La separazione delle reti infrastrutturali dai fornitori di servizi sappiamo già essere l'imperativo delle politiche dell'Europa. Questi indirizzi hanno spinto tutti gli Stati membri dell'Unione a separare, per esempio, la rete elettrica (rimasta nelle mani dello Stato) dai fornitori di energia elettrica, la rete del gas (che in Italia vorrebbero però privatizzare) dai fornitori e distributori del gas naturale, la rete delle telecomunicazioni dai fornitori di servizi di telecomunicazione (caso eccezionale, quello italiano dove la rete è in mano ai privati). Lo stesso dicasi per la rete ferroviaria, che è già stata scorporata dall'erogazione del servizio di trasporto, oggi consentito anche a società ferroviarie private. Un altro esempio è quello di separare l'acquirente -purchaser (pubblico) del servizio dal suo erogatore-provider (anche privato).
L'idea di fondo di queste politiche europee sulla erogazione dei servizi pubblici, e che si implementa nel separare il controllo e gestione della rete e del servizio (monopolisticamente in mano pubblica) dalla erogazione dei servizi che quella rete consente (in stato di concorrenza privato-privato-pubblico), è il non celato obiettivo di dismissione di tutta una serie di erogazione di servizi di cittadinanza direttamente prodotti da parte dello Stato. Non escludiamo che domani questa politica possa anche riguardare la scuola, settore dove gli strappi più decisivi sono stati compiuti dalla Lombardia, seppur non hanno raggiunto l'estensione che nella stessa Regione è stata determinata, per esempio, nel settore sanitario.
Ci riferiamo alla Lombardia poichè essa è la punta d'avanguardia delle politiche nazionali di privatizzazione dei servizi pubblici, di queste politiche "anglosassoni" circa la separazione della rete dall'erogazione dei servizi pubblici sono state più che altrove in Italia adottate.
Prendiamo ad esempio i servizi sanitaria: le ASL "acquistano" sul mercato, a prezzi unilateralmente prefissati attraverso i ROD (costo-prezzo per tipologia di prestazione sanitaria), tutti i servizi sanitari in regime di concorrenza sia dai privati che dalle strutture pubbliche stesse non ancora dismesse. La Lombardia ne è il caso più espressivo di implementazione di queste politiche (tanto che la spesa sanitaria lombarda si divide perfettamente a metà fra pubblico e privato per i rimborsi (ROD) delle erogazioni di servizi sanitari): pubblico e privato convenzionato offrono le loro prestazioni sanitarie in regime di concorrenza ai possibili "clienti", che in libera scelta (così è scritto nella legge Bindi del 1999, ultima riforma sanitaria dopo quelle del 1992 e 1993) decidono dove andare a farsi curare. Poi, l'ASL pagherà le prestazioni erogate attraverso tariffe prefissate per tipo trattamento: un'appendicite? 5.000 euro. Un'ernia inguinale? 3.750 euro. Solo solo esempi, ma ci servono per farla breve e per rendere l'idea.
E che idea è?
Ideologicamente queste politiche sulla privatizzazione sono state sostenute da parole che definivano lo Stato inefficiente nell'erogazione dei servizi. Ed in verità, dobbiamo riconoscere che molto spesso nelle strutture di erogazione di servizi alla cittadinanza covano estesi nuclei di inefficienza e di spreco, che sono dovuti dal fatto che le dirigenze e le assunzioni rispondono a criteri che non sono per nulla orientati all'utente, ma invece molto orientati autoreferenzialmente alla collocazione del decotto politico di turno, del notabile locale che controlla molto consenso, del raccomandato figlio di. Questo non sta a significare che chi è impiegato nella pubblica amministrazione e nelle strutture di erogazione di servizi di cittadinanza siano tutti così... ma sappiamo che chi non è fra questi lo possiamo subito riconoscere: lavora, e spesso non fa carriera.
Non intendiamo essere qualunquisti, e sparare nel mucchio, ma fra coloro che fanno quotidiana esperienza della fruizione del servizio pubblico questo intendere è diffuso. E risulterebbe ozioso motivare e giustificare le motivazioni che non consentono alla struttura pubblica di erogare un servizio all'altezza di un Paese civile. Ed infatti, quando è avvenuto, il dibattito è stato piuttosto sterile, ed ha visto confrontarsi ideologismi del "pubblico" ed ideologismi del "privato", e naturalmente nel contesto mercantilista attuale che ci vuole tutti "operatori di mercato" e nelle condizioni disastrose (endogene ed esogene) in cui versa il settore pubblico, coloro che l'hanno avuta e continuano ad averla vinta sono i sostenitori della privatizzazione dei servizi. E' difficile sostenere le proprie ragioni quando contesto ideologico e inefficienza propria non sostengono le tesi.
Ma cerchiamo un po' di capire perchè, ad un certo punto, proprio l'Europa che ha inventato ed istituito il Welfare State, indipendentemente dai regimi promotori che furono sia di destra che di sinistra, adesso recede da quelle posizioni e spinge per la privatizzazione dell'erogazione dei servizi, seppur strategicamente indica che le reti debbano restare saldamente in mano pubblica.
Il Welfare State nasce per sostenere la necessaria efficienza funzionalistico-economica della forza lavoro impiegata nelle attività produttive. Nè più nè meno. Altre chiacchiere lasciano il tempo che trovano. L'industria ad un certo punto ha compreso che il sostegno femminile e familiare alla funzione riproduttiva dell'organizzazione sociale capitalistica era insufficiente. Se voleva avere forza lavoro sana ed in grado di lavorare a certi ritmi doveva specializzare e professionalizzare la funzione riproduttiva. Scuola, sanità, pensioni, mobilità, sono le soluzioni necessarie al sostegno della funzione riproduttiva dell'industria, e al consolidamento della statalità e della nazione che dall'assetto produttivo industriale ne conseguiva.
Come già qui scritto altrove, sarà solo con la riforma sanitaria del 1978 che istituisce il SSN che viene creato anche in Italia il ministero della sanità. Prima le questioni di carattere sanitario erano, amministrativamente parlando, governate da uno specifico dipartimento del ministero degli interni. Cosa accade dal 1978? Accade quello che era già accaduto in molte altre parti dell'Europa, ovvero che le questioni di salute (con l'evolversi delle patologie incidenti da quelle infettive a quelle cronico-degenerative) non rivestono solo carattere igienico e di ordine pubblico (come poteva essere per una società che si ammala per malattie virali e trasmissibili), ma una di carattere anche economica (come è con l'insorgenza attuale di malattie degenerative e croniche): la grande industria, che si vedeva costretta a sottoporre a migrazione una parte sostanziale della popolazione verso le aree industrializzate, non poteva consentire che il proprio investimento formativo e strutturale sulla forza lavoro fosse vanificato dall'insorgenza di acuzie che magari poi si cronicizzavano per mancanza di cure adeguate. Tanto più, non poteva consentire che non fosse conservato il mercato potenziale acquisitivo delle merci prodotte, sia durante l'eta lavorativa, sia durante il periodo di malattia che dopo la messa a riposo.
Il processo di deindustrializzazione che investe l'Italia come tutta l'Europa dagli anni '80 in poi, vanifica l'importanza funzionalistica ed economica del Welfare State. Ma anziché procedere con un suo ridimensionamento e rinnovamento, la retorica ideologica di questi anni ci è venuta a dire che la funzione pubblica del Welfare State è da conservare e che invece l'erogazione del servizio deve essere anche privatizzata, essendo oltretutto i "privati" inclini ad organizzazioni più efficienti e rispondenti ai criteri di economicità. La retorica, quindi, ha inteso diffondere il presupposto ideologico che, salvo restando i diritti dei cittadini a vedersi curati istruiti e sostenuti nel reddito in malattia come in vecchiaia, l'erogazione dei servizi pubblici da parte dei privati avrebbe introdotto, attraverso la concorrenza, un'offerta migliore e più economica.
Naturalmente si è trattata di ideologia: i costi del Welfare State sono aumentati ovunque si sono implementate politiche di privatizzazione: oggi in Italia lo Stato spende circa il 5% del PIL in sanità, ed un altro 5% lo tira fuori direttamente il cittadino dalle proprie tasche come partecipazione alla spesa e in visite private intramoenia se vuol vedersi visitato in tempi ragionevoli e non, come accade nelle liste di attesa pubbliche, fra 1 anno. Un esempio fra i più eclatanti sulle abnormi cifre spese per un servizio sanitario a maggioranza privata è quello statunitense, il cui sistema sanitario assorbe fino al 17% del PIL USA. E questo la dice lunga sul fatto che non è vero che il privato sia più efficiente. Anzi, se confrontassimo quanto un statunitense spende per la sua salute e i risultati sanitari che da tale spesa ne ricava, ne vedremmo delle belle: solo a mo' di esempio, fra i Paesi OCSE gli USA hanno la più bassa probabilità di vita media. Poca cosa, a fronte di un notevole investimento di risorse: il rapporto costi-benefici è evidentemente inefficiente.
Quindi, il mito che i privati sono più efficienti è falso. Ma perchè il settore privato insiste nel voler investire in erogazione dei servizi alla cittadinanza? Proprio per il fatto che i larghi profitti che riescono a fare nel mercato globalizzato possono essere reinvestiti in questi servizi pubblici in quei Paesi che sono oggetto di deindustrializzazione, e dove la spesa pubblica va deteriorandosi per effetto della diminuzione della base imponibile (se non s'intende inasprire la popolazione con la tassazione). Investono nei servizi di cittadinanza e di welfare perchè pensano di poter marginare ancora profitti proprio in quei Paesi che deindustrializzano. Per giunta, le attività di welfare sono, ipoteticamente, un investimento sicuro, dato che il compratore e pagatore è sempre lo Stato. Insomma, è come se la grande industria abbia finalmente trovato il "posto fisso". Una pacchia.
Una pacchia un corno. I fatti del San Raffaele stanno lì a dirci che le strutture sanitarie di diritto privato falliscono negli intenti, tanto e spesso più delle stretture di diritto pubblico. E se lo Stato in questo specifico caso non è intervenuto per ripianare i mostruosi debiti ed insoluti dell'ente, non sta a significare che qualcuno, come dipendenti e fornitori, nel concordato preventivo ci abbia rimesso un bel po' di quattrini. Qualcuno paga sempre.
Un altro esempio è quello della società di trasporto pubblico ferroviario della francese Veolia Transdev, società mista al 50% fra pubblico e privato, che a fronte dei grossi disavanzi ha visto intervenire la società finanziaria statale CDC socia di Veolia acquisire un 10% del pacchetto azionario come ricapitalizzazione della società. La informazione la potete ricavare cliccando qui. Adesso Veolia è una partecipata statale al 60%.
Quindi, il privato non riesce affatto ad assicurare la stessa quantità di erogazione di servizio pubblico, anzi molto spesso la realtà è che s'indebita. E se s'indebita, magari induce ad aumentare le tariffe. E siccome ogni bene ha la sua flessibilità nella curva della domanda e dell'offerta, il rischio che si corre è che il cane di mangi la coda, e cioè che la domanda di quel servizio diminuisca, e che quindi il maggior prezzo del servizio faccia diminuire la domanda, e che i maggiori introiti derivanti dall'aumento delle tariffe falliscano nell'intento di ripianare i disavanzi, dato che i servizi pubblici hanno costi fissi non indifferenti. Un altro esempio, più conosciuto, è quella della ripubblicizzazione dell'erogazione del servizio di fornitura di acqua potabile a Parigi, dopo il fallimento della gestione privata.
Dove il privato resiste è dove, di fatto, gli sono consentite deroghe larghe agli investimenti previsti dai contratti di concessione. Vedasi le autostrade italiane.
Allora, la strada della privatizzazione dei servizi pubblici non porta a nessuna parte. Il rischio che si corre è quello che poi sia lo Stato a ripianare i debiti subentrando al privato, o peggio che si aumentino le tariffe a un tale livello da rendere non economica la fruizione. E finchè si tratta di utilizzare il treno, un cittadino può anche decidere di riutilizzare l'auto o un altro mezzo o non sostarsi affatto (ed in quest'ultimo caso i riverberi economici sono ancora più massicci). Ma quando il servizio pubblico è la scuola o la sanità, la questione è molto più complessa, dato che nel primo caso non può essere obbligato nessuno ad istruirsi se il servizio devo pagarselo di tasca propria, e nel secondo si eviterà di curarsi con i riverberi che si creerebbero sul piano dell'ordine pubblico e della tenuta economica generale della produttività, oltre che della salute generale della popolazione, come è facile da evincere dalle ricerche epidemiologiche che correlano lo stato di disoccupazione con l'incidenza delle patologie. A Bari ne hanno discusso a fine dello scorso mese di Ottobre, vedasi cliccando qui.
Tralasciamo di affrontare i riverberi che ciò comporterebbe sul piano della tenuta sociale e comunitaria dello stesso principio di statalità.
Il Welfare State, quindi, deve essere ripensato totalmente, ed il ruolo della cittadinanza nei territori si fa in questo caso molto più decisivo. Noi abbiamo dato delle indicazioni, rintracciabili nella etichetta "welfare". Qui vi segnaliamo solo due vecchi post, uno su Produzione artigianale e politiche formative, e l'altro sulle tendenze demografiche e welfare. In altri post abbiano scritto anche di quale progetto di governance potrebbe implementarsi per il più diretto possibile controllo da parte dei cittadini delle politiche di erogazione dei servizi pubblici di cittadinanza. Uno per tutti, vi basti questo post (clicca qui) dove potrete ricavare gli altri.
A questi possiamo aggiungere tutto il dibattito possibile sul cosiddetto "welfare di prossimità" e sulla "sussidiarietà". Questo non toglie l'argomento dalla graticola: ripensare la produzione per ripensare un modello di relazioni sociali e di comunità. E' per questo che l'art. 1 della Costituzione è attualissimo. E lo sarà sempre.
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