foto di Jean Gaumy |
Uscito nelle (poche) sale cinematografiche nel 2010, L'Uomo del Grano di Giancarlo Baudena romanza su pellicola la storia e l'impegno scientifico e sociale di Nazareno Strampelli.
Baudena già nel 2005 si era affacciato con un documentario alla vita e all'opera scientifica ed umanitaria di Strampelli, maturando successivamente il progetto di produrre e girare un vero e proprio film di trama sull'uomo cui tutti dobbiamo molto di ciò che mangiamo.
A Strampelli (il cui viso è quello visibile nella foto accanto) è l'uomo a cui dobbiamo l'80% delle cultivar di grano coltivate nel mondo, ed è l'uomo che con i suoi studi genetici ha consentito (attraverso successivi adattamenti ambientali e incroci non manipolativi) di aumentare la resa produttiva di grano per ettaro coltivato, riparando non poco al problema dell'approvvigionamento del cereale per sfamare le popolazioni.
Strampelli, i cui metodi oggi sono utilizzati in altri settori delle produzioni agricole per il miglioramento delle cultivar nella resistenza fitopatologica delle piante e nella resa produttiva delle stesse, fu uomo di grande senso civico: nessuna delle cultivar che egli, nei suoi lunghi anni di studio e di lavoro scientifico, fu sottoposta a marchio commerciale.
Insomma, non ci fece molto denaro, anzi non ne fece affatto, spinto dallo spirito umanistico di provvedere all'urgenza di sfamare le popolazioni italiane, che negli anni nella quale operò (e le cui politiche demografiche e sanitarie consentivano di far crescere nel numero), soffrivano di malnutrizione e/o morivano di pellagra (il granturco era in talune zone il cereale più coltivato per le grandi rese produttive ed in grado di sfamare le povere popolazioni rurali e cittadine).
Strampelli, seppur brevettò moltissime cultivar di grano, mai richiese royalties per i diritti di commercializzazione e di coltivazione dei grani che brevettò, anzi si oppose sempre a queste politiche di valorizzazione delle scoperte e delle investigazioni scientifiche. Riteneva che la scienza dovesse essere al servizio dei popoli.
Se oggi è possibile sfamare con il grano la popolazione mondiale (la diffusione del cereale e dell'industria di trasformazione dei diversi grani in paste non conosce crisi produttiva, come testimoniano le aziende costruttrici di impianti per pastifici, presenti nel territorio veneto ed ed emiliano, e le numerose aziende produttrici di pasta alimentare diffuse su tutto il territorio mondiale, Africa compresa!), lo dobbiamo a Nazareno Strampelli.
Ma Nazereno Strampelli non fa rima con KAMUT.
Ormai pochi, penso, non conoscano questo tipo di grano con la quale vengono venduti pane, paste e alimenti affini. Ed il cui prezzo dei prodotti di trasformazione è fuori della portata popolare. Ma pochissimi, invece, sanno che il grano cosidetto KAMUT è invece coltivato e venduto in regime di monopolio. E che non è affatto vero, come il mito del marketing sulla cultivar ha diffuso, che sia stato "risvegiato" da una tomba egizia e che sia l'antica cultivar di grano coltivata alle rive del Nilo.
“Kamut” non è il nome di un grano, ma il marchio
commerciale (come “Mulino Bianco” o “McDonald’s”) che la società Kamut
International ltd (K.Int.) ha posto su una varietà di frumento
registrata negli Stati Uniti con la sigla QK-77, coltivata e venduta in regime
di monopolio e famoso in tutto il mondo grazie ad un’operazione di marketing
senza precedenti. Il nome della cultivar è invece Khorasan, un tipo di frumento tra l'altro che abbiamo anche in Italia.
C’è chi chiama questa varietà il “grano del
faraone” perché si racconta che i suoi semi sono stati ritrovati intorno alla
metà del secolo scorso in una tomba egizia ed inviati nel Montana, dove dopo
migliaia di anni sono stati “risvegliati” e moltiplicati.
Il frumento prodotto e venduto con il marchio
Kamut è coltivato negli Stati Uniti (Montana) e nel Canada (Alberta e
Saskatchewan), sotto lo stretto controllo della famiglia Quinn, proprietaria
della società K.Int.; in Italia è importato solo da aziende
autorizzate e può essere macinato solo da mulini autorizzati. Tutti i prodotti
che portano il marchio sono preparati e venduti sotto licenza della K.Int e
sotto il controllo della Kamut Enterprises of Europe.
Il marketing decisamente efficace che è alla
base del successo del Kamut ha fatto leva su tre aspetti: la suggestiva
leggenda del suo ritrovamento, l’attribuzione di eccezionali qualità
nutrizionali ed una presunta compatibilità per gli intolleranti al glutine.
Parliamone.
Il Frumento orientale o Grano
grosso o Khorasan – lo chiamiamo col suo nome
tramandato, comune e “pubblico”, mentre Kamut è un nome di fantasia registrato
– è una specie (Triticum turgidum subsp. turanicum)
appartenente allo stesso gruppo genetico del frumento duro: presenta un culmo
(fusto) alto anche 180 cm; ha la cariosside (chicco) nuda e molto lunga, più di
quella di qualunque altro frumento; è originario della fascia compresa tra
l’Anatolia e l’Altopiano iranico (Khorasan è il nome di una regione dell’Iran);
nel corso dei secoli si è diffuso sulle sponde del Mediterraneo orientale, dove
in aziende di piccola scala è sopravvissuto all’espansione del frumento duro e
tenero.
Dunque, per trovare il Khorasan in Egitto non
era (e non è) davvero necessario scomodare le tombe dei faraoni; senza contare
che un tipo di Khorasan era (e, marginalmente ancora è) coltivato anche tra
Lucania, Sannio e Abruzzo: è la Saragolla, da non confondere con una
omonima varietà migliorata di frumento duro ottenuta da un incrocio e
registrata nel 2004 dalla Società Produttori Sementi di Bologna. Inoltre non
bisogna dimenticare che la germinabilità del frumento decade dopo pochi
decenni, per quanto ideali siano le condizioni di conservazione. Tutto questo
porta a riconoscere nella storia del presunto ritrovamento del Khorasan/Kamut
solo una fantasiosa invenzione commerciale, elaborata per stimolare il
desiderio di qualcosa di puro, antico ed esotico. E, a onor del vero, la
stessa K.Int. ha preso le distanze dalla leggenda che, peraltro,
ormai non ha più bisogno di essere incoraggiata.
Dai dati oggi disponibili, di fonte pubblica e
privata, tra gli elementi di maggiore caratterizzazione del Khorasan ci sono un
elevato contenuto proteico, in generale superiore alla media dei frumenti duri
e teneri, e buoni valori di beta-carotene e selenio; per le altre componenti
qualitative e nutrizionali non ci sono differenze sostanziali rispetto agli
altri frumenti.
Glutine: non ne è né privo né povero
Bisogna, infatti, chiarire che, come ogni
frumento, il Khorasan è inadatto per l’alimentazione dei celiaci, perché
contiene glutine (e non ne è né privo né povero, come, poco responsabilmente,
una certa comunicazione pubblicitaria afferma o lascia intendere) e ne contiene
in misura superiore a quella dei frumenti teneri ed a numerose varietà di
frumento duro.
Kamut: glutine secco 15,5%, glutine/proteine
94,5%
Frumento duro: glutine secco 12,5%,
glutine/proteine 87,5%
Farro dicocco: glutine secco 14%,
glutine/proteine 79%
Frumento tenero: glutine secco 13,4%,
glutine/proteine 80,6%
Farro spelta: glutine secco 17,1%, glutine/proteine 93%
Detto ciò, il Khorasan è certamente un frumento
rustico, con ampia adattabilità ambientale, eccellente per la pastificazione.
Come ogni frumento che non è stato sottoposto a procedimenti di miglioramento
genetico o ad una pressione selettiva troppo spinta, e proprio per questo
motivo pare sia più facilmente digeribile dalle persone che soffrono di lievi
allergie e intolleranze, comunque non riconducibili alla celiachia: ma questo è
proprio ciò che si può dire dei farri e delle “antiche” varietà di frumento
duro e tenero. Se la sua coltivazione è biologica (come permette la sua
rusticità e come, per i propri prodotti, assicura il disciplinare del marchio
Kamut), si può dire che senz’altro è un prodotto salutare, senza però scadere
in esagerazioni né in forzature incoraggiate dalla moda e dal marketing del
salutismo.
Restano ancora tre aspetti che gettano un’ombra
sul prodotto a marchio Kamut (ma non sul Khorasan!):
· il monopolio
commerciale imposto dalla K.Int. su un frumento
tradizionale che, come tale, dovrebbe invece essere patrimonio di tutti, e più
di chiunque altro delle comunità che nel tempo lo hanno conservato e
tramandato;
· il costo
eccessivo del prodotto finito (dall’80 al 200% in più di una pasta
di comune grano duro biologico), poco giustificabile a parità di
valori qualitativi e nutrizionali, dovuto al regime di monopolio, ai costi di
trasporto, ai diritti di uso ed ai costi di propaganda, ma dovuto anche agli
effetti di un mercato dell’eccellenza che trasforma il cibo in oggetto di
lusso, di gratificazione e di distinzione, e che specula sul desiderio di
rassicurazione e sul bisogno di salute;
· la pesante
impronta ecologica legata allo spostamento di un prodotto perlopiù
coltivato dall’altra parte del Mondo che arriva sulle nostre tavole attraverso
una filiera molto lunga (migliaia di chilometri), e che, solo per questo fatto,
non è compatibile con la filosofia della decrescita e con l’attenzione al
consumo locale, fatto se possibile a “chilometro zero”.
Note
Per i dati riferiti in questo articolo sono stati consultati
i siti dell’Associazione Italiana Celiachia (www.celiachia.it),
dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (www.inran.it),
della Kamut International (www.kamut.com), dell’United
States Department of Agricolture (www.usda.gov), dell’Insitute
Scientifique de Recherche Agronomique (http://grain.jouy.inra.fr),
l’articolo di A. R. Piergiovanni, R. Simeone, A. Pasqualone, “Composition of
whole and refine meals of Kamut under southern Italian conditions” su Chemical
Engineering Transactions, 2009, vol. 17: 891-896.
fonte: aam Terra Nuova, marzo 2010, n°248,
pagg.73-76
1 commento:
Nazareno Strampelli è stato un grande scienziato, ma soprattutto un grande uomo.
Ringrazio Mario per queste informazioni, a me non sarebbe mai nemmeno lontanamente venuto in testa di cercare l'origine del grano cd. Kamut.
Io sono un po' Strampella, ecco.
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