A muovere ogni anno decine di migliaia di persone attraverso gli oceani a scopo turistico sono imponenti transatlantici assemblati nei medesimi cantieri navali. Quanto grande può essere una nave? Cosa lo decide? Lo stretto di Panama. Quest’opera faraonica concepita nell’Occidente estremo, determina ancora oggi le dimensioni delle strategie economiche e militari dei paesi transitanti, traendone un cospicuo reddito.
In quali paesi del mondo viene utilizzato il condizionatore? Potremmo dire ovunque. Questo ingegno della termodinamica nasce negli Stati Uniti agli inizi del ‘900 per migliorare le condizioni igrotermiche degli ambienti industriali. La sua applicazione su scala mondiale, oltre a nutrire un mercato cospicuo e stabile, forse in crescita, ha sancito l’abbandono di migliaia d’anni di sapiente progettazione ambientale, in cui il sistema di rinfrescamento e riscaldamento a costo zero, soprattutto domestico, era integrato nelle soluzioni architettoniche e, differentemente, nella sapienza costruttiva dei progettisti.
Attraverso quale stretto e quale dinamica transita oggi la nostra conoscenza?


Un altro esempio che potremmo aggiungere noi sono le politiche di innalzamento dell'età pensionabile ed i suoi effetti sulle redditività dei fondi pensione, le cui insane regole della finanza veterocapitalistica informano le decisioni politiche degli attuali governi.
Il post in questione poi continua su cose riguardanti le attività educative dei rifugiati, ma la chiosa finale è quanto di più indicativo noi contemporanei ci ostiniamo a non comprendere. In particolare coloro che si affacciano, come tal'altro facciamo noi qui, alla decrescita come processo non di riduzione controllata del PIL, ma di riqualificazione delle relazioni di comunità:

È così che è nato il Collective Cictionary, seguendo la pratica dialogica e maieutica di Munir Fasheh, con una sana e felice arroganza di ridefinire il significato delle parole. È questo il senso della co-progettazione in questo contesto: appropriarsi almeno un po’ dei compiti altrui, reggerne un piccolo carico per condurre la carovana. Al punto che chi vi sale è partecipe di una rinnovata qualità del fare, portando i propri bagagli e fardelli. Belonging in inglese significa tanto appartenenza quanto i propri beni. Stiamo dipendendo assieme da beni messi in comune. I contenuti si mischiano via via facendosi strada tra più labili confini.
È una forma di conoscenza che non ambisce a definire nuovi parametri. È una conoscenza in divenire che non vuole far altro che ridefinire i contenuti della conoscenza stessa, adattandola alle esigenze e alle urgenze del momento.
È processuale, direbbe lo scienziato. È contemporanea, direbbe l’intellettuale. È un passaggio, direbbe il poeta. È un bisogno, direbbe il refugee. È già qualcosa, direi io.


Come si può leggere, la lingua batte dove il dente duole. E' proprio il caso di dirlo.

Che cosa stiamo dicendo? Quello che qui non sappiamo più in che lingua scrivere: la crisi è di sistema. 

La modalità di produzione capitalistica (che ricordiamolo, senza l'energia a basso costo e a diffuso utilizzo mai si sarebbe storicamente determinata, sia nelle derivazioni tecnologiche che organizzative), ha consentito, attraverso l'organizzazione industriale del lavoro e la verticalizzazione delle relazioni fra capitale e lavoro, la strutturazione della attuali relazioni sociali di potere: l'intellettualizzazione della manipolazione della materia. Siamo più zen dei monaci tibetani! Altro che mano invisibile: la mano è visibile ed è quella dei manager e dei lavoratori che ogni giorno organizzano i fattori produttivi. Solo che nel tempo gli ingegneri sono stati sostituiti, nella scala gerarchica, dai cosiddetti funzionari (finanziari) del capitale. E forse da qui sono iniziati i problemi della modalità di produzione capitalistica.

Il capitalismo contemporaneo post-fordista, sostenuto da una certa cultura che viene chiamata neoliberista ma che qui preferiamo chiamare per quello che è, cioè finanziaria, ha operato ancor più nettamente la separazione fra la produzione ed il controllo delle conoscenze di valorizzazione delle produzioni (o del capitale, se si preferisce).
La nascita dell'opinione pubblica, che sembra aver totalmente sostituito la categoria di popolo, è oggi lo strumento cognitivo del tardo-capitalismo occidentale.  Se il capitalismo produce ancora qualcosa lo deve solo alle imprese piccole e medie che ostinatamente ancora sono controllate dai "padroni", che sono oggi - non appaia paradossale - gli unici possibili alleati del lavoro salariale e stipendiato e degli assetti di cittadinanza democratici, che nella formulazione del patto di cittadinanza conosciuto  stanno lentamente smantellando - i funzionari del turbo-capitalismo -  per sostituirlo con le nuove forme di individualismo cognitivo e desalarizzato del lavoro precario e numericamente flessibile. 

Si badi bene: non si sta scrivendo che alcune forze sociali debbano saldarsi in una dinamica politica conservatrice. Quando questo è avvenuto, l'esito è stato mortificante. Lo scenario politico italiano ne ha conosciuto una sintesi particolare nel fenomeno del leghismo, fenomeno che va estendendosi in ciò che rimane del moderatismo di maniera a Sud d'Italia, entrambe le forme avvitate nella possibilità remota ed ingannatrice di perpetuare forme di assistenzialismo statale e parastatale dell'imprenditoria locale e di terziarizzazione produttiva che fanno proprio allo scopo della deflazione monetaristica in azione da parte dell'èlite globale della finanza. E non ci sfugge neanche qualche occhiolino che la sinistra storica strizza a questa èlite, nell'illusione iper-egoica ed immatura di saperne gestire (nella più leale delle ipotesi) i processi di dominazione in atto. 
Nè si sta scrivendo che le evoluzioni organizzative post-fordiste (che la rivoluzione digitale ha consentito), e che si concretizzano non solo con le "macchine informatiche" ma con la messa in relazione delle mansioni produttive nella catena di montaggio moderna, non siano invece più propriamente la chiave privilegiata da dove leggere la crisi di sistema. Anzi, senza il toytismo il linguaggio mai avrebbe potuto aspirare a diventare così centrale nelle organizzazioni contemporanee della produzione capitalistica. La cosiddetta organizzazione 2.0 è l'evoluzione del toytismo: la centralità della comunicazione fra funzioni, e l'impulso alla creatività di rete che nelle organizzazioni produttive attuali s'intende organizzare, è (secondo noi) la più pertinente e sana evoluzione del capitalismo così come lo abbiamo sopra introdotto, poichè non intende annullare il conflitto (semmai, in coerenza, intende coglierne profitto) che le dinamiche comunicative necessariamente coagulano. Semmai, se un rischio si corre nelle organizzazioni post-toyotiste, è quello non capire che esse devono riscrivere nuovi patti di cittadinanza, anzichè muoversi all'interno degli statuti attuali e degli attori istituzionali consolidati, provando prima a destrutturarli per poi ristrutturarli funzionalisticamente: non ne cambia la sostanza, il linguaggio resterebbe lo stesso. In questo senso, le riforme del mercato del lavoro e del diritto del lavoro dovrebbero essere meno cialtrone di quello che finora sono state, se veramente le forze politiche che le promuovono vogliono rendere qualcosa a quel consenso che rastrellano nelle propagande che inscenano. Ma comprendiamo che ad una ingessatura del sistema produttivo fa da specchio un altrettanto conservatorismo politicista ed istituzionale.

La nascita dell'opinione pubblica, insieme al linguaggio che la fa da padrona nelle organizzazione produttive del neocapitalismo, sono oggi i meccanismi di rovesciamento delle logiche proprie del capitalismo: è per questo che ciò che è a valle oggi è così centrale nei processi produttivi, è per questo che ciò che viene solo dopo, ovvero la valorizzazione commerciale del prodotto al posto della capacità di produrre merci di qualità equivalentemente scambiata con del denaro nelle dinamiche di scambio, ha finito per svilire il capitale, la produzione e la dinamica sociale contingente: cosa sarebbero i derivati e i prodotti finanziari se non la brillante capacità tutta linguistica di vendere fuffa? Come li chiamereste questi farmaci stravenduti che non  hanno nessun principio attivo all'interno che ne giustifichi gli effetti terapeutici propagandati? Cosa sarebbero questi prodotti, tutti fondati sulla previsione future delle aspettative (individuali) definite dai modelli matematici se non più propriamente ciò che con l'impresa e l'imprenditore (e le dinamiche del conflitto delle società mercantili) a null'affatto a che vedere? Come lo chiamereste voi questo scenario? Schumpeter lo chiamò, nel significo reale della parola, socialismo e fine della democrazia. Ad ogni modo, conclusione (annichilente) di ogni conflitto nelle forme politiche e popolari civili.

La creazione di questo spazio virtuale della valorizzazione delle produzione in sostituzione dello spazio geofisico della produzione è stata la linea guida della delocalizzazione produttiva che tutto l'Occidente in decadenza ha perpetrato. Senza la finanziarizzazione della produzione, l'opinione pubblica non sarebbe mai divenuta concretamente operativa. E' per questi sottili motivi che oggi la politica utilizza locuzioni come "offerta", semantiche proprie non delle dinamiche della produzione della proposta e del progetto politico ma della valorizzazione commerciale e di marketing del contenitore delle ansie e delle angosce dell'opinione pubblica. In funzione  contenitiva prima e successivamente di mera produzione immateriale del bene pubblico. 

Il neocapitalismo non produce beni, ma semmai convenzioni, linguaggi, simboli, simulacri. 

L'Europa, un nuovo modello capitalistico e sociale. L'organizzazione 2.0,  e la centralità del lavoratore, delle sapienze produttive-organizzative e dell'imprenditore.

La Unione Europea intuì già alla fine degli anni '60 che gli assetti globali stavano modificandosi. La ex-URSS si sapeva che era finita già quando si produsse lo sbarco sulla Luna. Ma mentre gli USA continuarono a ritenere che quella fosse la strada maestra da perseguire, l'Europa cominciò a lavorare per darsi un assetto politico-istituzionale e monetario fondato sulla sua scuola economica. Aver rinunciato a perseguire più insistentemente per quella strada, oggi sottopone le nostre economie ed i nostri modelli alle sollecitazioni che stiamo soffrendo sul piano sociale e produttivo.  E tali sofferenze si ripercuotono, e non per improvvisazione della storia, proprio nel Sud Europa, che più di altre aree dell'Europa soffrivano e soffrono di una debolezza morale derivante dai processi di costituzione storica degli Stati Nazione e del tessuto produttivo capitalistico in essi insediatosi. Se a questo ci aggiungiamo che proprio in queste aree del Sud Europa si sono concentrate le sollecitazioni più massicce agite per innescare, nella fase della loro maturità civile ed industriale, quei ritardi che l'Europa non ha compreso  da subito come stimolo all'avviamento dei i processi di consolidamento politico della stessa, è inevitabile  che oggi le carte vadano a quarantotto. 
L'Italia, uscita dal fascismo attraverso una guerra mondiale e poi civile, negli anni '70 ed anche un po' prima è stata oggetto di sollecitazione nel suo assetto civile e democratico attraverso i fenomeni del terrorismo, che solo un ceto politico illuminato è riuscito a contenere nei suoi effetti devastanti con il programma di riforme  e di estensione democratica che proprio in quegli anni si misero in azione per ostacolare la deriva autoritaria che invece fu agita in Grecia. E la Spagna, insieme con il Portogallo, sono appena poco meno di 40 anni che sono uscite dalle lunghissime dittature fasciste, uscite avvenute non per effetto di una politica estera condivisa dei Paesi Europei che ne inducessero la trasformazione democratica, ma per morte naturale dei dittatori (o quasi, come in Portogallo, che arrivò alle democrazia sempre attraverso il potere militare). La stessa Irlanda è stato oggetto di politiche tardocolonialiste da parte della Gran Bretagna, e pur ottenendo a caro prezzo l'indipendenza nel 1937 è solo negli ultimi anni che ha potuto maturare anche la sua autonomia economica, forse cedendo a soluzioni capitalistiche che hanno podotto gli effetti che oggi il popolo irlandese, come quello degli altri PIIGS, soffre e sopporta.

L'Europa, all'interno di questo quadro storico di trasformazione globale del capitalismo da produttore di merci in vista del denaro, che nel dopoguerra si è trasformato in produzione di denaro attraverso le merci (la fase consumistica che meglio conosciamo) ed infine con fase attuale della produzione di denaro a mezzo della conoscenza, non è riuscita a definire un suo preciso modello di sviluppo integrato. 
Quello di cui veramente l'Europa soffre non è la crisi dell'euro (magari) ma della sua immaturità identitaria per via di un ceto dirigente (non solo politico, ma anche imprenditoriale e scientifico-cognitivo) che quando non consapevolmente al servizio di cause non proprie è totalmente scevro da competenze che vanno più in là del proprio ombelico. 
E' un deficit di politica estera e di collocazione nello scenario internazionale quello di cui soffre l'Europa, venendosi oggi a disegnare come l'area globale più debole del globo, e quindi soggetta alle intemperie provenienti dagli strappi che tutti frizionano nella nostra area. 
E' un deficit di analisi economica che si ostina a caratterizzare le leggi economiche fuori dall'esistenza reale dei processi storici e sociali, presentando le proprie elucubrazioni come universalisticamente applicabili, salvo poi scoprire che l'economia della conoscenza e fondata sui saperi (con il derivante parossismo della valorizzazione di cui sopra, e della iperproduzione tecnicistica e del sapere scientifico teorico) presenta più scuole di pensiero che pensatori stessi.

Se allora forme di produzione e rapporti sociali sono una l'espressione dell'altra forma, l'Europa non ne esce ritornando come un gambero sui propri passi, poichè significherebbe essere relegati per altri 50 anni ad un ruolo marginale nello scenario internazionale. Ma semmai è dalla corretta analisi di questa relazione sociale che può derivarne una via di uscita dall'impasse nella quale versa.

L'Europa deve ripensare seriamente ai suoi equilibri produttivi, oggi costituiti prevalentemente soprattutto in Italia e Germania (e meno decisamente in Francia) un assetto produttivo capitalistico imperniato sull'attività artigianale-concorrenziale (e comunque di PMI) , consentendo a questo assetto produttivo di evolvere verso una fare impresa fondato sulla soggettività del lavoratore, lasciando alla storia la fabbrica fordista e post-fordista che ha fondato i suoi successi (e i suoi fallimenti) sull'espropriazione dei saperi artigianali degli operai, e recuperando quella sapienza collettiva propria del lavoro per far posto alla astrattizzazione del contenuto produttivo (che nella valorizzazione dello scambio e non dell'investimento e della produzione di valore trova la sua massima espressione). La stessa impostazione della organizzazione 2.0 non ha motivo di essere se non viene recuperata da subito questa soggettività dell'agire imprenditoriale da un lato e delle competenze professionale del lavoratore dall'altro. Non sarà il renderci  ulteriormente schiavi e desalarizzati a farci recuperare competitività nelle nostre produzioni, ma lo stimare negli scambi commerciali la soggettività deposita nei beni che acquistiamo e vendiamo. Non sarà il rendere ancora più muta e sequenziale l'organizzazione produttiva a farci recuperare produttività, quanto semmai il cogliere che la sfida è propriamente organizzativa,  attraverso il ripristino dei livelli di comunicazione fra le funzioni e le mansioni ad ogni livello,  poichè è da tutti i livelli che viene a determinarsi quella cooperazione creativa che la competizione globale domanda alle imprese nello scenario globale.

Informazione (strutturazione del dato cognitivo), sapere (inteso come produzione di capacità di apprendimento, sia in termini operativi che adattivi), e conoscenza (intesa come evoluzione cognitiva generale del sistema di saper evolvere) sono i fattori propri del lavoro, e la sfida organizzativa dei fattori produttivi che ci attende. Se questi 3 fattori, così interdipendenti, sono quanto di più costitutivo al neocapitalismo, questi da soli non potranno dimensionarsi e ridimensionarsi senza il piano della verifica produttiva che l'Europa non deve completamente dismettere. Poichè il piano della verifica produttiva non consente la sterilizzazione organizzativa nella parcellizzazione delle competenze che invece è stata promossa  dalle politiche (si vedano le riforme della scuola e della università introdotte in Italia), in funzione delle esigenze della fabbrica fordista e post-fordista. Seppur ogni fattore ha uno statuto da occupare suo proprio nell'attività produttiva (e riproduttiva nella scuola), solo una comunicazione ed una interdipendenza fra esse è ciò che può consentire l'efficacia della razionalità produttiva (e se a scapito delle efficienza è tutto da dimostrare!). 


Produzione e  produttività: il valore della conoscenza e  socialità.


Allora, il postulato dei rendimenti decrescenti di produttività per unità di costo lavoro (applicati alla produttività marginale per le attività labour intesive) è quanto di meno analitico ed empirico ci sia, ma è quello che è: un dogma. Chiedetelo a quelle imprese le cui produzioni sono ad alto contenuto di sapere e a grande trasmissione della conoscenza incorporata. Il dogma vale solo per le produzioni tayloristiche, dove la forza-lavoro operaia è equiparata a quella di una macchina. Nel lavoro taylorista è l’intensità del grado di utilizzo delle macchine e degli impianti a garantire crescenti livelli di produttività. Ma poiché tali incrementi di produttività connessi all’utilizzo sempre più automatico delle macchine non possono esistere senza il supporto del lavoro salariato, tale produttività è direttamente commisurata all’erogazione del lavoro umano. Avviene così che la forza del taylorismo stia proprio nell’aver innescato rendimenti crescenti di scala a differenza del capitalismo artigianale. Tali rendimenti crescenti derivano dallo sfruttamento delle economie di scala statiche, ovvero dalle economie dovute alle dimensioni. Ne consegue che al crescere della grandezza degli impianti e del loro numero, la produttività per unità di lavoro, grazie al meccanismo di razionalizzazione e parcellizzazione del lavoro guidato dalle macchine, tende a crescere sino ad un certo limite massimo. Dal lato empirico è facile osservare che è proprio nel periodo fordista-taylorista che la produttività del lavoro tende ad aumentare in modo esponenziale soprattutto nel periodo del secondo dopoguerra e solo a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta inizia a manifestare tassi di crescita decrescenti. Si tratta di una dinamica che nulla ha a che fare con l’ipotesi di rendimenti decrescenti dei fattori produttivi. Le cause sono diverse, e stanno tutte nel fatto che le risorse energetiche e di materie prime sono finite, e che i mercati di consumo si saturano. Le imprese che riescono a conservare competitività sono quelle che della efficacia della conoscenza interna (o esterna se importata) sanno tradurla in valore economico, sia attraverso la moltiplicazione (e cumulatività) della diffusione interna, sia attraverso la appropriazione tecnica e tecnologica dell'innovazione di prodotto e di processo. Il valore economico è proprio dato dalla efficacia della conoscenza, dalla sua propagazione e cumulatività, e dalla sua appropriabilità. Il primo fattore moltiplicatore, appunto, richiede investimento (sia pubblico che privato), la cumulatività dipende dall'intensità dei flussi comunicativi che all'interno dell'impresa si generano, e infine la materializzazione che con l'appropriabilità l'impresa realizza, facendo produzione e profitto. E ciò semplicemente perchè la conoscenza non ha beni rivali. Le organizzazioni del learning by doing o del learning by using sono istruttive. Chiedetelo ad un artigiano, che non conosce l'inglese... fortunatamente. Possiamo ragionevolmente pensare che maggiore è la quota della conoscenza codificata sul totale della conoscenza disponibile ai fini dell’attività di accumulazione, maggiore è il livello di produttività sociale raggiungibile (naturalmente fino al limite della conoscenza che non è più appropriabile e che è propria del lavoratore). E quindi di ricchezza prodotta da redistribuire (a differenze delle attuali condizioni di produzione di valore che finiscono per agire politiche inique e definite su una pessima politica redistributiva, come un cane che si mangia la coda). 

E anche per questi motivi, che le modalità di produzione precapitalistica e quelle del neocapitalismo cosiddetto della conoscenza escono fuori dal quadro del modello classico meccanicistico input/output e chiamano in causa gli effetti più ampi e sistemici dell'outcome e dell'income. Quindi maggiore è il contenuto cognitivo della produzione (conoscenza, apprendimento, relazionalità), più essa saprà essere produttiva e competitiva, e più saranno centrali nella organizzazione produttiva i fattori umani di produzione. Non appaia strano, quindi, che sarà proprio la saldatura fra l'approccio neocapitalistico tipico della produzione semiotica del capitale finanziario e la natura più pertinente del capitalismo prefordista a poter segnare un nuovo passo per l'Europa. Ed a riportare il continente nel ruolo internazionale che le compete. 

L'Europa e gli europei devono dall'impasse geopolitico nella quale si sono ficcati, e dismette questa idealizzazione del mercato come luogo di scambio, quale meccanismo attraverso il quale si stabiliscono le interrelazioni tra venditori e compratori che danno luogo alle decisioni di scambio di beni e servizi, indipendentemente da qualunque riferimento geografico. 
Il mercato è stato finora inteso come il luogo della verifica dell’efficacia delle decisioni prese, in un contesto più o meno razionale, a livello individuale: di conseguenza, lo scambio, che si realizza nel mercato, essendo l’esito dell’agire economico individuale, è l’unica attività economica che merita di essere analizzata e studiata. Ogni altra attività economica, produzione compresa, si riduce prima o poi a scambio. E se invece fossero proprio le forme di produzione e di accumulazione a determinare e influenzare il mercato? In questo senso, il mercato non sarebbe per null'affatto un luogo neutrale, ma il luogo del potere, e non della democrazia e della redistribuzione della ricchezza!



Se la conoscenza è l'elemento determinante della produzione di valore, conoscenza che fluisca fra i nodi delle competenze specialistiche per definire una sintassi organizzativa dinamica, parimenti si rende necessario un tempo da intendersi in soluzione di continuità, un tempo intenso come metodo di connessione e  metodologia che traccia un percorso. Certamente non fisso, prefigurato. Ed altrettanto certamente che non prescinda dalla memoria cognitiva fino ad qui tracciata. 
Così come gli spazi di esercizio del processo di creazione del valore non possono essere compartimentalizzati ed impermeabilizzati, altrettanto la conoscenza così come essa è evoluta nel tempo non indica processi storici discontinui. Ed in secondo luogo la conoscenza non si esercita e sviluppa  unicamente nei luoghi specifici di produzione, ma è una caratterizzazione che investe tutto il fare materiale ed immateriale dell'uomo. E' per questi motivi che la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro è solo stato l'inganno ideologico della retorica funzionalista del consumismo, perchè mai si smette veramente di lavorare, e cioè di creare valore alle proprie esistenze (che in parte sono vissute per esigenze materiali, ed in parte per esigenze immateriali). Se le qualità esperenziali ed umane, come abbiamo scritto, sono centrali importanti per le produzioni del capitalismo e le forme di produzione, che sappiamo sommate, delle abilità produttive pre-fordiste (o artigiane e piccolo-industriali) e quelle del neo-capitalismo che della conoscenza ne fanno il perno di raggiungimento dei risultati industriali oltre che produttivi, si deve convenire che mai si smette di lavorare. O meglio, si smette solo di lavorare in un certo modo, quello fin qui reso dal metodo della separazione dei tempi e degli spazi della fabbrica fordista e post-fordista. Oltretutto, i tempi di formazione e di apprendimento oltre che essere nelle organizzazioni  moderne frammiste alle pratiche produttive (tanto da parlare di formazione continua itinerante e professionalizzante), sono trasversali agli stessi tempi di lungo periodo dell'attività lavorativa personale. Le organizzazioni produttive più avanzate non selezionano solo competenze funzionali meramente pratiche (cosa sai fare), ma selezionano sopratutto le competenze linguistiche dei candidati (ciò che puoi essere in grado fare), poichè dalle competenze linguistiche è possibile rintracciare le abilità umane che rendano possibile per quella organizzazione industriale in grado di generare valore. Avere unicamente bravi operai o impiegati o tecnici che sanno eseguire determinate funzioni operative non è sufficiente a generare valore, se non introduce nel sistema la dinamicità evolutiva che l'apprendimento cognitivo determina. E le abilità di apprendimento sono rintracciabili  nel linguaggio, fosse anche solo quello del dialetto ma che comunque connota le abilità cognitive proprie della conoscenza che sono articolate nella capacità di astrazione analitica e deduttiva. Un contadino, nella lingua che conosce, sa nominare ogni cosa del suo fare agricolo e contestuale, ed il sistema cognitivo, oltre che derivato dalla memoria sapienzale di quel fare a lui trasmesso, è rinnovato permanentemente. Può sembrare ovvio, ma non è così. Non è così ovvio, tanto per rendere meglio l'idea, se un esquimese ha 90 parole diverse per chiamare per nome il fenomeno  che noi chiamiamo soltanto neve!
A questo si aggiunga il fatto che la stessa attività lavorativa viene a definirsi non nel breve periodo e sul ciclo di vita del prodotto (in chiave, appunto, soltanto funzionalistica), ma anche nel medio e lungo periodo temporale.


Non serve, quindi lavorare più ore per aumentare la produttività, ma serve lavorare meglio, magari anche meno ore per lasciare spazio ad un tempo di qualificazione riproduttiva (crescita intellettuale, creativa, emotiva, sociale e relazionale) del lavoro stesso, in tutta la sua qualificazione immateriale. Le richieste di allungamento dell'orario lavorativo stanno proprio ad indicare che la competitività la stiamo calibrando proprio con quelle produzioni il cui contenuto immateriale è se non inesistente mediocremente presente.
Invece il capitalismo che produrrà ricchezza sarà quello che delle forze umane e vitali ne costituisce il fulcro, facendo sì che esse si riproducano, non solo all'interno di contesti produttivi cooperativi, ma soprattutto in continuità anche fuori dai luoghi specifici della produzione. Sarà la stessa vita degli individui ad essere messa al lavoro. Certo, questo avrà aspetti positivi e negativi che dovranno essere oggetto di approfondimento e di definizione giuridica pertinente, ma deve essere chiaro che il neocapitalista non è il tempo di lavoro che deve catturare, ma il tempo di vita stesso. E' in questo senso che deve riporsi molta attenzione alle forme di controllo biopolitico, non solo da intendersi nella prima accezione di Foucault di controllo disciplinare dei corpi (che ha caratterizzato questa fase del capitalismo fordista e post-fordista), ma anche a quelle tecniche (vedi M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990, pp. 157 e ssgg) che si rivolgono


alla massa globale investita da processi di insieme  che sono specifici della vita, come la morte, la nascita, la produzione, la malattia. ….. [La tecnica biopolitica] ricolloca i corpi all’interno dei processi biologici d’insieme

E' nel neo-capitalismo che le tecniche biopolitiche si articolano nella materializzazione non solo del tempo biologico degli umani, ma anche nella generazione vera e propria (autopoeitica) del vivente. Il neo-lavoratore cognitivo, nodo di una rete connettiva linguistica e comunicativa di riproduzione della conoscenza e del valore, può generare ricchezza solo all'interno di un processo cooperativo. Si tratta di quell'individuo sociale tanto caro a Marx, il quale inquadrava il comunismo non nella funzione antagonista al capitalismo (ideologia del '900 di impropria manipolazione delle teorie scientifiche dell'uomo) ma come la necessaria evoluzione del capitalismo nel suo processo storicistico auto-regolativo frammisto di crisi.

Conclusioni: l'Europa del lavoro e dei diritti e la rifondazione democratica dei suoi equilibri


Per concludere, l'Europa, che del capitalismo ne è stato la madre, oggi deve voler aspirare ad un ruolo nello scenario internazionale meno provinciale di quello che invece attualmente riveste. La vittoria di Obama negli USA, con le difficoltà insite in una società ancora molto refrattaria alla comprensione che dover trasformare i propri stili di vita produttivi riproduttivi e di fruizione dei beni, è benvenuta. Obama possiede le consapevolezze che le politiche autoavvitanti dei precedenti ultimi 30-40 anni, costituite sia dalle politics repubblicane che democratiche, ormai lasciano il tempo che trovano. E che gli USA devono ripensare ad un nuovo modello di sviluppo. Non è un caso infatti che lo definiscano un socialista. Potrà riuscire nell'impresa, però, solo con un'Europa più consapevole dell'importante ruolo che il mondo intero ad essa domanda, in primo luogo perchè la sfida dell'Europa è singolare: può solo contare sulle proprie forze, non avendo grandi depositi di materie prime e di energia fossile non rinnovabile. Solo l'Europa ha tutte le condizioni per dimostrare che una traiettoria diversa è realisticamente tracciabile.

Certo, non è possibile con i compromessi finora attuati da un ceto politico dirigente cieco ed antipopolare. L'architettura istituzionale europea attuale è un mostro non decisionale cui mettere subito mano, chiudendo questi tavoli permanenti che vedono le cancellerie coordinarsi unicamente nell'impasse, con un Parlamento ed una Commissione Europea svuotati dei loro ruoli, e con una Banca Centrale che della sua autonomia non può agire senza una parallela e chiara politica economica che i cancellieri d'Europa non sono in grado di produrre per il rinsecchimento autoreferenziale negli interessi nazionali. Infatti, quando qualcosa accade è solo perchè l'emergenza la rende inevitabile per via degli effetti devastanti che mettono a rischio tutti.
Invece la via d'uscita è quella di dare più ampi poteri all'assemblea parlamentare europea, e dove le maggioranze che si vengono omogeneamente a definire dopo le elezioni consentano la formazioni di esecutivi di fiducia di queste maggioranze parlamentari. Questo aiuterebbe per un verso il nostro ceto politico italiano a rinnovarsi anche attraverso il confronto con i colleghi dello stesso gruppo politico europei, e a trovare soluzioni programmatiche che debbono trovare il consenso all'interno di un quadro popolare.
Certo, il processo è faticoso, lento. Ma non passa dalla retorica della cessione di sovranità non si sa bene a chi (cosa che è già accaduta e che si celebra nell'inutilità dei tavoli di confronto delle cancellerie) nè tantomeno dall'istituzione di elezioni del Presidente dell'Unione Europea (fantasia onirica che non vede la realtà della complessità ed articolazione del continente europeo, che è così perchè è stata terra della evoluzione del pensiero dell'uomo fino ad appena qualche secolo fa), ma nel ripristino delle normali regole di funzionamento delle democrazie, dove i parlamenti svolgono le funzioni deliberanti, gli esecutivi il ruolo di governo. Fuori dai simulacri nazionalisti adesso tanto in auge, ma nella necessaria sintesi che invece urge, prima che questi ritardi si facciano struttura.

Questi sono argomentazioni che non solo rispiegano la lungimiranza dei nostri costituenti nella stesura della nostra Costituzione, fondando la Repubblica sul Lavoro, ma sopratutto perchè l'Italia fu uno dei Paesi che promosse la pace e la cooperazione in Europa. Quella che adesso qualcuno vorrebbe mettere in discussione, commettendo un grossolano errore regressivo della storia.







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