Christopher Richard Wynne Nevinson - L'anima della città senz'anima (New York - una astrazione) (1920) |
L'impressione che spesso ricaviamo dal dibattito intorno all'Europa e all'Unione Europea, e che ci accompagnerà fino alla celebrazione delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo in previsione nel 2014 per scadenza naturale dell'attuale, è quella di un semplice parlare e ragionare per aporie.
In questo post apparso su Appello al Popolo è possibile leggere una anticipazione di un articolo che i curatori del blog Main-Stream pubblicheranno da qualche parte, e che prende le distanze da quella che è ritenuta essere una posizione retorica ed ideologica: l'Europa dei Popoli.
I due sostengono in questo scritto che dall'Europa, intesa come entità geografica storica e culturale, è un'assurdità tirarsene fuori. L'Italia vi è dentro fino al collo, anche per via solo del fatto (aggiungiamo noi) che ha fornito diritto e lingua a diversi popoli del bacino del Mediterraneo, e dominato molta parte della stessa per parecchi secoli, fino in Asia Minore.
Cosa ben diversa, in questo scritto si sottolinea, è L'unione Europea, entità giuridica sorta in questi anni scorsi (gli ultimi 35 anni) da processi più di natura ideologica che hanno visto (pre)dominare, in questo continente come in tutto l'Occidente ed oltre, la filosofia neoliberista della preminenza del Mercato (e del Dio ad esso allegato noi aggiungiamo) sugli Stati e le espressioni democratiche e popolari che in Occidente questi ultimi hanno caratterizzato gli Stati Nazione. Si scrive:
La creazione dell'UE avviene infatti negli stessi anni (anni Ottanta e Novanta, in sostanza) nei quali si impongono nell'Europa occidentale le politiche economiche neoliberiste, che comportano la lenta erosione di tutte le conquiste ottenute dai ceti popolari nel secondo dopoguerra.
Oltretutto, continuano i due autori, se non esiste una festa dell'Europa, così come ci sono in ogni Paese europeo delle feste nazionali come ad esempio il 2 Giugno o il 25 Aprile o il 14 Luglio, è perchè il processo di unificazione è avvenuto dall'alto e non da un processo di liberazione del popolo europeo che in una data ed in un atto storicamente determinato trova statuto. Oltretutto, continuano Tringali e Badiale, la soggezione italiana, e nello specifico della sinistra italiana, alle retoriche neoliberiste deriverebbe dalla crisi di'identità che esplode dopo il crollo del Muro di Berlino e con la caduta dell'URSS intesa come espressione statuale più strettamente comunista, oltre che più specificatamente rispetto alla storia italiana dalla sconfitta storica che l'esperienza fascista ha prodotto nelle coscienze nazionali del popolo italiano. Non manca chi nei commenti persino fa risalire la disistima nazionale dell'Italia alla caduta dell'Impero Romano, e da una data serie storica di date specifiche e fatti particolari che alimentano questo processo nel corso dei secoli.
A mettere un po' d'ordine ci pensa il curatore del blog D'Andrea nell'ultimo commento, quando rende grazia anche delle politiche democristiana e dei partiti di opposizione (PSI E PCI) dell'Italia repubblicana del primo dopoguerra (se mettiamo fra parentesi gli anni di Segni e Scelba e del controllo della DC dal 1954 al 1962 da parte delle correnti reazionarie e vaticaniste della stessa, che poi in Andreotti assumeranno una leadership moderata), politiche queste che resisteranno fino all'ascesa degli amendoliani e dei lombardiani nella sinistra italiana e con la uccisione di Moro il 9 Maggio del 1978. Questa data segnerà, non ci stancheremo mai di ripeterlo, lo spartiacque per la definitiva chiusura dell'esperienza popolare dello Stato italiano e la nascita della II Repubblica (senza cambiamenti di leggi elettorali ma con aggiustamenti infrastrutturali dei processi decisionali e delle relazioni infrasistemiche fra subsistema politico e subsistema economico e finanziario e industriale che prenderanno la definizione di consociativismo), che spianeranno la strada, con la prima presidenza del consiglio a guida laica (Spadolini) e socialista dopo (Craxi), all'abdicazione definitiva di ogni istanza popolare alla sovrastruttura dell'ingegnerismo elettorialistico e dell'impolitica modernista del civismo e della atomizzazione del consenso, retoriche tanto care alle istanze neoliberali e mercatiste. In via di accenno, vi basti (ri)leggere questi nostri due post (qui e qui) sulla crisi dei corpi intermedi e la crisi della politica.
E per questi brevi motivi qui appena accennati il cappello introduttivo del post in questione ci appare specioso:
Il desiderio di "un'altra Europa" o di una "Europa dei popoli" tanto spesso declamato non è altro che uno slogan vuoto, espressione di una cieca passione verso forme politiche del tutto funzionali agli interessi dei ceti dominanti. (F.T.)
Una impostazione struttural-funzionalista certamente può essere la matrice di questa (di sopra) decisa archiviazione dell'esperienza europea, e che di fatto secondo noi riproduce paro paro la crisi d'identità più generale che sta attanagliando il continente. E che, quindi, secondo noi non è la determinate nella riflessione cogente da compiersi qui e ora.
Quando, nel dibattito che si aprì durante la stagione della redazione di una Costituzione Europea, poi conclusasi con un nulla di fatto per i referendum che ne decretarono l'abbandono del progetto, il richiamo che da alcune parti veniva dell'inserire la tradizione cristiana come etica comune e di riferimento dell'Europa non era da intendersi come un arbitrio da parte di una Chiesa che provava a dare un fondamento teocratico all'istituzione politica dell'Unione Europea.
Chi ne ostacolo la chiara dicitura nei principi generali, la Francia, era invece favorevole a quelli che vennero considerati essere invece i valori fondanti la Nuova Europa, i valori dell'Illuminismo, volendo far cogliere che lo stesso Illuminismo fu, prima che deviasse verso le forme autocratiche che conosciamo e dalle quali non poteva essere immune, la risposta alla devastazione delle guerre di religione che afflissero la Francia e l'Europa stessa con il fanatismo e la superstizione, le cui derivazioni però non possiamo eluderle provenire dalla caoticità della formazione degli Stati Nazione allora in formazione. Le stesse determinazioni ideali dell'Illuminismo presero poi esse stesse una piega fanatica (il Terrore), e successivamente veicolarono la istituzionalizzazione ideologica degli Stati Nazione e che ancora costituiscono le articolazioni nazionali europee.
Lo stesso Illuminismo (ma ancor prima nel pensiero liberale durante e dopo la rivoluzione inglese del 1688), faceva derivare un'idea di Dio, ed una teodicea relativa, dal pensiero razionalista e meccanicista dove la stessa creazione del cosmo non poteva che assumere come definente ed appropriata: il pensiero di un Dio che soggiaceva alla meccanica razionale e perfetta del cosmo era lo stesso pensiero che soggiaceva alla potenza dello Stato e della Nazione. In sintesi, stiamo solo scrivendo che anche l'Illuminismo non è estraneo al "pensare Dio" come lo è nella tradizione del pensiero giudaico-cristiano ed ellenico proprio dell'Occidente (per esempio, può forse intendersi l'idea di fratellanza essere stata coniata nuova di zecca dall'Illuminismo?), e che le crisi e le perturbazioni intervenute in quest'area ideale ed etica, un tempo così come adesso, sono la storicizzazione di quella "credenza" in Dio, o se volete di quel pensiero di Dio.
Per farla breve, quello che intendiamo subito mettere in chiaro è che l'Europa, così come adesso la stiamo sperimentando e che è attanagliata da un "pensiero di Dio" non universalistico e che adduce come naturale la competizione "pagana" fra gli dei (i mercati e gli stessi Stati intesi come meri spazi di scambio e di conflittualità permanentemente negoziata e che subito dopo dev'essere ripristinata affinchè la ricorsività della prassi contrattualistico-finanziaria possa ancora "giocare senza le frontiere"), non può assumere nessuna forza e potenza espansiva, nel paradosso profondo in verità della unicità del pensiero mercatista. Anzi, ciò che di fatto veicola è la frammentazione atomistica della giurisdizione della potenza, e la permanente conflittualità intrasistemica. Crisi, quindi. Permanente. Questa è l'intuizione marxiana nell'analisi del capitalismo, e non la parola profetica e la prospettiva paradisiaca che vi soggiace alla profezia messianica che la sua cultura guidaica certamente comportava.
I sussulti che nella storia etica dell'Europa emergono negli intervalli critici non sono altro che i segni del paganesimo di ritorno: tutti contro ognuno, l'esaltazione dei valori cosiddetti naturali, il culto dell'eroe e dell'elezione divina (tanto cara al protestantesimo luterano e all'etica del capitalismo come ben messo in evidenza da Max Weber!), la concezione della politica come avulsa dall'etica, la glorificazione della cultura rappresentativa e del virilismo (militare e/o economico e/o intellettualistico), la concezione individualistica e naturalistica delle relazioni intrasociali (di cui lo stesso socialismo è in parte espressione con l'abbandono del senso comunitaristico del marxismo, e totalmente lo è l'ideologia dei "figli della libertà" della società del benessere e del '68) sono solo alcuni dei tratti distintivi di questi tempi dominati dalle ideologie del mercato.
L'etica pagana del mercato è riconducibile all'idea della giustizia retributiva che vi sottosta (l'idea di un qualsiasi dio che punisce le colpe e giustifica così la sofferenza di alcuni rispetto al premio che viene elargito ai meritevoli e/o agli eletti), all'assenza di ogni limite che possa contenere il promeitismo del capitalismo e dell'uomo economico e tecnocratico che ne è espressione, l'insindacabilità della volontà individuale e dei relativi stili di vita difronte alle tutele delle istanze più generali astratte e di diritto (vedasi gli ultimi fatti che han visto protagonista Berlusconi e i suoi fan dopo la sentenza nel processo di 1° grado per le imputazioni di prostituzione minorile), l'estensione della indifferenzazione delle personalità all'interno delle classificazioni delle singolarità gruppali (dalla medicina al marketing), sono solo alcuni piccoli ed esemplificativi segnali della regressione etica in cui l'Occidente, e l'Europa, oggi versano.
Forse la cristianità, ed i principi di riferimento più elevati di essa, potevano esserne l'antidoto: il primato della persona rispetto al primato dell'individuo, della cooperazione rispetto alla competizione, del pluralismo rispetto alla omogeneizzazione e stereotipizzazione dell'operatività politica ed ideale, della sussidiarietà delle forme auto-organizzate delle comunità e dei popoli rispetto alla centralizzazione del comando burocratico e tecnocratico dell'autoritarismo statale o sovracomunitario o collettivistico, della convivenza fra i popoli e il federalismo rispetto ai separatismi e ai nazionalismi ideologici e avulsi dalla realtà, dell'agire politico riformatore ed anti-tradizionalista rispetto alle retoriche finto-rivoluzionarie e reazionarie tipiche della modernità e della contemporaneità, della laicità rispetto al laicismo di tutte le correnti di pensiero politico che dall'economicismo prendono statuto, della repubblica e della sovranità popolare rispetto ai dispotismi e alla satrapie di ogni tipo. Poichè uscire da questa Europa significa uscire dalle retoriche economicistiche che finora l'hanno governata, da qualunque parte politica esse pervengano, essendone unica la matrice, come crediamo sia evidente nella saldatura di potere fra i conservatorismi individualistici e i progressismi collettivistici attuali.
E recuperare il pensiero di Maritan e di Polany può essere un'occasione per meglio reimpostare un progetto politico europeo e un modello produttivo e sociale di riferimento nello scacchiere globale che rimetta l'uomo nella centralità che gli appartiene rispetto ai margini cui oggi è relegato.
2 commenti:
A un articolo così corposo come questo, non si può rispondere esaurientemente. Farò pertanto delle osservazioni su alcuni aspetti che ritengo più importanti.
Innazitutto, condivido molte dlle cose che dici sul pensiero occidentale dominante e sulla sua derivazione dall'illuminismo. Tuttavia, non condivido la contrapposizione che qui riproponi e che sostanzialmente sposa le tesi cristiane, della contrpaposizione tra illuminismo e cristianesimo. Naturalmente, non è che non ci siano opposizioni forti tra questi due pensieri, ed anzi storicamente ciò è scontato. Tuttavia, il mio punto di vista è che il cristianesimo rappresenti comunque una delle fonti dell'illuminismo, che l'individualismo derivi anche dall'attenzione che il cristinesimo dedica alla singola persona. Basti citare, sarebbe fuori luogo dilungarsi qui su questo aspetto, alla concezione della responsabilità e della salvezza come fatti individuali: di fronte a Dio, siamo soli, ed ognuno si salva per conto suo. Ciò, ripeto, non significa che l'illuminismo si limiti a riproporre un individualismo presente già nel pesneiro cristiano, non v'è dubbio che esso lo mette al centro, la massimizza, ma non ci dovrebbe sfuggire che in nuce l'individualismo sta già nel cristianesimo (e del resto anche nella filosofia greca). Potresti forse essere interessato a leggere il mio libro, che affronta anche questi temi: se vuoi, te ne mando una copia digitale al tuo indirizzo E-mail.
Riguardo invece al tema più speicifco dell'aticolo che citi, la mia opinione che in parte credo tu già conosca, è che ciò che non va bene non sta in ciò che l'articolo dice, ma in ciò che non dice.
Insomma, non possiamo lottare contro il globalismo liberista in modo credibile, se lattribuiamo in modo esclusivo all'unione europea. Questo è ciò che mi colpisce in tutte le tesi che mettono al centro della loro analisi e delle loro iniziative l'euro e l'unione europea. Così, si finisce col centralizzare le iniziative su questi due temi, dando l'impressione che se riusciamo a scansare i due pericoli (avere la moneta unica europea e fare parte dlel'unione europea), abbiamo vinto, lo scopo è raggiunto. Ciò è palesemente falso, perchè l'euro non può in alcun modo essere considerato la causa della crisi economica mondiale, e quindi anche fuori dall'euro, dovremmo trovare anche come singola nazione modi adeguati per fronteggiarla. Allo stesso modo il liberismo che sta a fondamento dell'unione europea non è un esclusiva della UE, ancora una volta nell'0unione europea è stato importato in primis dagli USA.
Se noi invece mettessimo al centro della nostra analisi il globalismo, ca piremmo che l'unione europea e l'euro costituiscono parti, e nenache le più importanti, di un processo ben più rilevante che rischia di ricaciare l'umanità verso il disastro.
Il giorno dopo che l'Italia fosse uscita dall'unione europea e quindi anche dall'euro, ci troveremmo a fare ancora i conti con il nostro enorme debito pubblico (e quindi ancora con gli interessi da pagare), così come con la competitività globale e con il pericolo ancora una volta di importazioni selvagge che portano alla distruzione dle nostro sistema produttivo. Mi chiedo che senso abbia, far finta che tutto il male derivi dalla UE, se poi i problemi rimanessero uguali anche fuori dalla UE.
In sostanza, come si può trovare sul mio blog, io sono piuttosto per l'uscita dalla UE, la dichiarazione di default, l'uscita dalla WTO, il ripristino di misure di protezionismo doganale, la pianificazione economica. Se viene a amancare anche una sola tra queste misure, secondo le altre divengono automaticamente vane.
Grazie Vincenzo, per questo commento, poichè quanto da Te scritto tradisce il non aver ben specificato nel post che, in completo accordo con quanto scrivi, l'Illuminismo trova un'articolazione anche nel pensiero cristiano. Se dalla lettura del post si evince il contrario, ovvero un antagonismo fra essi, è per mancata chiarezza nella scrittura, molto sintetica.
Il libro, invece, preferisco acquistarlo ed averlo nella biblioteca: consumo matite.
Invece un appunto è bene farlo sul ripristino delle barriere doganali e delle politiche daziarie e doganali. La questione abbiamo provato ad affrontarla in questo post
http://noi-nuovaofficinaitaliana.blogspot.it/2013/01/la-febbre-tedesca-e-il-deterioramento.html
ponendo la questione se le merci oggetto di scambio economico nei mercati globali debba prevedere una certificazione sulla "quantità" di diritti (sociale, umano, democratico, ecc) in esse contenute. Se i tavoli internazionali dello scambio commerciale non sono in grado di articolare una qualche forma di "quantificazione" del diritto contenuto nelle merci, e solo perchè manca la volontà, poichè gli indicatori già esistono. In questo caso, invece che avere una forma condivisa di definizione delle politiche daziarie fra i Paesi aderenti al WTO, meglio prima ancora che alzarsi da questi tavoli continuare a sedervi con le idee più chiare redigendo sostanziali regole alle importazioni, al fine soprattutto di evitare l'introduzione dei rumori sistemici alle strutture democratiche insieme con le merci. Perchè questo sta accadendo. Però se così fosse, non dovremmo importare petrolio dall'Arabia Saudita. Ovvero, pagarne alti dazi.
La questione è spinosa. E comunque dovrebbe passare attraverso una pratica di consumo non compulsiva ed una rieducazione all'uso delle cose. Purtuttavia la interdipendenza ormai strutturale che si è venuta a determinare domanda pressioni di natura politica che non sono più inderogabili. Vedremo come sarà la composizione del prossimo Parlamento Europeo.
Posta un commento