mercoledì 31 ottobre 2012

LA CRISI DELLA PARTECIPAZIONE POLITICA, ovvero sull'Apparenza del Conflitto


Il fenomeno dell'astensionismo (che nelle ultime elezioni siciliane ha superato il 50%), e che, ricordiamolo, sta particolarmente agendo non sulle elezioni politiche generali (dove la partecipazione al voto è e resta  fra le più alte in Europa, almeno fino a quelle celebrate nel 2008) ma sulle chiamate elettorali al rinnovo delle amministrazioni locali (tutte!, e in grandezze sempre maggiori da 15 anni ad oggi), sta mettendo in luce la corrispondenza fra la crisi che attraversano i territori, nella loro più piena e specifica espressività, e la crisi della partecipazione politica intesa come partecipazione al processo decisionale ed alle dinamiche conflittuali che sottendono la produzione della decisione, e dalle quali ne deriva per decantazione la conseguente responsabilità politica.



A questo link (clicca qui) è possibile leggere una (non eccessivamente lunga) sequela di sintesi interpretative su quelle che sono individuate essere le cause della crisi della partecipazione politica. In particolare l'autrice, Laurana Lajolo, insiste in un'efficace lettura del libro di Giorgio Barberis e Marco Revelli La fine della politica.
Non è il caso qui di riportarne una ulteriore sintesi. Quello che certamente ci preme sottolineare è che la crisi della politica (e della partecipazione al processo decisionale proprio della formazione della decisione politica)  è per Marco Revelli da rintracciarsi nella perdita di funzione del lavoro a fonte di produzione di senso, essendosi persa (la funzione del lavoro) nell'invisibilità a mero componente e fattore produttivo. 
Laurana Lajolo infine chiude insistendo su una lettura della crisi della politica e della relativa partecipazione utilizzando delle chiavi interpretative di Hannah Arendt, e cioè il binomio identità/diversità e quella di politeia.
Scrive:


E il binomio identità/differenza viene utile oggi per ragionare in termini politici riguardo alla multietnicità nel mondo occidentale, operando l’esercizio di riconoscimento e di rispetto reciproco delle identità e delle differenze contro ogni forma di integralismo religioso e politico, con obiettivi comuni di superamento dell’ingiustizia e della discriminazione. E questo è il compito alto della politica, che non è sostituibile dallo strumento guerra o dallo strumento terrorismo.
Arendt preferisce, però, al termine “politica” quello greco di “politeia”, cioè la cittadinanza che dà diritto ad agire nello spazio politico. L’uguaglianza politica, la differenza sociale, la pluralità sono le condizioni dell’agire e di ricostituire l’identità umana. Lo stesso rapporto uomo natura va inscritto nello spazio politico in continuità tra l’umanità e il cosmo, che dà il senso della vita umana.
La politica moderna ha espropriato gli uomini dell’agire e, per riconciliare quella scissione tra pensiero e azione, bisogna rifondare filosoficamente uno spazio politico. In tal modo la politeia garantisce l’imprevedibilità dell’agire che dà inizio a qualcosa di nuovo, cioè una nuova scienza della politica, fondata su una filosofia che non trascenda la storia, ma sappia interpretare gli avvenimenti del mondo.
In tale dimensione la nuova filosofia politica coinvolge la pluralità degli uomini e non solo gli addetti alla politica, riuscendo a rendere agenti della storia tutti i soggetti fino a sperimentare la rivoluzione, capace di dare natalità agli eventi che potrebbero anche non essere.

Più avanti, sempre utilizzando categorie di Arendt relative all'universo femminile (natalità, responsabilità,  relazione sociale e solidale, uguaglianza nella sfera pubblica e differenza nella sfera privata), scrive:

Le nuove forme di azione delle donne si sono connotate in luoghi specifici e circoscritti: nelle fabbriche, nei comitati di quartiere, nell’università. É stata una scelta di modalità di pratiche politiche diverse dagli strumenti politici tradizionali.

Chiude attribuendo alle categorie del movimento femminista e femminile, e all'applicazione di queste categorie nei processi decisionali della politica, una via di uscita dalla crisi della democrazia e della partecipazione politica dei cittadini. Condividiamo, ma seppur questa impostazione e relativa soluzione sono necessarie, certamente non sono sufficienti. 

La chiave, a nostro parere, sta tutta nell'ultima citazione, e più precisamente nelle parole evidenziate da noi in grassetto. E che qui adesso proveremo ad articolare per dare un senso al titolo di questo post, in coerenza con quanto finora scritto nelle etichette etica e territorio di questo blog, e del senso più profondo che lo sottende e lo sostiene.

La crisi della politica, e cioè della sovranità popolare, è tutta da rintracciare nella crisi dei territori (luoghi) quale radure dove si esercita la necessaria contesa delle risorse non solo economiche ma soprattutto giuridiche. O meglio, nei territori intesi come spazi di contesa della definizione delle regole della relazione "politica" fra i cittadini nei diversi ruoli sociali che questi ricoprono nella quotidianità dell'esercizio della cittadinanza (del diritto di cittadinanza).
I luoghi del lavoro, così come i luoghi di urbanizzazione delle relazioni sociali, così come i luoghi dove la contesa ha lo spazio di esercizio legittimo e politicamente rilevante e decisivo (le istituzioni), così come i luoghi privati di esercizio delle relazioni sentimentali, in una parola tutti i luoghi di esercizio della "intenzionalità" della produzione di senso, sono in profondissima crisi, e questa crisi si riverbera nella determinazione della coscienza politica di un popolo, ovvero sulle regole non solo di condotta ma di determinazione del senso politico. 

Se i luoghi sono il piano oggettuale delle relazioni interpersonali di produzione di senso, nell'indeterminatezza e nell'ambiguità (tanto per richiamare Lajolo) propri dei territori,  in quanto tali  il senso che ne nasce è appunto per far fronte al caso e all'indeterminazione. Quindi l'organizzazione reale e realizzata (depositata) nei territori è figlia dei tentativi di abitare quell'ambiguità e quella indeterminazione.

Il senso del territorio emerge sempre in relazione agli eventi che sono, ricordiamolo, vincolo e possibilità, e, soprattutto, in relazione al nostro mondo intrapsichico. Il territorio è la mappa di valori che le nostre relazioni abitative tessono in quello spazio. Siamo costruttori di senso perché letteralmente sentiamo il mondo, e costruiamo significati attraverso il processo di simbolizzazione che collettivamente determiniamo. Certamente attraverso approssimazioni temporali fino al consolidamento sociale ed istituzionale, ma altrettanto certamente nella tumultuosità che l'azione conserva nella relazione insormontabile del livello pre-riflessivo dell'intenzionalità del soggetto agente.

Se, allora, il territorio è lo spazio di esercizio del processo decisionale di senso (politico), ovvero l'area dell'intersoggettività relazionale prodotta dal movimento oscillante fra l'area dell'ambiguità (dell'asemanticità) dell'azione, e l'area della riflessività scambievole che producendo significati determinano immagini e simboli e contribuiscono a creare l'in-comune, la crisi della politica è tutta da rintracciare nell'espropriazione piena di questa volontà di potenza (chiamiamola così) dell'agente (non dell'attore!, categoria questa propria della finzione e della rappresentazione) politico. In parole povere, della espropriazione dell'identità politica!

Il territorio della determinazione politica, oggi, è estraneo a questa oscillazione reale di cui sopra: se il territorio non è più il luogo della tensione fra l'azione pre-riflessiva del soggetto e il luogo della stabilizzazione simbolico-normativa che da quella tensione permane, come deposito, nei territori, non può che derivarne che la crisi della fattualità politica. 

Se ogni costruttore di senso è, per usare le parole di Mead, un "parlamento di sè", e se l'identità (personale e collettiva) quale senso riflesso del territorio che si abita ed  il cui "latte materno" delle simbolizzazioni nel territorio  ivi depositate da tutti e personalmente azionate rimodulate e ridefinite (nella ricorsività fra territorio e agenti in quel territorio) ci ha nutrito, ebbene è propriamente dalla crisi dei territori che un'azione politica può oggi avere statuto e ripristino corretto dell'articolazione della contesa politica.

Non appaia, quindi, paradossale che proprio quando ogni parte politica domanda maggiore partecipazione dei cittadini nella scelta (verticistica) del candidato premier o dell'elettorato passivo che costituirà le liste alle prossime politiche del 2013, (vedi le primarie de' noialtri quale  strumento oggi adottato un po' da tutti), di fatto sta solo a significare che questo è il sintomo più preciso della crisi della partecipazione e dell'apoteosi dell'apparenza della contesa politica. Fattivamente quello che viene riprodotta è la distanza sempre maggiore fra (abitabilità del) territorio e abitanti quel territorio. 

L'astensionismo, allora, è in primo luogo il risultato di un'azione di annichilimento delle identità del territorio, e non da intendere come una risposta magari scomposta ad uno stimolo, o un comportamento osservabile o un raggiungimento di uno scopo. Cadere in questa trappola interpretativa dell'azione in questione (l'astensione) ci farebbe perdere il senso (critico) che quell'azione vuole significare, quale ultimo lamento dell'inazione politica del diritto di cittadinanza e dei suoi detentori.
In secondo luogo, dovremmo liberarci dall'idea che gli umani abbiano bisogno di un mondo dotato di caratteristiche predeterminate e di informazioni precostituite, e che l'abbandono di questa fissità è ciò che ci fa scivolare nell'idealismo (politicista), nel nichilismo (economicistico e finanziario), nel soggettivismo (nell'atomismo della liquidità sociale). E cioè che o c'è un mondo fisso e stabile, o tutto va a rotoli. Il mondo non è mai stato fisso e stabile. Il mondo non è mai stato predeterminato, ma è il risultato delle interazioni dei suoi abitanti. Semmai, l'astensione e la crisi della partecipazione politica è tutta da rinvenire proprio in questa fissità che l'industria della produzione (culturale prima che politica) del senso agevola e diffonde: le primarie, o la selezione dell'elettorato passivo, sono la medicina palliativa alla crisi del luogo politico e alle contese che nella realtà in esse vengono esercitate non apparentemente, ma che da noi non trovano personale e formale espressione. E per questo prendono la forma del disimpegno all'esercizio del diritto di voto.

L'astensione, quindi, è il sintomo reale del decadimento delle democrazie occidentali e dei popoli di queste. Una malattia che deriva tutta dalla identificazione del personale politico con le "narrazioni" che questa definisce del mondo. La reazione da strapaese che ha attraversato prima il Nord Italia (la prima vittima celebre di questo processo di espropriazione dell'identità dei territori) e che adesso sembra affascinare come replica antagonista anche il Sud Italia (vedi il fiorire di liste autonomiste al Sud, in particolare in Puglia e più vigorosamente adesso in Sicilia) sono gli effetti scomposti e disarticolati all'inazione della contesa e del conflitto,  che l'industria del consenso adesso prova a disancorare ulteriormente nel confronto geografico, stabilendo che una sintesi alla sovranità possa essere esercitata solo se viene istituito un tavolo permanente nazionale dove "ci si conta" e dove ogni volta si contrattano le allocazioni delle risorse, economiche e giuridiche, finendo di fatto per uccidere il malato, ovvero il popolo e il suo esercizio sovrano della politica in una sintesi contesa più ampia.

Non saper individuare gli elementi di unitarietà, cosa che il fare politico ha il dovere e la conseguente responsabilità di compiere, ci trascinerà ancor più ulteriormente nella sovrastruttura dell'apparenza del conflitto, che premia solo le false contese (paradossalmente!) nazionali e sovranazionali, ma non quelle molto e ben più decisive che invece si giocano nei territori. Cioè, nei luoghi dove le dialettiche reali determinano la produzione di senso: vedi l'abbandono politico dei luoghi del lavoro, e quindi della produzione delle cose e quindi della produzione del senso del fare le cose e quindi delle relazioni giuridiche che nei luoghi del lavoro vengono prodotte nell'organizzazione della produzione. Vedi, di conseguenza, l'abbandono dei luoghi della fruibilità delle cose prodotte (e quindi delle relazioni sociali e giuridiche accessorie che ne derivano) alle piattaforme del consumo individualistico e del cosmopolitismo produttivo dell'esilio del diritto di cittadinanza che in quelle merci vi sono depositate. Vedi la discussione tutta monetaristica che sta attraversando la legittimità giuridica dell'esistenza dell'Europa quale sintesi più alta possibile, nella contesa inevitabile che le sue differenze ne costituiscono la ricchezza e non solo un limite.  
Giocare alla proposta politica "alternativa" con il linguaggio che è più vicino alla produzione sovrastrutturale di coloro che detengono "i mezzi di produzione" dell'attuale senso politico ci porterà esclusivamente  (ma non in esclusiva!) alla fine della democrazia e dei diritti di cittadinanza. Diritti che debbono, innanzitutto, essere rintracciati nella memoria deposita nei territori. E da questa memoria provare a lanciare in questo presente critico un'uscita dalla crisi sistemica che sta attraversando trasversalmente ogni fondazione giuridica dell'operatività umana.

Infine, dobbiamo questo post alle sollecitazioni che efficacemente ci sono state determinate dalla lettura di questi altri tre post redatti su alcuni dei blog facenti parte del nostro blogroll (i primi due redatti anche da collaboratori di N.O.I.) e che vanno letti per la maggiore efficacia della scrittura e della comunicazione della "domanda" di senso che interrogano.









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