Il testo che segue, seppur complesso per coloro che nulla conoscono degli autori ivi citati, è una premessa interessante e che meriterebbe di trovare ulteriore estensione (territorio) di senso. Sul blog di filosofiprecari.it se ne può avere occasione e privilegio, da dove espugniamo uno fra gli scritti per riproporlo qui..
Fra la chiacchiera anti-europeista e anti-euro (oltre che anti-globalista) che vede sempre più spesso, fra ultimi arrivati e mai arrivati, assumere posizioni contigue e parallele alle semantiche proprie della chiusura metafisica (spacciata tal'altro per scientificità, come se la scienza fosse immune dalla metafisica!, e quindi trovasse generazione e statuto prima del Soggetto e a prescindere dall'azione cognitiva propria dell'esercizio scientifico, e dalle metodologie e appendici tecniche che questi utilizza nel processo cognitivo) donne e uomini che mai berrebbero insieme "due bicchieri di vino", se non costretti dagli storicismi à la page di un non ben qualificato presente urgente (e comunque sempre scisso!), è tutta contentezza leggere che il dibattito sul Territorio assume, può assumere, tutta la "fisicità" che le relazioni e le sintassi proprie del/nel Luogo vengono esercitate . Nella quotidianità che connette, e non nel presente che lacera!
Ma circa questi aspetti, in parte toccati nel post sui distretti produttivi e territorio, ritorneremo a scrivere più precisamente su quella che, adesso ma non ora, viene ventilata come... la soluzione alla disoccupazione, o meglio all'assenza di lavoro.
Buona lettura
La Terra resiste ancora!
Mille conflitti illuminano il cielo dell’attualità come fuochi d’artificio in the dark side della politica, tra processi di espropriazione e messa_in_rendita del Comune (ormai il profitto è lettera morta sulle pagine della storia) e creazione costante di forme alternative di “democrazia” (Comitati territoriali, spazi “liberati” e via dicendo) in dichiarata opposizione alla governance neoliberale. La Vita, ogni singola Esistenza terrestre, si biforca materialmente tra l’essere-Capitale Umano (sotto il comando dispotico della governance, secondo le teorie di Gary S. Becker) ed ildivenire-Singolarità (nella condensazione di forme di Vita “comune”). Il concetto dell’Esodo dai processi del comando, come costantemente proposto nella narrazione hardtnegriana (ed approfondito nella trilogia di “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”), sembra essere solo vuota retorica se rapportato alla realtà. Nella materialità della Vita ogni Esistenza terrestre si presenta, allo stesso tempo ed in ogni momento in un presente aeternum, come Capitale Umano eSingolarità. Non è un dispositivo da risolvere, una schizofrenia da curare, ma sono scelte concrete da compiere in ordine sparso ed a seconda del momento e del contesto. È una biforcazione, non una contraddizione, da praticare pienamente come opportunità. Il conflitto, in questo caso, non sta tanto nel campo dell’Etica (o, peggio ancora, in quello della morale) quanto in quello dell’organizzazione complessiva della Vita. L’organizzazione complessiva della Vita, infatti, si pone direttamente il problema delle Istituzioni del governo e delle forme della governance. È in questo spazio “materiale” che si situa realmente il conflitto, con tutte le sue potenzialità esplosive, ovvero nella ristrutturazione delle modalità di controllo ed esproprio del valore prodotto dalla cooperazione.
Che il Comune sia con tutt@.
Mille conflitti illuminano il cielo dell’attualità come fuochi d’artificio in the dark side della politica, tra processi di espropriazione e messa_in_rendita del Comune (ormai il profitto è lettera morta sulle pagine della storia) e creazione costante di forme alternative di “democrazia” (Comitati territoriali, spazi “liberati” e via dicendo) in dichiarata opposizione alla governance neoliberale. La Vita, ogni singola Esistenza terrestre, si biforca materialmente tra l’essere-Capitale Umano (sotto il comando dispotico della governance, secondo le teorie di Gary S. Becker) ed ildivenire-Singolarità (nella condensazione di forme di Vita “comune”). Il concetto dell’Esodo dai processi del comando, come costantemente proposto nella narrazione hardtnegriana (ed approfondito nella trilogia di “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”), sembra essere solo vuota retorica se rapportato alla realtà. Nella materialità della Vita ogni Esistenza terrestre si presenta, allo stesso tempo ed in ogni momento in un presente aeternum, come Capitale Umano eSingolarità. Non è un dispositivo da risolvere, una schizofrenia da curare, ma sono scelte concrete da compiere in ordine sparso ed a seconda del momento e del contesto. È una biforcazione, non una contraddizione, da praticare pienamente come opportunità. Il conflitto, in questo caso, non sta tanto nel campo dell’Etica (o, peggio ancora, in quello della morale) quanto in quello dell’organizzazione complessiva della Vita. L’organizzazione complessiva della Vita, infatti, si pone direttamente il problema delle Istituzioni del governo e delle forme della governance. È in questo spazio “materiale” che si situa realmente il conflitto, con tutte le sue potenzialità esplosive, ovvero nella ristrutturazione delle modalità di controllo ed esproprio del valore prodotto dalla cooperazione.
Che il Comune sia con tutt@.
“Il capitale non ha limiti interni al proprio sviluppo”.
Lo scrive Mario Tronti in una breve introduzione al libro di Gigi
Roggero simpaticamente intitolato “La misteriosa curva della retta
di Lenin” (La Casa Usher, 2011). Storia interessante quella della curva di
Lenin che, secondo le stesse parole del leader comunista al Comitato Centrale
del POSDR nel 1917, descrive la Rivoluzione bolscevica come un “movimento
aggirante” rispetto alle note indicazioni marxiane sui necessari sviluppi
storici dell’emancipazione industriale e dell’organizzazione proletaria.
D’altronde accade spesso che i fanciulli, dopo aver rubato le caramelle, si
giustificano raccontando il dramma della fame nel mondo nell’affannoso
tentativo di sottrarsi alle mani violente dei propri genitori. E spesso ci
riescono. “Il capitale non ha limiti interni al proprio sviluppo”, quindi. Non
che fosse necessario ricordarlo (come un mantra automotivante
se pronunciato all’infinito) ma non fa mai male evidenziarlo, anche molto
chiaramente, perchè questa semplice considerazione mette in discussione quasi
nella totalità i dogmi della pratica critica che, fino a qualche secondo fa,
hanno segnato le nostre ricerche teoriche e le attività concrete.
Farebbe bene ricordarlo anche agli artefici delle violenze
del 15 ottobre 2011, alle macchine bruciate, alle vetrine
frantumate, a via Merulana e Piazza San Giovanni in fiamme. Roma, 15
Ottobre. Pianeta Terra! Perchè, anche in questo caso, si potrebbero
ipotizzare tutte le magnifiche curve di questo mondo e della storia per
giustificare quanto accaduto, ma il dramma è cadere un’altra volta nelle solite
teorie sulla palingenesi rivoluzionaria o, peggio, sulla violenza “utile” e
legittimata. Da cosa non si riesce bene a capire. La creazione
dell’Evento necessario è utile solo a chi vuole creare consenso
attorno alle proprie pratiche. Il 15 ottobre 2011, alla luce del giorno dopo (e
davanti alle fiamme del giorno stesso), racconta di un conflitto egemonico di
avanguardia, per utilizzare una grammatica “vetero”, che tiene
disperatamente fuori la maggior parte delle singolarità interessate alla
trasformazione. Che piaccia o meno, accade questo. “Ai capitalisti fa paura
la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima
l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei
palazzi di governo”, scrive sempre Mario Tronti. Il 15 ottobre 2011 è storia.
Al di là dell’enfasi e delle frasi ad effetto, il 15 ottobre 2011 è storia del
“movimento” (non solo operaio, ma questa è cosa nota da almeno vent’anni) ed in
quanto tale non può essere negata o derubricata a cronaca, neanche tanto
politica (come fanno i grandi spazi editoriali di massa). Per questa ragione il
15 ottobre 2011 sta pienamente nelle dinamiche di “creazione” e nei
ragionamenti che stiamo per fare e si presenta come elemento concreto di
analisi ed elaborazione. Non possiamo dimenticarlo. Il 15 ottobre 2011 pone il
problema delle pratiche e si interroga sulla questione della narrazione.
Marx non è stato il cantore della Rivoluzione. Tutt’altro.
La vecchia talpa del pensiero critico ci ha raccontato innanzitutto di una separazione violenta
ed indotta, quella tra l’Essere umano e la “Natura”.
Tralasciamo, almeno per qualche pagina, la complessità che questi termini si
portano dietro, il fardello dell’Occidente, della Filosofia classica e del
Cristianesimo che puntualmente si abbatte su di noi quando utilizziamo una
certa “grammatica”. Assumiamoli non come buchi neri da riempire o come spazi da
confinare in qualche modo. Prendiamoli semplicemente per quello che sono.
Essere umano e Natura. Non tanto perchè la Filosofia sia creazione di concetti (come
affermerebbero Gilles Deleuze e Felix Guattari) e
non stantia discussione intorno ad essi, ma solo per non complicarci
l’Esistenza. Perchè c’è qualcuno che si impunterebbe per non togliere l’accento
all’Essere parmenideo, incurante se nel fiume del ragionamento cominci a
galleggiare il feretro dell’attualità. Perchè la Filosofia, con Foucault,
è politica della verità e la verità è fin troppo intrecciata
con l’attualità. Ed allora Essere umano e Natura, da questo momento in avanti,
sono bicchieri di vino. Di nessuna marca per non generare competizione. Di
nessun colore per non creare preferenza. Di nessuna tipologia per non far
nascere astio tra le piantagioni ed i territori. Sono due bicchieri di vino.
Ottimi. Da bere. Non vanno riempiti. Sono già colmi di benessere. Anche perchè
nell’acqua c’è troppo calcare, visto che la casa è vecchia e le tubature con
essa, e la birra costa troppo per le nostre possibilità. Quindi sono rimasti
solo questi due bicchieri di vino. Essere umano e Natura. Beviamoli insieme.
Da circa un paio di anni, con lo strutturarsi dell’interesse
verso la scoperta delle radici del “Comune” (intendiamolo qui, per il
momento, in tutte le sue accezioni comunitarie e collettive, “artificiali” e
“naturali”), si stanno rileggendo anche iGrundisse marxiani (ovvero
i prolegomeni del Capitale). Pubblicati tra gli anni Trenta e
Quaranta del Novecento (precisamente alla fine del 1939 e una settimana dopo
l’invasione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler) dall’Istituto
Marx-Engels-Lenin di Mosca, cominciarono a riscuotere un certo
consenso solo negli anni Sessanta e Settanta, quando la “cattura”
dell’Internazionale cominciava a sciogliersi e nei Paesi, soprattutto europei,
fiorivano discussioni anche critiche nei confronti del “dogma” e dell’imprimatur
sovietico. Una delle eresie più interessanti è stata sicuramente quella dell’operaismo italiano
che, ancora oggi, torna a dirci qualcosa (si potrebbe considerare la teoria
hardtnegriana come un conato di operaismo). Ad ogni modo, tornando al tema di
nostro interesse, la parte attualmente più dibattuta dei Grudisse è quella
relativa alle “Forme che precedono l’accumulazione capitalistica“.
Finalmente ci si approccia a questo testo liberi e liberati dall’ansia del
materialismo teleologico. Dalla necessità di incastonare ogni descrizione in
una corsa ad una sola direzione e con un obiettivo unico. I lavori di Walter
Benjamin sul concetto di Storia (in modo particolare le “Tesi”, di cui
l’immagine dell’Angelus Novus rappresenta solo una piccola parte),
che avrebbero dovuto introdurre il Passagen-Werk, sono stati
determinanti nel costribuire a mettere in crisi l’impianto teorico
dell’evoluzionismo rivoluzionario. Attraverso questa lettura “liberata” viene
fuori un Marx decisamente diverso. Oltre Marx a tutti gli effetti. La
descrizione delle differenti forme di Comunità, e di appropriazione
delle eccedenze, non vengono più necessariamente lette come uno sviluppo
sistematico che precede il grande moloch del Capitale nell’epoca liberale. Non
sono genitori mangiati dai propri figli sulla via della trasformazione
incontrovertibile verso il socialismo ma si presentano, molto più
semplicemente, come letture critiche della realtà e di organizzazioni sociali
che hanno caratterizzato i sistemi di relazione tra Esseri umani in alcuni
momenti storici. Quello che viene fuori dalle Forme, assumendoci la libertà di
banalizzare un tantino il discorso, è la stretta compartecipazione tra
l’Essere umano e la Natura, intesa come spazio ampio (fisico e sociale)
dove si svolge la produzione e la distribuzione di tutto quello che viene
prodotto. È questa condivisione con la Terra, all’interno
di dinamiche pienamente comunitarie, che lentamente si perde nei meccanismi
dell’accumulazione originaria del Capitale. E, allo stesso
tempo, si potrebbe dire che è proprio la rottura di questa unità che alimenta
l’accumulazione e lo sviluppo dell’economia politica.
Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il Sole dell’Occidente. Già Karl Polanyi, nel “lontano” 1944, ha descritto con precisione gli effetti della “Grande Trasformazione” provocata dal processo di enclosures e di recinzione dei terreni comuni che, a partire dall’Ottocento inglese, ha cominciato a definire gli ambienti sociali ed economici della modernità. Non bisogna ricorrere necessariamente alle pagine del Capitale o dei Lineamenti, quindi. È storia. Le recinzioni, nell’interpretazione di Polanyi, hanno “derubato” i poveri della loro parte di terreno comune annientando, con questa espropriazione, anche il tessuto sociale che si era creato attraverso l’utilizzo di metodologie di produzione e distribuzione “collettiva” del profitto. Peter Linebaugh e Marcus Rediker, con il bellissimo libro “I ribelli dell’Atlantico”, hanno descritto la parabola “atlantica” di molti Esseri umani che, in esubero dalle terre comuni e di difficile collocazione nel sistema manufatturiero cittadino, sono stati destinati alle piantagioni oltreoceano. È questa laseparazione tra “forza lavoro” (il Proletariato, l’Essere umano e via dicendo) e “mezzi di produzione” (la Natura, non solo gli strumenti tecnici della produttività) che viene imputata alla fondazione dell’economia politica liberale. È sempre Linebaugh, in un recente articolo, a descrivere il “commoning” essenzialmente come una pratica comunitaria di controllo e governo del territorio. Ed è questa la separazione tra Essere umano e Natura che ci interessa indagare. I due bicchieri di vino che stiamo sorseggiando.
Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il Sole dell’Occidente. Già Karl Polanyi, nel “lontano” 1944, ha descritto con precisione gli effetti della “Grande Trasformazione” provocata dal processo di enclosures e di recinzione dei terreni comuni che, a partire dall’Ottocento inglese, ha cominciato a definire gli ambienti sociali ed economici della modernità. Non bisogna ricorrere necessariamente alle pagine del Capitale o dei Lineamenti, quindi. È storia. Le recinzioni, nell’interpretazione di Polanyi, hanno “derubato” i poveri della loro parte di terreno comune annientando, con questa espropriazione, anche il tessuto sociale che si era creato attraverso l’utilizzo di metodologie di produzione e distribuzione “collettiva” del profitto. Peter Linebaugh e Marcus Rediker, con il bellissimo libro “I ribelli dell’Atlantico”, hanno descritto la parabola “atlantica” di molti Esseri umani che, in esubero dalle terre comuni e di difficile collocazione nel sistema manufatturiero cittadino, sono stati destinati alle piantagioni oltreoceano. È questa laseparazione tra “forza lavoro” (il Proletariato, l’Essere umano e via dicendo) e “mezzi di produzione” (la Natura, non solo gli strumenti tecnici della produttività) che viene imputata alla fondazione dell’economia politica liberale. È sempre Linebaugh, in un recente articolo, a descrivere il “commoning” essenzialmente come una pratica comunitaria di controllo e governo del territorio. Ed è questa la separazione tra Essere umano e Natura che ci interessa indagare. I due bicchieri di vino che stiamo sorseggiando.
Una delle pubblicazioni più recenti ed interessanti sulle
questioni poste dal Comune è quella curata da Anna Curcioper
UniNomade dal titolo “Comune, comunità, comunismo”. In realtà il libro
si presenta come un articolato dibattito tra le posizioni “operaiste” sul
Comune e quelle del “marxismo althusseriano” sulla Comunità (e il
confronto-intervista traAntonio Negri e Etienne Balibar ne
è la prova). Il tentativo è fare conricerca tra queste due
sponde filosofiche, con lo scopo di generare qualcosa di materialmente
avanzato. Leggendo il libro, e pensando all’ampio dibattito, sembra che Comune
e Comunità si giochino su piani di immanenza che si incrociano continuamente e,
per certi versi, si confondono senza però trovare elementi di contatto che
mettano “a terra” la teoresi. È lo stesso rimosso che si potrebbe riscontrare
nell’ultimo lavoro di Hardt e Negri intitolato, non a caso, “Comune”. I temi
ricorrenti in questo tipo di approccio sono, in stile operaista, quelli
dell’organizzazione e dell’autonomia. Il Comune è presentato come uno spazio di
produzione estenuante di eccedenze (produttive e sociali) che permetterebbe di
superare il rapporto tra Capitale e Lavoro attraverso l’organizzazione autonoma
di una “nuova” Soggettività politica “comune”. La tendenza “produttiva” di
questa eccedenza è il Lavoro immateriale (o cognitivo), sono
le relazioni sociali che generano continuamente “commons” e si mettono sotto
attacco e cattura del Capitale in quanto ne rappresentano, oggi,
l’unico concreto modello di rendita. E si parla di rendita perchè, anche
considerando la nascita di nuove figure nel campo del marketing strategico, l’interesse
non è più quello di generare bisogni ma di raccogliere i valori aggiunti
mettendoli a valore. Lo sforzo, quindi, dovrebbe essere quello di
organizzare il Comune per farlo divenire eccedenza reale rispetto allo
sfruttamento della governance neoliberale. Lo “sdoganamento” della Comunità
oltre le definizioni economicistiche, in questo caso, serve a dare sostanza ad
un contesto fisico-spaziale che, al contrario, non avrebbe assolutamente alcuna
concretezza (un po’ come la presunta “Moltitudine” hardtnegriana). A
questo proposito gli innesti teorici ereditati dai lavori di Jean-Luc
Nancy diventano essenziali in questo tipo di costruzione. “La
Comunità inoperosa”, la ricerca sull’Essere-in-Comune come
processo che faccia realmente Comunità attraverso la riappropriazione delleSingolarità decisamente
contrapposte all’uomo senza ombra del Capitale umano, si presta
benissimo alla maturazione “operaista” (senza prefissi o suffissi, anche in
questo caso proviamo ad utilizzare i termini per quelli che sono).
L’elemento mancante, il nodo che metterebbe a terra tutto
questo impianto teorico facendolo vivere direttamente sui Corpi magnificamente
devastati dalle biforcazioni quotidiane subite dagli Esseri umani tra
Singolarità e Capitale umano, potrebbe essere il Territorio. La
Terra. La Natura. Un contesto fisico spazialmente determinato, tracciato,
confinato. Perchè accanto alla discussione sulla Comunità e sui Beni comuni (o
Comune o commons che dir si voglia) se ne sta svolgendo
un’altra, probabilmente anche più dilaniante, sullo sradicamento,
sulla “cattura” dei luoghi e sulla spoliazione delle risorse naturali, sulla
distruzione degli equilibri ecosistemici non solo (e non tanto) su larga scala
ma soprattutto sulle piccole dimensioni. Alberto Magnaghi ed
il territorialismo hanno il merito di aver detto e fatto molto su queste
tematiche, cercando di condensare esperienze teoriche ed attività pratiche (la Rete
del Nuovo Municipio è stata importante in questo senso). “Progetto
locale” ne è il Manifesto. Questa prospettiva potremmo farla cominciare
addirittura con Ernesto De Martino (“La fine del Mondo”
è un contributo straordinario da questo punto di vista) attraverso Marc
Augè, Franco La Cecla e la “mente locale”, Mike
Davis, Paul Virilio ed anche Carl Schmitt(e Martin
Heidegger, ma senza alzare troppo la voce), solo per citarne qualcuno. È la
prospettiva del “confine”, delnomos inteso come camera di creazione
e sottrazione dei luoghi. Di divisione tra gli Abitanti e di qualità
dell’Abitare.Nomos inteso come strutturazione del Governo e della
vitalità cittadina. Questo è il campo della Natura, ovvero il confine dove si
svolge la Vita, si organizzano le relazioni sociali e si costituisce la
produttività.
Comune e Natura. Comunità e Territorio. Si tratta,
in ultima istanza, di ricomporre la scissione originaria tra forza lavoro e
mezzi di produzione. Tra Essere umano e Terra. Si tratta di mettere
nuovamente al centro della discussione il tema della proprietà e, in
particolare, della riappropriazione.
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