domenica 10 febbraio 2013

RIPRENDIAMOCI LA DIGNITA'


Così titola il Corriere online oggi, 10 Febbraio 2013. Uno su cinque, ovvero il 20% delle occupazioni andate perse, è "under 35" (che per un Paese provinciale come il nostro impastare un po' d'inglese nell'italiano da 300 vocaboli al massimo tutti di derivazione televisiva, fucina della neolingua degli italioti, fa sempre figo ed integrazionista). L'articolo lo potete leggere qui, se è d'interesse. Ma è un'altra la questione, anzi le questioni di cui invece noi, adesso, vogliamo scrivere. Per la precisione. 



Quindi, il Corriere titola che 1 su 5 dei posti di lavoro andati persi era ricoperto da persone sotto i 35 anni. Se poi, come si legge nell'occhiello della titolazione, tengono soltanto gli "over 55", ne deduciamo che almeno 3 di questi 5 posti, ovvero il 60% delle occupazioni, è andata persa fra il gruppo anagrafico che corre dai 36 ai 54 anni.
Ed è questa la notizia: che almeno 4 persone su 5 fra coloro che han perso il lavoro si colloca in quella fascia di età che, per le attività produttive di un Paese politicamente decotto e protocapitalistico, viene avvertita come inadeguata e di difficile ricollocazione nel "maledetto" mercato del lavoro. E siamo fortunati che almeno tengano coloro che hanno superato i 55 anni, altrimenti questo esercito di lavoratori "anziani" non troverebbe ricollocazione professionale manco piangendo in arabo!, dato che questa è già la condizioni di coloro che, superata la soglia dei 29 anni, non hanno più nessuna appetibilità per le imprese (che ancora facciamo fatica a capire a cosa resistano!, caro Oscar Giannino), le cui imprese agiscono unicamente sul lato del contenimento dei costi e non della valorizzazione delle produzioni. Ma questo accade in un Paese dove anche il cane di Petto Lana si è inventato, negli ultimi 25 anni, essere un imprenditore senza nessuna cognizione anche minima di cosa significhi essere capitalisti. E senza aver bisogno di organizzare competenze che superassero il diploma di ragioneria o di perito meccanico al fine di informare al meglio il processo decisionale interno.  E che quindi, non avendo necessità di confrontarsi con il neocapitalismo cognitivo ma solo con le forme arcaiche tipiche dei Paesi in via di sviluppo, ha sempre ed unicamente richiesto alla politica riforme del diritto del lavoro una peggiore dell'altra, da Tiziano Treu (ministro del Prodi I) a Elsa Fornero (ministro del Monti I).

Riforme del lavoro che hanno solo indotto le nostre imprese non ad effettuare investimenti sul capitale umano, sul rinnovamento dei processi produttivi e sull'innovazione di prodotto, sulle politiche commerciali di internazionalizzazione, sulla connessione stretta e costitutiva coi territori per la costituzione di distretti produttivi integrati, sulla costituzione delle reti d'impresa, sull'innalzamento del livello di istruzione e di competenza cognitiva del personale occupato, sull'utilizzo delle associazioni di categoria  datoriali non oltre al un fare un piacere ai politicisti che avevano da sistemare qualche parente al sicuro dalle tempeste in cambio del privilegio a quella che si sta dimostrando essere, nei fatti, il karakiri delle attività produttive italiane. E tralasciamo di scrivere della sconfitta etica, prima che funzionale, del sindacato italiano, ormai solo preoccupato di sommare iscritti (la cui numerosità è oggi assicurata dai pensionati!) al fine di ricevere il finanziamento pubblico per i patronati (eh sì, perchè non ci sono solo i partiti che magnano denari pubblici nel BelPaese). E non scriviamo delle banche, le cui fondazioni controllate dai politici servono solo al fine di ricattare gli stessi imprenditori se vogliono ricevere come una grazia un po' di fido in cambio di un po' di "amicizia".

Le riforme del diritto del lavoro fin qui effettuate sono solo servite ad alimentare la crisi del capitalismo italiano, differendone il declino a suon di spesa pubblica, di svalutazioni monetarie (finchè è stato possibile effettuarle), contrazione dei salari, riduzione del potere di acquisto degli stessi in favore dell'allargamento delle inefficienze tipiche dell'economia della rendita mobiliare ed immobiliare, immigrazioni di massa al fine di sostenere produzioni al limite della sicurezza e della salubrità che gli italiani si rifiutavano di compiere, oltre che per indurre a contrattazioni salariali al ribasso che potesse concentrare i vantaggi sempre più in poche mani (come se la lezione che il capitalismo ha senso solo se vengono conservate ampie politiche redistributive e di equità non si fosse mai svolta e tenuta nella storia dell'uomo!).

Diciamocelo francamente: molti imprenditori, e molti politicisti che di questi si fanno portavoce, non han ben compreso che il carattere borghese di classe non è riconducibile alla identificazione di casta tipica delle appartenenze (e contro le quali la borghesia e il liberalismo ha combattuto), ma al carattere etico di liberazione delle forze e delle energie dell'uomo. Qualsiasi uomo. C'è proprio da dire che la nostra crisi produttiva ed economica è questo ritorno morale del feudalesimo cortigiano che oggi vede legati a doppio filo finanza industria decotta e politica della conservazione dello status quo. 

Mentre si fanno grandi chiacchiere sul fatto che nelle regioni del Sud Italia la disoccupazione giovanile tocca anche livelli del 50%, si innalza l'età per la pensione a 70 anni (perchè così è e sarà per tutti coloro che non hanno avuto la fortuna di essere occupati a tempo indeterminato senza interruzioni di sorta o forme di occupazione a tempo parziale o paracontrattuali, fortuna poi che si misura solo in 3 anni  se si è versato almeno per 42 anni la contribuzione spettante per la costituzione del montante pensionistico minimo, come volle l'ex CGIL Damiano ministro del Prodi II, riforma messa a regime da Fornero).

Un esercito di 40enni e 50enni che, e dei 60enni le cui speranze devono questi rigettare, che rischia di non trovare nessuna occupazione ulteriore dopo quella che hanno perso, dato che nella migliore delle ipotesi il ciclo professionale ed occupazionale segue paro paro il ciclo di vita del prodotto... poi si chiude tutto e si ricomincia con gli apprendisti a costo zero per attività industriali che non lasciano che nulla sia appreso poichè non ci sono abilità manuali da apprendere nel far funzionare una macchina e un robot. Abbiamo già scritto di quanto siamo contrarissimi a queste leggi sull'apprendistato disposte indiscriminatamente per tutti, anche per i laureati. L'apprendistato dovrebbe solo esistere per gli artigiani e per le abilità manuali, e non per le attività produttive automatizzate o semiautomatizzate: è una truffa! Imparare una mansione industriale, nelle moderne organizzazioni produttive, non richiede più di 15-30 giorni. Per le più comuni e medie abilità cognitive. Invece in Italia i giovani fra i 15 e i 19 anni che sono occupati sono solo il 9%, a differenza del 33% della Germania e del 44% dell'Austria. E non sarà solo per i mini-job.

Questo esercito di ormai "vecchi" per le attività produttive, anzi vere e proprie esposizioni al rischio per le imprese italiane che producono merci che chiunque altro potrebbe produrre e che quindi non hanno al loro interno nessun deposito cognitivo e di competenza specifica, diventano appetibili solo se sono disoccupati di lunga data, se risultano in un qualche modo vantaggiosi per le imprese in termini di risparmio fiscale e contributivo anche se devono vedersela con i giovani "under 29", che oltre che essere competitivi su questi piani si suppone lo siano anche sul piano delle prestazioni fisiche ed intellettuali. I padri e le madri contro i figli e le figlie. I fratelli e le sorelle contro i fratelli e le sorelle. Di chissà di quale Italia, onorevole Meloni.

Mentre tutti in questa campagna elettorale si sciacquano la bocca e fanno gargarismi con la parola lavoro come fosse collutorio, una schiera di donne e di uomini espulsi dalle produzioni e dal lavoro deve reinventarsi o costringersi ad occupazioni dove la consistenza dei diritti è lasciata alla letteratura giuridica. La privatizzazione della collocazione al lavoro, voluta dal centrosinistra con dentro i rivoluzionari civili di queste ore pre-elettorali, ha dato il colpo di grazia alle funzioni pubbliche degli organismi statali indirizzati alla riqualificazione professionale e alla ricollocazione nel lavoro degli inoccupati. I Centri per l'Impiego non servono nulla, gli impiegati sono quando non demotivati completamente inetti alla funzione, che tal'altro è parecchio stata nullificata nel tempo. La formazione professionale è stata abbandonata nelle mani di cooperative e simili di natura privata, che sottopagano i formatori e stendono programmi di formazione completamente avulsi da qualsiasi cognizione globale e territoriale di quanto necessario. Le agenzie interinali e di collocazione di natura giuridica privata sono unicamente interessati a soddisfare il cliente, ovvero l'impresa, ma non a far incontrare la domanda e l'offerta di lavoro. Dopotutto come dargli torto: chi li paga è l'imprenditore che lo vuole in stage ma con un'esperienza di almeno 2 anni nella mansione!

Il declino di questo Paese è stato il nostro declino etico: non saper quello che facciamo la dice lunga sulla cognizione che abbiamo di cosa significa lavorare. 

Che vi giunga allora il grido di Giuseppe Burgarella, che a 61 anni e senza lavoro da tempo, si è impiccato. Scrivendo il suo ultimo pensiero, il suo ultimo gesto di vita, affianco all'art. 1 della Costituzione Italiana: "senza lavoro non c'è dignità". Ed è proprio questa che non riusciranno a renderci insieme all'IMU, alle tasse che strapaghiamo, agli espropri che i gestori privati di gas ed elettricità fanno dei nostri denari per pagare le loro tasse, ecc ecc.

La dignità dovremmo riprendercela! Se ne siamo capaci. Tutti, imprenditori e lavoratori.

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