mercoledì 21 maggio 2014

Eppur si... muore

Alex Majoli - India, fabbica tessile
L'ILVA rischia di chiudere, dichiarava ieri Antonio Gozzi, Presidente della Federacciai.
In 1 anno di amministrazione di Enrico Bondi, il salvatore della Montedison e della Parmalat e commissario di Mario Monti  nell'omonimo governo, ha dimezzato la produzione dell'impianto siderurgico di Taranto facendo perdere 1 miliardo di euro in circolante all'azienda.

Bondi non fu messo lì solo dal governo, dopo i fatti che anche qui abbiamo commentato come sappiamo fare, ma voluto anche dalla famiglia Riva, proprietaria degli stabilimenti. E ad 1 anno dalla sua amministrazione delegata, dopo che sono saltati i coperchi grazie alla magistratura tarantina, i nodi sono arrivati al pettine: ritardi nei pagamenti dei fornitori, degli stipendi, un piano di risanamento ambientale che ancora non si vede e che sembra allontanarsi se intanto si continua a perdere fatturato, un piano industriale ancora tutto da definire e che deve passare il vaglio delle banche, un riassetto della proprietà dopo la morte del capostipite Emilio Riva di poco tempo fa.
E in questa campagna elettorale poco si discute di quale ruolo produttivo ed economico l'Italia debba rivestire nello scenario europeo, a fronte della questione dell'ILVA, così come quella della Elettrolux (che in apparenza sembra essersi conclusa con successo e con la firma di tutto il sindacato istituzionale) e di tante altre realtà produttive italiane in fase di dismissione e di chiusura. L'unica realtà che sembra tenere è quella del packaging! Siamo i più bravi a produrre rifiuti, in Europa.



Chi sa leggere qualche grafico, avrà anche qui letto delle correlazioni  fra debito pubblico e privato e industrializzazione, grande industrializzazione. Certo, sono solo correlazioni, e non causalità... ma è indubbio ormai che la grande industria può esistere solo dove può esternalizzare parte dei suoi costi, ad esempio con il debito pubblico attraverso aiuti di Stato (in varie forme, anche attraverso riduzioni della bolletta energetica, ad esempio), o riverberando i suoi effetti negativi sull'mbiente, oppure ed ancora più massicciamente sulla riduzione dei salari e la esclusione della forza lavoro meglio retribuita per favorire quella più flessibile in tal senso. La globalizzazione, inoltre, ha ancor più tragicamente accelerato il processo di deindustrializzazione italiana ed europea.
Quote massicce di industria una volta italiane sono adesso nelle mani straniere, che acquisiscono in questo modo quote di mercato sotto la falsa aurea degli investimenti, finchè i tempi non saranno maturi per la chiusura definitiva degli stabilimenti... salvo concludere apparenti accordi di salvaguardia come quelli appena firmati dall'Elettrolux, che ben presto si riveleranno essere l'ennesimo buco nell'acqua appena le agitazioni elettorali si saranno chetate.

Quello che sta accadendo è inevitabile, a Tarando come a Piombino, in Friuli come in Sardegna, in Piemonte come nelle Marche... la grande industria sta smantellando e seguendo il passo di marcia di Marchionne, che va dove riceve aiuti di Stato e dove può produrre alle sue regole merci che si confrontano con altre merci sul mercato sulla base dei prezzi e non del valore.

Le politiche industriali degli ultimi anni si limitano a rimandare, per come possono, lo scenario ineluttabile, attraverso finanziamenti a pioggia totalmente improduttivi, attraverso modifiche del diritto del lavoro che pagheranno in vecchiaia gli stessi lavoratori attraverso le pensioni da fame che percepiranno se e quando ci arriveranno alle pensioni, attraverso l'espulsione prematura delle maestranze dalle attività produttive, attraverso la riduzione al servilismo ottocentesco e protocapitalistico del lavoro.

C'è da rimpiangere Cuccia e Agnelli in questo Paese, così come l'IMI e l'IRI... ora è tutto nelle mani, invisibili si fa per dire, del mercato. Più che mai qui in Italia, dove i campioni del liberismo trovano maggior corda e alberi dove impiccare il dibattito pubblico sul futuro produttivo del Paese, poichè negli USA, come in Germania e in Francia, non si resta a guardare e si decidono quali sono gli assetti industriali strategici che devono essere conservati e che prevedono un ruolo più che attivo dello Stato... a riprova che la grande industria ha senso solo se è... statale. Ma non rimpiangiamo i tempi gloriosi dell'industria di Stato, tanto meno invidiamo coloro che, predicando bene ma razzolando male, impegnano i propri ministeri economici in attività industriali che a volte sono dichiaratamente non strategici ma solo utili ai fini del consenso elettorale.

Fra pochi giorni si voterà per il rinnovo del parlamento europeo, luogo dove in via privilegiata si discute unicamente se mozzare o meno le orecchie dei barboncini. E' chiaro a tutti che, quindi, queste elezioni saranno tutte autoriferite alle politiche interne dei Paesi europei, e la prevista pattuglia di 250 euroscettici prossimi a sedersi sugli scranni di Bruxelles annunceranno il rumore della deflagrazione dell'attuale assetto europeo.

L'unico scenario politico europeo che presenta forti tratti di novità è quello italiano: un ceto di non professionisti della politica può riuscire in quello che la politica politicante ha fallito nel centrare in tutti questi anni da paese dei balocchi, ovvero nell'ascoltare le istanze periferiche dell'economia. Non tutto quello che si muove nella periferia è sano ed è buono, anzi si è fatto di tutto affinchè proprio lì montassero aspettative e proposizioni disarticolate e deleterie, confondendo attività imprenditoriali con mere produzioni terziste, considerando tra l'altro che i centri dell'impero lavorano per indebolire ogni istanza di cambiamento, sia attivamente finanziando istanze elettorali decadenti ed egoistiche che attraverso la formazione di immaginari catastrofistici di quanto pone elementi di criticità del sistema così come finora si è dato. Il ruolo fin qui svolto dalle formazioni a carattere territoriale così come la rincorsa da posizioni centrifughe del centro politico moderatista, di fatti ha solo rimandando l'eutanasia alla quale un intero Paese andava incontro. Resterà da chiarire, per la storia a venire, se questo ruolo è stato eteroprodotto oppure è il frutto dell'inconsistenza ideologica prima ancora che ideale degli italiani e del ceto politico che fin qui hanno premiato.

Chiudere l'ILVA così come ogni altra realtà produttiva energivora e non più competitiva è necessario! Senza stare a perdere tempo e denari che invece potrebbero trovare migliore allocazione e dare spazio a quell'innovazione di prodotto che, anche se non da sola, può permetterci da posizioni ormai arretrate di rioccupare lo spazio economico che andiamo inesorabilmente perdendo inseguendo incubi di competitività che solo scenari politici antidemocratici possono abilmente fingere di acquisire.

Tutto il dibattito politico dovrebbe centrarsi sull'allocazione delle risorse, e non sulle prebende di Stato elargite a seconda della convenienza a conservare gli assetti di potere esistenti. Invece vince la chiacchiera degli 80 euro (o 640 euro di credito d'imposta annuali), o quella sulla tassazione indiscriminata degli interessi dei depositi bancari di chiunque presentandola come redistribuzione dei redditi, oppure sui privilegi concessi alla grande industria improduttiva obsoleta e inquinante opportunamente manipolata da un sindacato ormai alla mercé del ceto politico dominante.
Lasciare che qualcosa muoia è l'unica speranza di vita.

Nessun commento: