via Candy Chang |
Lo scritto che segue, recensione all'ultimo libro di Jean-Claude Micheà, Le complexe d’Orphée, (che traggo da Diorama Letterario, il cui link è nella lista degli Esercizi di Stima della pagina principale di N.O.I., ma che potete trovare anche in Arianna Editrice), è un eccellente contributo per tutte quelle istanze che dalle periferie dei territori provano a recuperare i motivi di tenuta degli stessi e delle comunità che le abitano, provando a rispondere alla domanda di un nuovo umanesimo e un nuovo popolarismo europeo, e che Dominique Strauss-Kahn e la sua fondazione Terra Nova stavano provando a dare statuto.
Ma la storia di quest'uomo, della Francia e dell'Europa sappiamo come è andata.
Buona lettura.
Nel gennaio 1905, il «regolamento» della Sezione francese
dell’Internazionale operaia (SFIO) – il partito socialista dell’epoca –
indicava ancora quest’ultima come un «partito della classe operaia che si
prefigge di socializzare i mezzi di produzione e scambio, ossia di trasformare
la società capitalistica in società collettivista o comunista, attraverso
l’organizzazione economica e politica del proletariato». Beninteso, nessun
partito «socialista» oserebbe oggi dire una cosa del genere, essendo i socialisti
diventati socialdemocratici o social-liberali.
Che oggi la «sinistra», nella sua quasi totalità, sia
divenuta riformista, che abbia aderito all’economia di mercato, che si sia
progressivamente separata dai lavoratori e dalle classi popolari, non è certo
una rivelazione. Lo spettacolo della vita politica ne è una ininterrotta
dimostrazione. Per questo, ad esempio, le grida della sinistra sono così deboli
nella grande tormenta finanziaria mondiale attuale: semplicemente, essa non è
disposta più della destra a prendere le misure che permetterebbero di
intraprendere una vera guerra contro l’influenza planetaria della
Forma-Capitale. Come osserva Serge Salimi, «la sinistra riformista si distingue
dai conservatori per il tempo di una campagna elettorale grazie a un effetto
ottico. Poi, quando le è data l’occasione, si adopera a governare come i suoi
avversari, a non disturbare l’ordine economico, a proteggere l’argenteria della
gente del castello» .
La domanda che si pone è: perché? Quali sono le cause di
questa deriva? La si può spiegare unicamente con l’opportunismo dei singoli, ex
rivoluzionari divenuti notabili? Bisogna vedervi una lontana conseguenza
dell’avvento del sistema fordista? Un effetto della congiuntura storica, cioè
del crollo del blocco sovietico che ha annientato l’idea di una credibile
alternativa al sistema di mercato?
Ne Le complexe d’Orphée, il suo ultimo libro pubblicato,
Jean-Claude Michéa dà una risposta più originale e anche più profonda: la
sinistra si è separata dal popolo perché ha aderito molto presto all’ideologia
del progresso, che contraddice nettamente tutti i valori popolari .
Fondamentalmente orientata verso l’avvenire, la filosofia
dei Lumi, come si sa, demonizza le nozioni di «tradizione», «consuetudine»,
«radicamento», vedendovi solo superstizioni superate e ostacoli alla trionfale
marcia in avanti del progresso. Tendendo all’unificazione del genere umano e
contemporaneamente all’avvento di un universo «liquido» (Zygmunt Bauman), la
teoria del progresso implica il ripudio di ogni forma di appartenenza
«arcaica», ossia anteriore, e la distruzione sistematica della base organica e
simbolica delle solidarietà tradizionali (come fece in Inghilterra il celebre
movimento delle enclosures, che costrinse all’esodo migliaia di contadini
privati dei loro diritti consuetudinari, per convertirli in manodopera
proletaria sradicata e dunque sfruttabile a volontà nelle manifatture e nelle
fabbriche ). In un’ottica «progressista», ogni giudizio positivo sul mondo così
com’era una volta rientra dunque necessariamente nell’ambito di un passatismo
«nostalgico»: «Tutti coloro i quali – ontologicamente incapaci di ammettere che
i tempi cambiano – manifesteranno, in qualunque campo, un qualsiasi
attaccamento (o una qualsiasi nostalgia) per ciò che esisteva ancora ieri
tradiranno così un inquietante “conservatorismo” o addirittura, per i più empi
tra loro, una natura irrimediabilmente “reazionaria”» . Il mondo nuovo deve
essere necessariamente edificato sulle rovine del mondo di prima. Poiché la liquidazione
delle radici forma la base del programma, se ne deduce che «solo gli sradicati
possono accedere alla libertà intellettuale e politica» (Christopher Lasch).
Questa è la rappresentazione del mondo che, nel XVIII
secolo, ha accompagnato l’ascesa sociale della borghesia e, con essa, la
diffusione dei valori mercantili. Atteggiamento moderno corrispondente a un
universalismo astratto nel quale Friedrich Engels vedeva, a giusta ragione, il
«regno idealizzato della borghesia». (Anche Sorel, a suo tempo, aveva
sottolineato il carattere profondamente borghese dell’ideologia del progresso).
Ma anche antico comportamento monoteista che scaglia l’anatema contro le realtà
particolari in nome dell’iconoclastia del concetto, vecchio atteggiamento
platonico che discredita il mondo sensibile in nome delle idee pure .
La teoria del progresso è direttamente associata
all’ideologia liberale. Il progetto liberale nasce, nel XVII secolo, dal
desiderio di farla finita con le guerre civili e di religione, rifiutando al
contempo l’assolutismo, ritenuto incompatibile con la libertà individuale. Dopo
le guerre di religione, i liberali hanno creduto che si potesse evitare la
guerra civile solo smettendo di appellarsi a valori morali condivisi. Erano
favorevoli a uno Stato che, per quanto riguardava la «vita buona», fosse
neutro.
Poiché la società non poteva più essere fondata sulla virtù,
il buon senso o il bene comune, la morale doveva restare un affare privato
(principio di neutralità assiologia). L’idea generale era che si poteva fondare
la società civile solo sull’esclusione di principio di ogni riferimento a
valori comuni – il che equivaleva, in compenso, a legittimare qualunque
desiderio o capriccio che fosse oggetto di una scelta «privata».
Il progetto liberale, spiega Jean-Claude Michéa, ha prodotto
due cose: «Da un lato, lo Stato di diritto, ufficialmente neutro sul piano dei
valori morali e “ideologici”, e la cui unica funzione è di badare che la
libertà degli uni non nuoccia a quella degli altri (una Costituzione liberale
ha la stessa struttura metafisica del codice della strada). Dall’altro, il
mercato auto-regolatore, che si presume permetta a ciascuno di accordarsi
pacificamente con i suoi simili sull’unica base dell’interesse ben compreso
delle parti interessate» .
Lo Stato di diritto «assiologicamente neutro» è in effetti
una doppia illusione. In primo luogo, la sua neutralità è completamente
relativa: nella vita reale, i liberali affermano i loro principi e i loro
valori con altrettanta forza degli antiliberali. Inoltre, la neutralità in
materia di valori (la teoria secondo la quale lo Stato non deve pronunciarsi
sulla questione della «vita buona», perché ciò lo indurrebbe a discriminare tra
i cittadini) sfocia in pratica in contraddizioni insolubili, come dimostra la
teoria dei diritti dell’uomo, che proclama diritti contraddittori, dato che
alcuni di essi possono essere applicati solo a condizione di ignorarne o
violarne altri. Queste contraddizioni sono costantemente sottoposte a procedure
giudiziarie, ma non possono essere risolte in maniera puramente tecnica o
procedurale.
foto di Thinbault - 1848, Barricate a Parigi |
La dicotomia destra-sinistra viene spesso fatta risalire
alla Rivoluzione francese, dimenticando in tal modo che essa è davvero
pienamente entrata nel discorso pubblico solo alla fine del XIX secolo. Alla
vigilia della Rivoluzione, lo spartiacque principale non oppone la «destra» e
la «sinistra», ma un’aristocrazia fondiaria dotata di potere politico e una
borghesia mercantile acquisita alle idee liberali. Nessuno, in quell’epoca,
difende veramente il popolo. Retrospettivamente, il libro di Michéa spiega
d’altronde anche l’ambiguità della Rivoluzione francese: rivoluzione borghese,
ma fatta in nome del «terzo stato» (e soprattutto della «nazione»), ispirata al
contempo alle idee di Rousseau e del liberalismo dei Lumi, «progressista» con
Condorcet, m affascinata dal’Antichità con Robespierre o Saint-Just.
Durante tutta la prima parte del XIX secolo, sono appunto i
liberali a formare il cuore della «sinistra» parlamentare dell’epoca (il che
spiega il senso che ha conservato oggi negli Stati Uniti la parola liberal). I
liberali riprendono quell’idea fondamentalmente moderna consistente nel vedere
nello «sradicamento dalla natura e dalla tradizione il gesto emancipatore per
eccellenza e l’unica via d’accesso a una società “universale” e “cosmopolita» .
Benjamin Constant, per citare solo lui, è il primo a celebrare quella
disposizione della «natura umana» che induce a «immolare il presente
all’avvenire».
Mentre la III Repubblica vede la borghesia assumere a poco a
poco l’eredità della rivoluzione del 1789, il movimento socialista si struttura
in associazioni e partiti. Ricordiamo che la parola «socialismo» appare solo
verso il 1830, in particolare in Pierre Leroux e Robert Owen, nel momento in
cui il capitalismo si afferma come forza dominante. Il diritto di sciopero è
riconosciuto nel 1864, lo stesso anno della fondazione della I Internazionale.
Orbene, i primi socialisti, la cui base sociale si torva soprattutto tra gli
operai di mestiere, non si presentano affatto come uomini «di sinistra». Michéa
ricorda, d’altronde, che «il socialismo non era, in origine, né di sinistra né
di destra» e che non sarebbe mai venuto
in mente a Sorel o a Proudhon, a Marx o a Bakunin di definirsi come uomini «di
sinistra». A parte i «radicali», la «sinistra», all’epoca, non designa niente.
In origine, il movimento socialista si pone, in effetti,
come forza indipendente, sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei
«reazionari» che dei «repubblicani» e di altre forze di «sinistra». Ovviamente,
si oppone ai privilegi di caste legate alle gerarchie dell’Ancien Régime –
privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – ma si oppone
ugualmente all’individualismo dei Lumi, ereditato dall’economia politica
inglese, con la sua apologia dei valori mercantili, già così ben criticati da
Rousseau. Esso, dunque, non abbraccia le idee della sinistra «progressista» e
comprende bene che i valori di «progresso» esaltati dalla sinistra sono anche
quelli cui si richiama la borghesia liberale che sfrutta i lavoratori. In
realtà, lotta, al contempo, contro la destra monarchica e clericale, contro il
capitalismo borghese, sfruttatore del lavoro vivo, e contro la «sinistra»
progressista erede dei Lumi. Si è così in un gioco a tre, molto differente
dallo spartiacque destra-sinistra che si imporrà all’indomani della Prima
Guerra mondiale.
È, d’altronde, contro il riformismo e il parlamentarismo
della «sinistra» che il socialismo proudhoniano o il sindacalismo
rivoluzionario soreliano oppongono allora l’ideale del mutualismo o
dell’autonomia dei sindacati e la volontà rivoluzionaria all’opera nell’«azione
diretta» - ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens
della CGT.
I primi socialisti non erano nemmeno avversari del passato.
Più esattamente, distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime,
rientrava nell’ambito del principio di dominazione gerarchica, da essi
rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio «comunitario» (la Gemeinwesen di
Marx) e dai valori tradizionali, morali e culturali che lo sottendevano. «Per i
primi socialisti, era chiaro che una società nella quale gli individui non
avessero avuto più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a
concludere accordi interessati non poteva costituire una comunità degna di
questo nome» . Proprio per questo, Pierre Leroux, uno dei primissimi teorici
socialisti, affermava non soltanto che «la società non è il risultato di un
contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni
tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».
Per il popolo, il passato non era soltanto ciò che gli
permetteva di inscriversi in una filiazione e in una continuità storiche
particolari, ma ciò che gli permetteva di giudicare il valore delle innovazioni
che gli venivano proposte. Da questo punto di vista, la «tradizione» era più
una protezione che una costrizione. In passato, molte rivolte popolari avevano
già trovato la loro origine in una volontà chiaramente manifestata di difendere
le consuetudini e le tradizioni popolari contro la Chiesa, la borghesia o i
principi. Il motivo di ciò è che sono le consuetudini, le tradizioni, le forme
particolari della vita locale, ossia le comunità radicate, a permettere da sempre
l’emersione di un mondo comune e a costituire, ugualmente da sempre, il quadro
nel quale «possono dispiegarsi le strutture elementari della reciprocità e
dunque, ugualmente, le condizioni antropologiche dei differenti processi etici
e politici che permetteranno eventualmente di estenderne il principio
fondamentale ad altri gruppi umani, se non addirittura all’intera umanità» .
Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto
l’internazionalismo o il senso dell’universale. I primi socialisti erano
perfettamente coscienti che è «sempre a partire da una tradizione culturale
particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali» e che «in pratica, l’universale non può mai
essere costruito sulla rovina dei radicamenti particolari» . Per dirla con lo
scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l’universale è il locale,
meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente legato alla sua
comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai
suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un
sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità», scrive ancora
Michéa, «possiamo concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore
della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al
contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista
che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista» .
Come il patriottismo non deve essere confuso con il
nazionalismo (di destra»), così l’internazionalismo non deve essere confuso con
il cosmopolitismo (di «sinistra»). Poiché l’abbandono o l’oblio della propria
cultura rendono incapaci di comprendere l’attaccamento degli altri alla loro,
il risultato dell’universalismo astratto non è il regno del Bene universale, ma
la realizzazione di un «universo ipnotico, glaciale e uniformato» il cui
soggetto è quell’essere narcisistico pre-edipico, immaturo e capriccioso che è
il consumatore contemporaneo.
In Francia, l’alleanza storica tra il socialismo
(influenzato prima dalla socialdemocrazia tedesca e poi dal marxismo) e la
«sinistra» progressista si instaura all’epoca dell’affare Dreyfus (1894).
Svolta profondamente negativa. Nato dalla preoccupazione di una «difesa
repubblicana» contro la destra monarchica, clericale o nazionalista, si delinea
un compromesso che partorirà in primo luogo i cosiddetti «repubblicani
progressisti». Si crea allora una confusione tra ciò che è emancipatore e ciò
che è moderno, i due termini essendo a torto ritenuti sinonimi.
È in questo momento, scrive Michéa, che il movimento
socialista è stato «progressivamente indotto a sostituire alla lotta iniziale
dei lavoratori contro il dominio borghese e capitalista quella che avrebbe
presto opposto – in nome del “progresso” e della “modernità – un “popolo di
sinistra” e un “popolo di destra” (e, in questa nuova ottica, era evidentemente
scontato che un operaio di “sinistra” sarebbe stato sempre infinitamente più
vicino a un banchiere di sinistra o a un dirigente di sinistra del FMI che a un
operaio, a un contadino o a un impiegato che dava i suoi voti alla destra)» .
Questo compromesso ha assunto due aspetti: «Da un lato, ha portato ad ancorare
il liberalismo – motore principale della filosofia del Lumi – nel campo delle
“forze di progresso” […] Dall’altro, ha contribuito a rendere in anticipo
illeggibile l’originaria critica socialista, poiché quest’ultima sarebbe nata
appunto da una rivolta contro la disumanità dell’industrializzazione liberale e
l’ingiustizia del suo diritto astratto» .
Allora – e soltanto allora – la causa del popolo ha
cominciato a divenire sinonimo di quella di progresso, all’insegna di una
«sinistra» che voleva essere anzitutto il «partito dell’avvenire» (contro il
passato) e l’annunciatrice dei «domani che cantano», ossia della modernità in
marcia. Soltanto allora si è reso necessario, quando ci si voleva situare «a
sinistra», ostentare un «disprezzo di principio per tutto ciò che aveva ancora
il marchio infamante di “ieri” (il mondo tenebroso del paese d’origine, delle
tradizioni, dei “pregiudizi”, del “ripiegamento su se stessi” o degli attaccamenti
“irrazionali” a esseri e luoghi)» . Il movimento socialista, e poi comunista,
riprenderà dunque per proprio conto l’ideale «progressista» del produttivismo
ad oltranza, di quel progetto industriale e iperurbano che ha completato lo
sradicamento delle classi popolari, rendendole ancora più vulnerabili
all’influenza della Forma-Capitale. (Il che spiega anche che quell’ideale abbia
ricevuto una migliore accoglienza tra gli operai già sradicati che tra i
contadini).
D’ora innanzi, per difendere il socialismo, bisognava
credere alla promessa di una marcia in avanti dell’umanità verso un universo
radicalmente nuovo, governato soltanto dalle leggi universali della ragione.
Per essere «di sinistra», bisognava classificarsi tra coloro che, per
principio, rifiutano di guardare indietro, così come fu intimato a Orfeo. (Di
qui il titolo del libro di Jean-Claude Michéa: disceso nel regno dei morti con
la speranza di ritrovare Euridice e di riportarla nel mondo dei vivi, Orfeo si
vede proibire da Ade di voltarsi indietro, altrimenti perderà per sempre la sua
bella. Beninteso, egli violerà all’ultimo momento questa proibizione). A questa
deriva, in cui vede a giusta ragione un’impostura, si oppone Michéa con una
fermezza pari al suo talento.
Separato dalle sue radici, il movimento operaio è stato
nello stesso tempo privato delle condizioni e dei mezzi della sua autonomia.
Come aveva ben visto George Orwell, la religione del progresso priva infatti
l’uomo della sua autonomia nel momento stesso in cui pretende di garantirla
emancipandolo dal passato. Orbene, sottolinea Michéa, «dal momento in cui un
individuo (o una collettività) è stato spossessato dei mezzi della sua
autonomia, non può più perseverare nel suo essere se non ricorrendo a protesi
artificiali. Ed è appunto questa vita artificiale (o “alienata”) che il
consumo, la moda e lo spettacolo hanno il compito di offrire a titolo di
compensazione illusoria a tutti coloro la cui esistenza è stata così mutilata»
.
Poiché la sinistra si considera innovatrice, il capitalismo
sarà nello stesso tempo denunciato come «conservatore». Altra deriva fatale,
perché la Forma-Capitale è tutto tranne che conservatrice! Marx aveva già
mostrato bene il carattere intrinsecamente «progressista» del capitalismo, cui
riconosceva il merito di aver soppresso il feudalesimo e annegato tutti gli
antichi valori nelle «gelide acque del calcolo egoistico». A questo tratto
fondante se ne aggiunge un altro, tipico delle forme moderne di questo stesso
capitalismo. «Una economia di mercato integrale», spiega Michéa, «può
funzionare durevolmente solo se la maggior parte degli individui ha
interiorizzato una cultura della moda, del consumo e della crescita illimitata,
cultura necessariamente fondata sulla perpetua celebrazione della giovinezza, del
capriccio individuale e del godimento immediato […] Dunque, è proprio il
liberalismo culturale (e non il rigorismo morale o l’austerità religiosa) a
costituire il complemento psicologico e morale più efficace di un capitalismo
di consumo» . Ora, diventando «di sinistra», il socialismo ha fatto suoi anche
i principi del liberalismo culturale. La sinistra «permissiva» è così divenuta
il naturale humus di espansione della Forma-Capitale. È il capitalismo che
permette meglio di «godere senza ostacoli»!
Per decenni, sotto l’etichetta di «sinistra», si troveranno
dunque associate, in una permanente ambiguità, due cose totalmente differenti:
da una parte, la giusta protesta morale della classe operaia contro la
borghesia capitalista, e, dall’altra, la credenza liberale borghese in una
teoria del progresso la quale afferma, in linea di massima, che «prima» non ha
potuto che essere peggiore e che «domani» sarà necessariamente migliore. In
effetti, il movimento socialista è veramente degenerato dal momento in cui è divenuto
«progressista», ossia a partire dal momento in cui ha aderito alla teoria (o
alla religione) del progresso – cioè alla metafisica dell’illimitato – che
costituisce il cuore della filosofia dei Lumi, e dunque della filosofia
liberale. Essendo la teoria del progresso intrinsecamente legata al
liberalismo, la «sinistra», diventando «progressista», si condannava a
confluire un giorno o l’altro nel campo liberale. Il verme era nel frutto. Il
liberalismo culturale annunciava già il capovolgimento nel liberalismo
economico. L’ultimo bastione a cedere è stato il partito comunista, che ha
progressivamente smesso di svolgere il ruolo che in passato ne aveva decretato
il successo: fornire «alla classe operaia e alle altre categorie popolari un
linguaggio politico che permettesse loro di vivere la loro condizione con una
certa fierezza e di dare un senso al mondo che avevano sotto gli occhi» .
Ciò che Michéa dice della sinistra potrebbe, beninteso,
essere detto della destra, con una dimostrazione inversa: la sinistra ha
aderito al liberalismo economico perché era già acquisita all’idea di progresso
e al liberalismo «societale», mentre la destra ha aderito al liberalismo dei
costumi perché ha prima adottato il liberalismo economico. È, infatti,
completamente illusorio credere che si possa essere durevolmente liberali sul
piano politico o «societale» senza finire col diventarlo anche sul piano
economico (come crede la maggioranza delle persone di sinistra) o che si possa
essere durevolmente liberali sul piano economico senza finire col diventarlo
anche sul piano politico o «societale» (come crede la maggioranza delle persone
di destra). In altri termini, c’è un’unità profonda del liberalismo. Il
liberalismo forma un tutto. Alla stupidità delle persone di sinistra che
ritengono possibile combattere il capitalismo in nome del «progresso»,
corrisponde l’imbecillità delle persone di destra che ritengono possibile
difendere al contempo i «valori tradizionali» e un’economia di mercato che non
smette di distruggerli: «Il liberalismo economico integrale (ufficialmente
difeso dalla destra) reca in sé la rivoluzione permanente dei costumi
(ufficialmente difesa dalla sinistra), proprio come quest’ultima esige, a sua
volta, la liberazione totale del mercato» . Ciò spiega che destra e sinistra
confluiscano oggi nell’ideologia dei diritti dell’uomo, il culto della crescita
infinita, la venerazione dello scambio mercantile e il desiderio sfrenato di
profitti. Il che ha almeno il merito di chiarire le cose.
La sinistra si è molto presto convinta che la
globalizzazione del capitale rappresentava una evoluzione ineluttabile e un
avvenire insuperabile, con la politica che, nello stesso tempo, si adattava
alla globalizzazione economica e finanziaria. Il grande divorzio tra il popolo
e la sinistra ne è stata la conseguenza più clamorosa.
Il Club Jean Moulin aveva aperto la strada negli anni
sessanta. La «seconda sinistra» rocardiana negli anni settanta, la Fondazione
Saint-Simon negli anni ottanta hanno approfondito la breccia attraverso la
quale la sinistra ha cominciato a puntare sulla «società civile» contro lo
Stato e a confluire nel modello del mercato. Nella stessa epoca, il liberalismo
culturale trionfa, il che si traduce in uno spostamento dei dibattiti politici
verso le poste in gioco della società e verso nuovi gruppi sociali in via di
autonomizzazione (donne, immigrati, omosessuali, ecc.). Infine, il denaro si
impone come equivalente universale nell’ambito dei valori. «Il vincitore», ha
osservato Jacques Julliard, «fu Alain Minc […] il quale aveva compreso che,
assumendo le idee della seconda sinistra, si poteva fare un buonissimo deal con
il neocapitalismo che si stava imponendo» .
È emersa così una sinistra «i cui dogmi sono l’antirazzismo,
l’odio dei limiti, il disprezzo del popolo e l’elogio obbligatorio dello
sradicamento» . È così che l’immaginario della «sinistra moderna» -
simboleggiata in Francia da Le Monde, Libération, Les Inrockuptibles e altri
insigni rappresentanti del «circolo della ragione» ideologicamente dominante –
è arrivato a confondersi con quelli dei padroni della BCE e del Fondo monetario
internazionale. Ed è altresì per questo che «dietro la convinzione un tempo
emancipatrice che non si arresta il progresso, [è diventato] sempre più
difficile ascoltare qualcosa di diverso dall’idea, attualmente dominante,
secondo la quale non si arrestano il capitalismo e la globalizzazione» . Ormai,
la sinistra celebra la crescita, ossia la produzione di merci all’infinito,
negli stessi termini dei liberali. Là dove gli uni parlano di
«deterritorializzazione» (alla maniera di Deleuze-Guattari o di Antonio Negri),
gli altri parlano di «delocalizzazioni». Per quanto concerne l’immigrazione,
esercito di riserva del capitale, la sinistra «moderna» usa lo stesso
linguaggio di Laurence Parisot («meticciato» e «nomadismo» trasformati in
norme). Influenzata da coloro che hanno «distrutto il socialismo convertendolo
nell’individualismo dei diritti universali e del liberalismo integrale» (Hervé
Juvin), il nemico non è più il capitalismo che sfrutta il lavoro vivo degli
uomini, ma il «reazionario» che ha il torto di rimpiangere il passato.
«È dunque normale», prosegue Michéa, «che la sinistra
“civica” (quella che ha rotto con ogni sensibilità popolare e socialista)
appaia oggi come il luogo politico privilegiato dove sono elaborate tutte le
trasformazioni giuridiche e di civiltà richieste dal mercato mondiale. Insomma,
essa non è altro che il pesce-pilota del capitalismo senza frontiere o, se si
preferisce, l’avanguardia culturale militante della destra liberale»-
Mario Mafai - i dirigenti |
I «valori» della sinistra non sono più valori socialisti, ma
valori «progressisti»: immigrazionismo, apertura o soppressione delle
frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di certe droghe,
ecc., tutte opzioni con le quali la classe operaia è in completo disaccordo o
di cui si disinteressa totalmente. Per la sinistra «moderna», che realizza
l’alleanza dei funzionari, delle classi borghesi superiori, degli immigrati e
dei radical chic, «rifiutare l’oscura eredità del passato (che, a priori, non
può non richiamare atteggiamenti di “pentimento”), combattere tutti i sintomi
della febbre “identitaria” (ossia, in altri termini, tutti i segni di una vita
collettiva radicata in una cultura particolare) e celebrare all’infinito la
trasgressione di tutti i limiti morali e culturali tramandati dalle precedenti
generazioni (il regno compiuto dell’universale liberale-paolino dovendo
coincidere, per definizione, con quello dell’indifferenziazione e
dell’illimitatezza assolute) è tutt’uno» . Non si parla più del capitalismo o
della lotta di classe, e ovviamente di quella anticaglia della rivoluzione.
Persino il partito comunista ha quasi soppresso la parola «socialismo» dal suo
vocabolario. Avendo perduto la sua identità ideologica, non è più in grado di
influenzare la corrente socialdemocratica da cui dipende elettoralmente .
Poiché l’obiettivo non è più lottare contro il capitalismo,
ma combattere tutte le forme di preoccupazione identitaria, regolarmente
descritte come il risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, «ciò
spiega», constata Jean_Claude Michéa, «che il “migrante” sia progressivamente
divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni ideologiche
della nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaico proletario, sempre
sospetto di non essere abbastanza indifferente alla sua comunità originaria o,
a più forte ragione, il contadino, che il suo legame costitutivo con la terra
destinava a diventare la figura più disprezzata – e più derisa – della cultura
capitalistica» . La sinistra cerca dunque un «popolo di ricambio». La
fondazione Terra Nova, fondata nel 2008 da persone vicine a Dominique
Strauss-Kahn e presieduta dal socialista Olivier Ferrand, si è resa celebre
pubblicando, nel maggio 2011, un rapporto che suggerisce al partito socialista
di rifondare la sua base elettorale su un’alleanza tra le classi agiate e le
«minoranze» delle periferie, abbandonando operai e impiegati ai loro «valori di
destra» (critica dell’immigrazione, protezionismo economico e sociale,
promozione di norme forti e di valori morali, lotta contro l’assistenzialismo,
ecc.). Il testo del rapporto è molto chiaro: «Contrariamente all’elettorato
storico della sinistra, coalizzato dalle poste in gioco socio-economiche,
questa Francia di domani è unificata anzitutto dai suoi valori culturali
progressisti». «Tra i due perdenti della globalizzazione – gli immigrati
ghettizzati e i modesti salariati minacciati – la sinistra in stile Terra Nova
sostiene ormai i primi a scapito dei secondi» .
Non è quindi sorprendente che il popolo si distolga da una
sinistra affascinata più dal people e dalla «plebaglia» che dai lavoratori, che
si dichiara per la globalizzazione, sebbene quest’ultima sia anzitutto quella
del capitale, si interessa più alle iniziative «civiche» che alle
trasformazioni strutturali, alla società protettiva del care più che alla
giustizia sociale, alla vita associativa più che alla politica, allo spettacolo
mediatico più che alla sovranità del popolo, al consenso sociale più che alla
lotta di classe – e, come i liberali, concepisce l’interesse generale solo come
semplice somma degli interessi particolari. Il popolo non si riconosce più in
una sinistra che ha sostituito l’anticapitalismo con un simulacro di
«antifascismo», il socialismo con l’individualismo radical chic e
l’internazionalismo con il cosmopolitismo o l’«immigrazionismo», prova solo
disprezzo per i valori autenticamente popolari, cade nel ridicolo celebrando al
contempo il «meticciato» e la «diversità» , si sfinisce in pratiche «civiche» e
in lotte «contro tutte le discriminazioni» (con la notevole eccezione,
beninteso, delle discriminazioni di classe) a solo vantaggio delle banche, del
Lumpenproletariat e di tutta una serie di marginali.
Non è sorprendente nemmeno che il popolo, così deluso, si
volga frequentemente verso movimenti descritti con disprezzo come «populisti»
(uso peggiorativo che manifesta un evidente odio di classe). Citiamo ancora
Michéa: «Tra la rappresentazione colpevolizzante della società ormai imposta
dalla sociologia ufficiale (una minoranza di esclusi, relegati nei “ghetti
etnici”, sottomessi a tutte le persecuzioni possibili e accerchiati da una
Francia “di villette” che si presume appartenere alle classi medie) e l’oscura
realtà vissuta da queste categorie popolari, al contempo maggioritarie e
dimenticate, la distanza è divenuta assolutamente surreale. Il risultato è che
le principali vittime degli aspetti nocivi della globalizzazione non trovano
più nel linguaggio politicamente corretto della sinistra moderna la minima
possibilità di tradurre la loro esperienza vissuta» . «Minando alla base ogni
possibilità di legittimare un qualunque giudizio morale (e, di conseguenza,
rifiutando simultaneamente di comprendere l’uso popolare delle nozioni di
merito e responsabilità individuale), la sinistra progressista si condanna
inesorabilmente a consegnare ai suoi nemici di destra interi pezzi di quelle
classi popolari che, a modo loro, non domandano altro che di vivere onestamente
in una società decente […] In realtà, è proprio la stessa sinistra ad aver
scelto, verso la fine degli anni settanta, di abbandonare al loro destino le
categorie sociali più modeste e sfruttate, volendo ormai essere “realista” e
“moderna”, ossia rinunciando in anticipo a ogni critica radicale del movimento
storico che, da oltre trent’anni, seppellisce l’umanità sotto un “immenso
accumulo di merci” (Marx) e trasforma la natura in deserto di cemento e
acciaio» .
Georges Sorel diceva che «il sublime è morto nella
borghesia, che è dunque condannata a non avere più una morale». Anche Michéa
parla di morale. Ma qui non si tratta del «sublime», bensì della decenza comune
(common decency) tanto spesso celebrata da Orwell.
«È morale», diceva Emile Durkheim, «tutto ciò che è fonte di
solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a
regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio
egoismo». «Ciò spiega», aggiunge Michéa, «che la rivolta dei primi socialisti
contro un mondo fondato sul solo calcolo egoistico sia stata così spesso
sostenuta da una esperienza morale» . Si pensi alla «virtù» celebrata da
Jaurès, alla «morale sociale» di cui parlava Benoît Malon. La «decenza comune»,
che è mille miglia lontana da ogni forma di ordine morale o di puritanesimo
moralizzatore, è infatti uno dei tratti principali della «gente normale» ed è
nel popolo che la si trova più comunemente diffusa. Essa implica la generosità,
il senso dell’onore, la solidarietà ed è all’opera nella triplice obbligazione
di «dare, ricevere e restituire» che per Marcel Mauss era il fondamento del
dono e del controdono. A partire da essa, si è espressa in passato la protesta
contro l’ingiustizia sociale, perché permetteva di percepire l’immoralità di un
mondo fondato esclusivamente sul calcolo interessato e la trasgressione
permanente di tutti i limiti. Ma è altresì essa che, oggi, protesta con tutta
la sua forza contro quella sinistra «moderna» di cui un Dominique Strass-Kahn è
il simbolo e nella quale non si riconosce più. «Da questo punto di vista»,
scrive Michéa, «il progetto socialista (o, se si preferisce l’altro termine
utilizzato da Orwell, quello di una società decente) appare proprio come una
continuazione della morale con altri mezzi» .
Come si è capito, Michéa non critica la sinistra da un punto
di vista di destra – e ce ne rallegriamo – bensì in nome dei valori fondanti
del socialismo delle origini e del movimento operaio. Tutta la sua opera si
presenta, d’altronde, come uno sforzo per ritrovare lo spirito di questo socialismo
delle origini e porre le basi del suo rinnovamento nel mondo di oggi. Assumendo
la difesa della «gente normale», egli rifiuta anzitutto che si screditino
valori di radicamento e strutture organiche che, in passato, sono stati spesso
l’unica protezione di cui disponevano i più poveri e i più sfruttati.
Non è un punto di vista isolato. Il percorso di Jean-Claude
Michéa si inscrive piuttosto in una vasta galassia, dove troviamo, in primo
luogo, ovviamente, il grande George Orwell, al quale Michéa ha dedicato un
libro notevole (Orwell, anarchiste tory), come pure Christopher Lasch, teorico
di un «populismo» socialista e comunitario, grande avversario dell’ideologia
del progresso , di cui ha contribuito più di chiunque altro a far conoscere il
pensiero in Francia. Vi troviamo anche, per citare solo pochi nomi, il giovane
Marx critico dei «diritti dell’uomo», i primi socialisti francesi, William
Morris, Charles Péguy e Chesterton, l’Antonio Gramsci che sottolinea
l’importanza delle culture popolari, il Pasolini degli Scritti corsari (colui
che diceva: «Ciò che ci spinge a tornare indietro è umano e necessario tanto
quanto ciò che ci spinge ad andare avanti»), Clouscard e la sua critica dei
liberali-libertari, Jean Baudrillard e la sua denuncia della «sinistra divina»,
i films di Ken Loach e di Guédiguian, la canzoni di Brassens, senza dimenticare
Walter Benjamin, Cornelius Castoriadis, Jaime Semprun, Anselm Jappe, Serge
Latouche , ecc.
Michéa paragona il liberalismo a un nastro di Möbius, che
presenta una «faccia destra» e una «faccia sinistra», ma senza alcuna soluzione
di continuità. Ciò significa che tra borghesia di destra e borghesia di
sinistra, entrambe eredi della filosofia liberale dei Lumi, ci saranno sempre
più affinità oggettive che tra ciascuna di queste borghesie e gli antiborghesi
del loro campo. E viceversa, che esiste una complementarità altrettanto
naturale tra coloro che difendono il popolo contro la borghesia sfruttatrice,
si situino essi ancora a sinistra o provengano da destra. È ciò che constata
Michéa quando scrive: «Poco importa, in verità, sapere da quale tradizione
storica ciascuno ha tratto le particolari ragioni che lo inducono a rispettare
i principi della decenza comune e a indignarsi per la loro permanente
violazione ad opera del sistema capitalistico» . In un’epoca in cui la sinistra
intende più che mai raccogliere le «forze di progresso», egli non esita a ad
aggiungere che è «la patetica incapacità di assumere [la] dimensione
conservatrice della critica anticapitalistica a spiegare, in larga parte, il
profondo smarrimento ideologico (per non dire il coma intellettuale
irreversibile) nel quale l’insieme della sinistra moderna è oggi immersa» .
Non avete ancora letto Michéa? Soprattutto, non dite che un
giorno lo leggerete. Leggetelo subito. Immediatamente!
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