A Benigno Zaccagnini
(non recapitata)
Caro Zaccagnini,
ecco, sono qui per comunicarti la decisione cui sono
pervenuto nel corso di questa lunga e drammatica esperienza ed è di lasciare in
modo irrevocabile la Democrazia Cristiana. Sono conseguentemente dimissionario
dalle cariche di membro e presidente del Consiglio Nazionale e di componente la
Direzione Centrale del Partito.
Escludo ovviamente candidature di qualsiasi genere nel
futuro. Sono deciso a chiedere al Presidente della Camera, appena potrò, di
trasferirmi dal Gruppo Parlamentare della D.C. al Gruppo Misto. E' naturale che
aggiunga qualche parola di spiegazione. Anzi le parole dovrebbero essere molte,
data la complessità della materia, ma io mi sforzerò di ridurle al minimo,
cominciando, com'è ovvio, dalle più semplici. Non avendo mai pensato, anche per
la feroce avversione di tutti i miei familiari, alla Presidenza della
Repubblica, avevo immaginato all'inizio di legislatura di completare quella in
corso come un vecchio al quale qualche volta si chiedono dei consigli e con il
quale si ama fare un commento sulle cose, che l'età ed il personale
disinteresse rendono, forse, obiettivo.
Come più volte ti ho detto, fosti tu a deviare questo corso
delle cose, mentre furono ancora tuoi amici che fecero riserve, sempre
nell'illusione che io dovessi dare ancora qualche cosa al Partito, non appena
si accennò ad una presidenza di Assemblea, per concludere in tal modo la mia
attività politica. Così mi sono trovato in un posto difficile e ambiguo, che
dava all'esterno la sensazione di un predominio (inesistente) della D.C. ed
all'interno creava imbarazzi, gelosie, equivoci, timori.
Essendoci lasciati in ottima intesa la sera del martedì, già
pochi giorni dopo, qui dove sono, avevo la sensazione di avervi in qualche modo
liberato e che io costituissi un peso per voi non per il fatto di non esserci,
ma piuttosto per il fatto di esserci. E questo per ragioni obiettive, perché
non c'è posto, accanto al Segretario Politico eletto dal Congresso, per un
Presidente del Partito che abbia rispetto di sé e delle cose. E se il vostro
profondo pensiero coincideva con quello che io avevo fatto valere, perché non
accontentarci tutti in una volta? Aggiungerò poi (e questo va al di là della
Presidenza del Consiglio Nazionale di cui abbiamo parlato sin qui) che io non
ho compreso e non ho approvato la vostra dura decisione, di non dar luogo a
nessuna trattativa umanitaria, anche limitata, nella situazione che si era
venuta a creare. L'ho detto cento volte e lo dirò ancora, perché non scrivo
sotto dettatura delle Brigate Rosse, che, anche se la lotta è estremamente
dura, non vengono meno mai, specie per un cristiano, quelle ragioni di rispetto
delle vittime innocenti ed anche, in alcuni casi, di antiche sofferenze, le
quali, opportunamente bilanciate e con il presidio di garanzie appropriate,
possono condurre appunto a soluzioni umane. Voi invece siete stati non umani,
ma ferrei, non attenti e prudenti, ma ciechi. Con l'idea di far valere una
durissima legge, dalla quale vi illudete di ottenere il miracoloso riassetto
del Paese, ne avete decisa fulmineamente l'applicazione, non ne avete pesato i
pro e i contro, l'avete tenuta ferma contro ogni ragionevole obiezione, vi
siete differenziati, voi cristiani, dalla maggior parte dei paesi del mondo, vi
siete probabilmente illusi che l'impresa sia più facile, meno politica, di
quanto voi immaginate, con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia
persona, e la mia famiglia, con l'assoluta mancanza di decisioni legali degli
organi di Partito avete menomato la democrazia che è la nostra legge,
irreggimentando in modo osceno la D.C., per farla incapace di dissenso, avete
rotto con la tradizione più alta della quale potessimo andar fieri. In una
parola, l'ordine brutale partito chissà da chi, ma eseguito con stupefacente
uniformità dai Gruppi della D.C., ha rotto la solidarietà tra noi. In questa
(cosa grossa, ricca di implicazioni) io non posso assolutamente riconoscermi,
rifiuto questo costume, questa disciplina, ne pavento le conseguenze e
concludo, semplicemente, che non sono più democratico cristiano. Essendo
scontata in ogni caso dal momento del mio rapimento (e della vostra mistica
inerzia) il mio abbandono della Direzione e del Consiglio Nazionale, restava,
se il vostro comportamento fosse stato diverso e più costruttivo, la possibilità
della mia permanenza senza alcun incarico nella famiglia democratica cristiana
e che è stata mia per trentatré anni. Oggi questo è impossibile, perché mi
avete messo in una condizione impossibile. E perciò il mio ritiro da semplice
socio della D.C. è altrettanto serio, rigido ed irrevocabile quanto lo è il mio
abbandono dalle cariche nelle quali avevamo creduto di poter lavorare insieme.
Tutto questo è finito, è assolutamente finito. Ed ora che posso parlare, senza
che nessuno pensi ad una pretesa di successione, a parte il mio durissimo
giudizio sul Presidente del Consiglio e su tutti coloro che hanno gestito in
modo assolutamente irresponsabile questa crisi, c'è, per dovere di sincerità ed
antica appannata amicizia, la valutazione su di te, come, per così dire, il più
fragile Segretario che abbia avuto la D.C., incapace di guidare con senso di
responsabilità il partito e di farsi indietro quando si diventa consapevoli, al
di là della propaganda, di questa incapacità. Guidare e non essere guidato è il
compito del Segretario del più grande partito italiano.
Giunti a questo punto, i motivi di dissenso, che non ci
faranno incontrare più, sono evidentemente molti. Tu non penserai che possa
trattarsi solo del modo chiuso e retrivo che ha caratterizzato il vostro
comportamento in questa vicenda, nella quale vi sembrerà di avere conseguito
chissà quale straordinario successo. Questa è una spia, la punta dell'iceberg,
ma il resto è sotto. Ho riflettuto molto in queste settimane. Si riflette
guardando forme nuove. La verità è che parliamo di rinnovamento e non
rinnoviamo niente. La verità è che ci illudiamo di essere originali e creativi
e non lo siamo. La verità è che pensiamo di fare evolvere la situazione con
nuove alleanze, ma siamo sempre là con il nostro vecchio modo di essere e di
fare, nell'illusione che, cambiati gli altri, l'insieme cambi e cambi anche il
Paese, come esso certamente chiede di cambiare.
Ebbene, caro Segretario, non è così. Perché qualche cosa
cambi, dobbiamo cambiare anche noi. E, a parte il fatto che davvero altri
(socialisti ieri, comunisti oggi) siano in grado di realizzare una svolta in
accordo con noi - il che possiamo augurarci e sperare - la D.C. è ancora una
così gran parte del Paese, che nulla può cambiare, se anch'essa non cambia. E
per cambiare non intendo la moralizzazione, l'apertura del Partito, nuovi e più
aperti indirizzi politici. Si tratta di capire ciò che agita nel profondo la
nostra società, la rende inquieta, indocile, irrazionale, apparentemente
indominabile. Una società che non accetti di adattarsi a strategie altrui, ma
ne voglia una propria in un limpido disegno di giustizia, di eguaglianza, di
indipendenza, di autentico servizio dell'uomo. Ecco tutto. Benché sia
pessimista, io mi auguro che facciate più di quanto osi sperare. Non era questa
la conclusione cui avevo pensato né l'addio immaginato per te ed i colleghi. Ma
le cose sono così poco nelle nostre mani, specie se esse sono troppo deboli o
troppo forti. Che Iddio ti aiuti ed aiuti il Paese. Cordialmente.
Aldo Moro
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