Passano solo 40 anni, dal Leviatano di Thomas Hobbes del
1651, e i Due trattati sul governo di John Locke. Eppure, di mezzo c’è la
differenza tra la notte e il giorno.
Nel primo si descrive la convenienza di
essere sudditi, affidandosi allo Stato per evitare i danni di un conflitto
sociale rischioso.
Nel secondo, il diritto e il vantaggio di essere cittadini,
associandosi sulla base del consenso fra uomini liberi, ciascuno depositario di
diritti naturali incomprimibili alla vita, alla libertà, alla proprietà.
In
Italia, la Repubblica è nata promettendo quest’ultima cosa. Nei fatti, ha
invece inverato la prima: lo Stato fa quel che vuole, e noi siamo sudditi.
E’
così in materia fiscale, perché nessun Paese avanzato ha adottato il favor
fisci come criterio orientativo della giurisprudenza costituzionale e
di Cassazione, e solo Paesi totalitari hanno come da noi un giudice tributario
che non è terzo, ma appartiene alla stessa amministrazione che presume di
conoscere lei la tua cifra d’affari, il tuo imponibile, la tua imposta, e che
si è dato anche il potere di entrare nei tuoi conti, bloccandotela e spezzando
la continuità della tua impresa.
E’ così nella giustizia civile, perché lo
Stato aspetta anche sei o sette anni per il primo grado mentre il tuo diritto economico
svanisce, a differenza di un anno al massimo negli Usa.
E’ così
nell’urbanistica, nelle infrastrutture, nelle liste d’attesa della sanità
pubblica.
O nella previdenza, in cui per volontà dello Stato 513mila italiani
hanno pensioni retributive – cioè regalate rispetto ai contributi versati –
superiori ai 4mila euro al mese e che costano 9miliardi e mezzo l’anno, mentre
i più giovani non ne avranno mai neanche una da mille.
Come difendersi? La
giustizia, scassata com’è, serve a poco. Di referendum alla svizzera, neanche a
parlarne. L’accesso diretto dei cittadini alla Corte costituzionale, come in
Germania, da noi è vietato.
Come è avvenuto? L’Italia è diventata Stato dei
partiti nella prima Repubblica, e Stato dei vertici della PA nella Seconda.
Chi
occupa protempore i poteri dello Stato, se non ha selezione dal basso in base
al merito e alla temporaneità dell’incarico, sia politico oppure burocrate,
persegue il proprio interesse a darsi ragione e ad amministrare sempre più
risorse, non quello della libertà. E ci riesce rinfacciando ai cittadini, di
non essere all’altezza del loro dovere civico. Come avviene sulle tasse: non
conta quanto lo Stato dilapidi, la colpa è di chi tenta di sottrarvisi.
Per
tornare a essere cittadini non basta il voto alle urne. Occorre smascherare
dovunque la falsità di un’etica pubblica che spaccia per valore civile
l’interesse dei mandarini pubblici, i veri eredi del monarca assoluto.
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