La categoria di "distretto produttivo" la si deve a Alfred Marshall, il primo ad aver inteso e studiato la relazione fra attività produttive e territorio come unità di analisi integrata dei depositi cognitivi operativi e culturali che poi caratterizzano la specificità e la vocazione di un determinato luogo geografico.
Per esempio, un distretto produttivo a vocazione specifica è l'ampio territorio emiliano appena colpito dal terremoto pochi mesi fa, dove la maggior parte delle aziende produttrici di quel territorio (in termini di concorrenza internazionale e fatturati) lavorano nel settore biomedicale con competenza globalmente riconosciuta. Quel distretto nasce e si sviluppa attraverso un lungo lavoro che ha visto istituzioni impresa scuola e tessuto sociale integrarsi e corrispondere al successo di quella sfida.
Ci sono altri territori che hanno visto svilupparsi specificità produttive, si pensi al cosiddetto "modello NordEst"... ma oggi questo modello di distretto produttivo (diverso dall'esempio di prima per molti aspetti) è in profonda crisi.
Cerchiamo di capirne i perchè e come rilanciare le attività produttive ed i territori.
La relazione vincente fra vocazione produttiva e territorio appare essere quella dove gli equilibri intra-settoriali delle competenze del luogo, la diversificazione produttiva equilibrata ed integrata di diverse attività produttive nei diversi settori (agricolo, industriale e servizi), istituzioni formative ed amministrative attente e puntuali nel sostenere l'indirizzo (si pensi alla formazione professionale dei giovani e al ruolo importante della scuola, integrata questa con le imprese del territorio, insieme al ruolo fondamentale fra ricerca scientifica e sviluppo di processo e di prodotto, al sostegno alla internazionalizzazione ad opera delle camere di commercio e delle associazioni di categoria, lì dove veramente funzionano e svolgono le funzioni cui dovrebbero essere dedicate, e il lavoro amministrativo e politico che ha sostenuto gli insediamenti produttivi e le vocazioni che andavano caratterizzandosi nel territorio), tutti questi aspetti diversi ma esistenti nei territori sono la chiave vincente per la sfida globale nella quale siamo e dalla quale non usciremo, salvo gli atteggiamenti di chiusura daziaria o di ritorno alla liretta delle quali sentiamo parlare e che sono palliativi ad una crisi che prima che industriale è dei territori e della disgregazione sociale ed identitaria degli stessi.
Il modello di distretto produttivo del NordEst, che è stato vincente negli anni '80 e '90, è principalmente caratterizzato dalla flessibilità funzionale ed organizzativa degli impianti produttivi e delle competenze (quindi è intervenuta una innovazione di processo). Rispetto al modello a bassa flessibilità funzionale e a produzione standardizzata e di massa tipico delle organizzazione fordiste e post-fordiste della grande industria del NordOvest, territorio che in quegli anni già era profondamente dentro un percorso di crisi industriale che ha trascinato con sè tutta quell'area del Paese (e il debito pubblico italiano che ha sostenuto le inefficienze che andavano maturando nella sfida alla globalizzazione che già avveniva verso i concorrenti delle Tigri del SudEst asiatico), il Veneto e tutto il NordEst come anche ampie zone del Centro Italia (ma che oggi sono in forte crisi più del Veneto salvo gli esempi riusciti di cui sopra si è scritto in introduzione) riuscivano nel produrre occupazione e reddito.
Nel Mezzogiorno, invece, il ruolo della grande industria siderurgica, metalmeccanica e della raffinazione del petrolio non è riuscita a disseminare di competenze manageriali ed organizzative l'arretrata attività produttiva locale, in parte per motivazioni riconducibili a equilibri geo-economici e di concorrenza con l'area del NordOvest (la faccenda di Pomigliano viene da lontano, ovvero dalle inefficienze politiciste dell'età matura dellIRI prima del suo smembramento), in parte per le inefficienze delle strutture politiche ed amministrative nazionali e locali, che hanno preferito (naturalmente in accordo con le altre aree dell'Italia) abbandonare il Sud all'assistenzialismo e allo sviluppo di settori del terziario "inutile" (vedi l'apertura di tanti centri meccanografici e di informatizzazione dei dati fiscali e catastali che fino alla loro chiusura definitiva risalente a circa 10 anni fa hanno vissuto di commesse pubbliche ottenute attraverso "improbabili" connessioni politicistiche, ed adesso sostituiti con i call center - vedi anche cliccando qui), attività a scarsissima vocazione del territorio (anzi a vera e propria depredazione di esso), che non hanno sviluppato nessuna competenza pratica ed operativa e neanche manageriale, dato che l'accesso alle commesse pubbliche avveniva per lo sviluppo di competenze più che altro "politiche" e non organizzative, ed i cui risultati sono stati la svendita dei territori del Mezzogiorno ad una classe dirigente e imprenditoriale inetta che ha prodotto devastazione sociale e culturale negli stessi. Ma in quello che è ora il Mezzogiorno, in termini di inefficienza produttiva ed amministrativa, molte responsabilità sono riconducibili ad un Nord che ha preferito conservare un privilegio competitivo (dal punto di vista produttivo), e facendo del Sud un'area da cui attingere mano d'opera a basso costo (prima che si aprissero le frontiere alle manovalanze extracomunitarie), e un ampio mercato delle merci quivi prodotte attraverso l'incremento di un debito pubblico che è servito per un verso indirettamente nella smisurata crescita del settore d'impiego pubblico, e in secondo luogo ed insieme alle forme dirette di finanziamento produttivo (vedi Melfi o Termini Imerese), a sostenere l'occupazione, seppur minima, principalmente nel settore pubblico ed privato-assistito. Il Sud non ha fatto tutto da sè. Se qualcosa sarebbe da rimproverargli è il non aver intuito prima la "soggezione" ed il depauperamento alla quale sottoponeva popolazioni e territori, con i risultati attuali che connotano le enormi difficoltà ad uscire dal pantano dove una parte importante dell'Italia si è andata a ficcare. Ma questo atteggiamento è stato comune a tutte le popolazioni dell'Italia, ed ha caratterizzato l'ubriacatura civile e sociale degli anni '80 e '90 e il drogaggio che si è adoperato negli stessi anni con il massiccio debito pubblico. Diciamo che le cose andavano bene un po' a tutti, finchè c'è stata cuccagna. O quasi!
Oggi la situazione è parecchio cambiata: il NordOvest (e le sue ramificazioni nel Sud) segnano il passo agli effetti della globalizzazione. La diminuzione del saggio di profitto rende, per le produzione standardizzate e di massa, inefficiente produrre in Italia (come altresì in ogni altro Paese con diritti consolidati di cittadinanza). La concorrenza proveniente dai Paesi con minori costi del lavoro e di cittadinanza e che offrono maggiori incentivi e sostegni fiscali (la Serbia come gli USA) creano le condizioni per la dismissione di tutta una serie di produzioni di "commodities", cioè di prodotti che con l'adeguata tecnologia (robot e impianti produttivi informatizzati) e con un apprendimento della mansioni cui bastano 15-30 giorni al massimo anche per le persone poco istruite, possono essere fabbricati ovunque. Senza magari quei costi "burocratici" che in Italia esistono, e che non riguardano solo le inefficienze di sistema (corruzione o tempi lenti, che in altri Paesi oggetto di delocalizzazione sono anche più massicci di quelli italiani!) ma tutte quelle efficienze di tutela della salute e della sicurezza che se non assicurate creerebbero più danni economici di quelli che già si sono determinati fin adesso.
Il modello del distretto produttivo e della relazione stretta ed integrata con il territorio, invece, ha avuto fortuna soprattutto nel NordEst, che rispetto al Centro Italia (salvo esperienze meglio strutturate e adesso di esempio per tutti) non è stato caratterizzato tanto prevalentemente dai fenomeni di terziarizzazione produttiva di altre imprese europee (prevalentemente tedesche e che hanno segnato la profonda crisi produttiva della Germania dalla metà degli anni '90 fino all'altro ieri!, e dalla quale è uscita non solo attraverso una maggiore competizione monetaria che l'euro gli ha permesso rispetto al marco, ma anche attraverso una rigorosa riconversione industriale che ha investito ogni aspetto organizzativo e di diritto del lavoro).
Il NordEst ha sviluppato una serie di attività produttive che competono nel mercato globale in maniera vincente, senza risentire per nulla della concorrenza che proviene anche da altre aziende del settore esistenti nella stessa Italia. Salvo alcune eccezioni, che hanno visto cambi di proprietà internazionali o nazionali, ed alcuni settori definitivamente chiusi come d'altronde nel resto d'Italia (vedi la filiera del fotovoltaico). Ad esempio, nell'alta padovana ci sono aziende di medie dimensioni che producono impianti per pastifici, vendono in tutto il mondo, non hanno impianti produttivi iper-tecnologici, e competono nel mercato globale con altre imprese simili esistenti per esempio nel ferrarese... senza pestarsi i piedi. In entrambe le situazioni, lo sviluppo di competenza nella fabbricazione della pasta e dell'industria alimentare, l'internazionalizzazione della produzione di alimenti da cereali, le competenze tecniche e di produzione meccanica che in determinati territori si sono andati sviluppando, hanno consentito questo successo. Oggi questo settore non risente di crisi. Altri esempi potremmo derivarli dall'industria del mobile, settore produttivo ipermaturo dal punto di vista tecnologico e di processo, la cui sfida oggi da alcune aziende del settore è interpretata soprattutto sul rinnovamento del design. Ci sono imprese produttive che hanno massicciamente investito in personale che rinnova periodicamente stili e design dei mobili prodotti, costituendo uffici tecnici di numerosità pari alle risorse dedicate alla produzione, quindi grossi uffici creativi che rinnovano periodicamente il prodotto. Certo, si confrontano con strutture produttive globali, ma un'accurata internazionalizzazione del marchio e l'innovazione di prodotto permanente stanno assicurando lavoro e reddito per questi territori, anche se questo modello è replicabile, ed i confronti con un design internazionale può comportare non pochi rischi.
Certo, affianco a questa combinazione ci sono da aggiungere altri fattori, come per esempio un sindacalismo spesso contiguo e consociativo alle imprese ma che ha anche saputo in molti casi reinterpretare il proprio ruolo e le proprie funzioni. I risultati non sono brillanti (anzi molto spesso i lavoratori preferiscono la relazione diretta con il proprio "paron"), ma alcuni sforzi sono stati fatti, anche solo per mera convenienza del sindacato. Un altro aspetto è il forte tessuto sociale del Veneto, fatto di famiglie molto spesso allargate e che risiedono in abitazioni contigue l'una con l'altra, dove i membri non occupati hanno potuto svolgere funzioni di welfare di prossimità che hanno permesso quindi che alcune risorse finanziarie potessero essere investite in edilizia o nell'estensione dell'attività produttiva stessa. E a queste aggiungerei l'esistenza di una grande banca espressione circoscritta e diretta del territorio (la AntonVeneta), oggi condizione non più esistente ed invece evoluta in una frammentazione di istituti finanziari troppo poco "pesanti" per investimenti più massicci.
Beccatini e Rullani (ma anche Trigilia ed altri) hanno però arricchito questa piattaforma interpretativa, mostrando di come oltre queste peculiarità ci sono le caratteristiche del territorio sue specifiche che costituiscono quelle istanze politiche e culturali (identitarie) che producevano quelle che sono stati definiti beni collettivi locali per la competitività.
Il distretto, quindi, è da intendersi come un vero e proprio organismo sociale vivente, che produce una sua memoria identitaria (fatta di competenze ed abilità, cognizioni culturali e pratiche, scienza e sapienza della manipolazione della materia) dalla quale lo stesso "territorio" imprenditoriale ha potuto attingere i fattori produttivi vincenti. Senza questi depositi, nessuna innovazione e nessun sapere produttivo sarebbe potuto avvenire. Ed è a queste condizioni di fondo e di base che oggi bisogna sopratutto guardare e operare politiche di conservazione (non gli attuali conservatorismi di maniera!), sviluppandone ancor più le potenzialità. Il ruolo delle comunità locali, la famiglia, l'informalità dei rapporti di scambio, il peso delle subculture, il peso delle tradizioni storiche rispetto alla massificazione produttiva e consumistica globalistica, sembrano mostrarsi le condizioni vincenti per la sostenibilità economico-produttiva dei territori e dell'Italia tutta.
Non si sta dicendo che le attitudini da strapaese sono le qualità vincenti, poichè dove esse sono state oggetto di imbrigliamento ideologico hanno finito solo per svilire la piattaforma integrata che invece è richiesta dall'agenda politica dei territori. L'integrazione territoriale è invece la condizione sine qua non per vincere la sfida economica della globalizzazione: camere di commercio, un sindacato dei lavoratori più moderno e meno autoreferenziale e più attento alla piccola e media impresa, le organizzazione delle categorie datoriali, le istituzioni amministrative e formative, devono svolgere un lavoro sinergico nuovo che ritessi nei territori la specificità di questi.
I territori, quindi, devono svolgere quel ruolo di "connettori" dei flussi esistenti e già operativi in esso. La creazione di reti d'impresa (di cui si è scritto anche in questo blog qui) sono determinazioni importanti per integrare e sostenere lavoro ed impresa. E non risulti strano che l'area produttiva che più ne ha fatto utilizzo dal 2010 ad oggi sia Emilia Romagna e le Marche, l'area che meglio ha lavorato sugli aspetti propri del territorio, salvaguardandone tutte le specificità produttive, da quelle agricole e di trasformazione alimentare a quelle più industriali e manifatturiere, in una trama efficiente di sviluppo del terziario dei servizi.
Per concludere, i territori devono ritornare (data anche l'inanità degli apparati centrali su questi aspetti più meramente industriali e produttivi essendo invece concentrati su quelli fiscali e monetari) ad occuparsi di politica economica, rintracciando al proprio interno le specificità e le qualità utili ad uno sviluppo integrato e sostenibile dello stesso, senza che disperda e faccia collassare l'identità propria.
Per fare un esempio, alla crisi del distretto tessile di Prato la risposta che le imprese intendevano dare alla concorrenza derivante dall'India e dal SudEst asiatico negli anni '60-70 fu quella della delocalizzazione nelle mille imprese familiari della produzione, provando a ridurre per quanto possibile i costi. La politica, allora interpretata sul territorio dal PCI, ostacolò fortemente questa prospettiva, giustificandola con il fatto che il ceto padronale voleva di fatto svincolarsi dal conflitto di classe e dal sindacato. Sappiamo quale è stato il futuro presente del settore produttivo in quel territorio, che ha finito di esistere prima attraverso le terziarizzazioni e poi è stato quasi completamente inglobato da imprese che con quel territorio non hanno nulla a che vedere, depauperando ulteriormente il distretto ed il territorio di abilità competenze e reddito. Anzichè utilizzare il know how diffuso, e che opportunamente agito e sollecitato avrebbe anche promosso creatività attivismo ingegnosità e sviluppo di nuove opportunità, si è preferita un'altra infruttuosa strada guidata da mera speculazione di carattere ideologico. Questo non significa che in quel territorio non ci sono e non ci siano stati anche aspri conflitti sociali e politici e discrepanze fra intenzioni e obiettivi, ma se qualcosa si è potuto salvare lo si deve all'abilità degli stessi lavoratori che hanno ricostruito le "strade" del distretto, nell'interesse più generale della comunità locale, intesa come vera e propria polis che prende in mano il proprio destino.
La disattenzione politico-amministrativa, ingenuamente coordinata dagli ideologismi e dalla conservazione di un potere avvertito come immodificabile, assieme alla completa indifferenza degli economisti italici e del Sancta santorum della manualistica economica finora prodotta e che continua a prodursi nelle università finendo di rovinare le menti dei giovani al solo scopo narcisistico di taluni cattedratici tutti impegnati in una querelle interna e dai tratti piuttosto "fallici", sono oggi la traccia per ricercare le ragioni della nostra mancata competitività internazionale, che è unicamente stata sostenuta dalle politiche di indebitamento pubblico per un verso, e dalle politiche svalutative della moneta dall'altro. Pensare che la mancata competitività del sistema produttivo italiano derivi principalmente dall'introduzione dell'euro come moneta per gli scambi è solo un modo per oscurare i guai che in 30 e passa anni politica ed economia e finanza globale hanno prodotto, non ostante imprese e lavoratori abbiano cercato di mettere tutto il loro impegno per conservare questa competitività. Poi altro è discutere se le politiche deflattive e regressive improntate dall'èlite europea e nazionale che governa questa fase siano efficaci e rispondano al processo di integrazione europea.
Quindi, se è chiaro che un distretto produttivo per essere tale necessita di un apparato "riproduttivo" che ne specifichi un'identità (veicolo anche per la internazionalizzazione dei prodotti), deve altresì essere chiaro che quello che ci serve, adesso, per uscire dalla crisi in cui versiamo è un differente "stile di vita", di cui deve farsi subito interprete il territorio. Saranno modelli relazionali e di consumo differenti che potranno liberarci dalla stretta in cui versiamo e sollecitare le imprese esistenti sul territorio a corrispondere a questo nuovo stile di vita. Certo, è un processo lungo e generazionale, ma che dove funziona (e le leggi sono corrispondenti alla conservazione nell'evoluzione di queste caratteristiche del territorio) esse fanno la sostenibilità di quei territori. Vedasi le provincie di Trento e di Bolzano (altro che Regioni!!! ed abolizione delle provincie). La sfalciatura obbligatoria dei terreni almeno 3 volte l'anno da parte dei proprietari permette la conservazione geomorfologica e la pulizia delle aree montane, e lo sfalcio è utilizzato per l'allevamento o per la produzione di gas da biomassa, utilizzato poi per la produzione di energia elettrica localizzata, e che insieme alle pratiche del legnatico (anch'esse regolamentate) consentono di tenere puliti i boschi evitando i fenomeni di autocombustione di legna secca e del sottobosco. Qui il legislatore ha solo sostenuto delle pratiche antiche, che il processo di migrazione nelle città andava facendo scemare e decadere, pensando alla sostenibilità del territorio, che poi si è dimostrata essere vincente nel contenere la migrazione e nell'offrire nuove opportunità economiche e produttive a quel territorio. Questi sono piccoli ed elementari esempi della relazione proficua fra città e campagna, oggi fratturata dall'agricoltura industriale e dalla separazione che si va consolidando fra queste due entità. Certo, senza lo sviluppo agricolo e l'incremento produttivo che se ne è determinato con la meccanizzazione dell'agricoltura, le città non sarebbero sorte. Ma la città, e la campagna, hanno bisogno uno dell'altra.
I territori, allora, devono essere letti e interpretati come veri e propri organismi funzionali integrati. Come corpi viventi.
Gli addensamenti industriali, derivanti dagli effetti concentrazionari della grande industria, mostrano tutta la loro fallacia e disillusione occupazionale (vedasi gli avvenimenti sardi, siciliani, campani), con quello che poi lasciano come dispersione e depauperamento sociale ed identitario (se non sanitario e ambientale) sui territori. L'attitudine concentrazionaria del capitalismo moderno (finanziario prevalentemente) è intrinsecamente precario per via della sua mobilità: va dove costa poco produrre o dove gli Stati mollano parecchi quattrini per sostenere i profitti!
Stile di vita e specializzazione produttiva, allora, potranno rivelarsi essere, nello scenario internazionale delle produzioni, una possibilità di uscita sistemica dalla crisi. Atti sociali e produttivi locali, opportunamente sistematizzati e coordinati nelle realtà del territorio, possono rivelarsi un'opportunità di collocazione nel mercato globale. Parimenti, il ventaglio della attività produttive espressione di un territorio potranno anche essere veicolo di integrazione indentitaria del territorio stesso, è il miglior veicolo in termini di marketing nel mercato globale. Valorizzazione riproduttiva dei territori e valorizzazione delle attività produttive degli stessi saranno ciò che connoterà in futuro un distretto produttivo, sottolineandone ed evidenziandone la sua propria identità agli occhi del mondo.
Questa non vuol essere retorica del made in Italy, tanto meno retorica del "provincialismo e campanilismo". Ogni stile di vita, anche quello cosmopolita, ha i suoi pregi e difetti. Ma credo che appaia sempre più evidente che la diffusione dei "non luoghi" (anche produttivi) e di un popolo di "transitati" questi spazi anche di lavoro non producano nessuna specificità ed identità che possa essere poi impegnata nella sfida globale.
Immaginario collettivo, specificità produttiva, coesione sociale e comunitaria non sono solo veicoli di formazione di "nicchie" produttive corrispondenti a determinati nuclei di bisogni (o target di mercato), ma vere e proprie definizioni culturali e di prassi: l'idea contemporanea dell'uso della cucina nelle nostre abitazioni ha una rilevanza o no sul distretto pesarese dei produttori di mobili per cucine? E questa idea ha inficiato o incrinato la rilevanza di quel distretto produttivo? E cosa si è fatto invece per non consentire l'annullamento di questo luogo centrale della casa così da renderlo affidabile ad ogni globale produttore di cucine che nulla aveva cognizione di ciò che è specificatamente derivato dal territorio? C'è un pensiero, una cultura, un popolo, un piano di relazioni specifiche dietro la vittoria o la sconfitta di una sfida produttiva e commerciale?
E' da questa pratica di recupero delle nostre più articolate e profonde radici che dobbiamo ricominciare, da quella solidarietà di fondo che salva i vincoli comunitari di fronte a questa crisi di mercato delle nostre produzioni, avendo voluto seguire tracce e strade che invece ci hanno fortemente svilito, come apparato produttivo e di lavoro e come popolo.
Questo sistema locale riproduttivo, dotato di identità commerciale e civile, è ciò che può unicamente salvarci dalla catastrofe. Se non saremo noi per primi ad richiederlo ed attuarlo, nelle nostre pratiche di consumo, non potremo selezionare una classe dirigente adeguata allo scopo, a differenza di quella che adesso spende il proprio tempo in festini in maschera o nei salotti televisivi. E saranno solo queste attitudini a farci pervenire a sistemi non immutabili ma permanentemente in trasformazione, dove la politica dovrà unicamente registrare e regolamentare le pratiche esistenti, invece che nevroticamente indurle con l'eccesso di riforme a cose che ormai non hanno più forma.
La risposta alla demolizione controllata degli Stati-Nazione così come la stiamo conoscendo e sperimentando, per la trasformazione in apparati finanziari sovranazionali, dovrà e potrà essere unicamente questa: recuperare i territori e le relazioni di comunità, attribuire carattere popolare alle produzioni, alle istituzioni, all'ambiente fisico, rivolgendoci verso l'esterno per tutto ciò che non siamo in grado di produrre.
Questo sarà l'equilibrio della divisione mondiale del lavoro a venire.
Il ruolo che gli apparati legislativi e esecutivi centrali devono, allora, svolgere, è quello di una profonda liberalizzazione dei mercati, non da intendersi come ulteriore dismissione di strutture molto spesso strategiche (acqua, reti strutturali, ecc) ma come regolamentazione normativa più fluida ed articolata rispetto a quella esistente, che di fatto permette e ha consentito che taluni possano concentrare le attività produttive (in particolar modo nel settore agroalimentare, per esempio). Le leggi devono consentire di allargare le basi produttive, e non veicolarne le concentrazioni. Quello che è accaduto e sta accadendo in Italia ed in Europa, è invece costituito da politiche illiberali sia si destra che di sinistra. E contro i territori ed i popoli.
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