Cerchio Nero - di Kazimir Malevich |
Di seguito argomento di due deliberazione governative rispetto alla riduzione dei costi per la illuminazione pubblica notturna e dell'accorpamento delle Provincie.
IL RISPARMIO ENERGETICO DELL'ILLUMINAZIONE PUBBLICA
Il disegno di legge di stabilità approvato dal Governo qualche giorno fa prevede, tra le altre
misure, la reingegnerizzazione della rete di illuminazione pubblica.
In particolare nella bozza della legge viene riportato:
Per finalità di contenimento della spesa pubblica, di
risparmio di risorse energetiche, nonché di razionalizzazione ed ammodernamento
delle fonti di illuminazione in ambienti pubblici siano stabiliti standard
tecnici di tali fonti di illuminazione e misure di moderazione del loro
utilizzo fra i quali, in particolare:
a) spegnimento dell’illuminazione ovvero suo affievolimento, anche automatico, attraverso appositi dispositivi, durante tutte o parte delle ore notturne;b) individuazione della rete viaria ovvero delle aree, urbane o extraurbane, o anche solo di loro porzioni, nelle quali sono adottate le misure dello spegnimento o dell’affievolimento dell’illuminazione, anche combinate fra loro;c) individuazione dei tratti di rete viaria o di ambiente, urbano ed extraurbano, ovvero di specifici luoghi ed archi temporali, nei quali, invece, non trovano applicazione le misure sub b);d) individuazione delle modalità di ammodernamento degli impianti o dispositivi di illuminazione, in modo da convergere, progressivamente e con sostituzioni tecnologiche, verso obiettivi di maggiore efficienza energetica dei diversi dispositivi di illuminazione.
Il provvedimento ha come obiettivo la riduzione della bolletta
energetica per l’illuminazione pubblica per la quale vengono consumati su base
annua più di 6 TWh (6,2 TWh nel 2011, 6,4 TWh nel 2010), all’incirca il 2% dei
consumi di energia elettrica italiani, per una spesa annua quantificabile in
circa 1 miliardo di euro.
Certamente nel campo della illuminazione, sia pubblica che privata, deve essere perseguita l'efficienza energetica, in primo luogo attraverso la sostituzione delle lampade inefficienti (seppur meno costose) con le lampade a basso consumo (ma che hanno problemi significativi di smaltimento) e con quelle a led (oggi in commercio se ne trovano anche a luce calda... seppur il loro costo è alto e su questo fronte si dovrebbe molto lavorare per ridurne i costi che non hanno nessuna giustificazione tecnologica fondata)
Altresì, questo processo virtuoso deve essere perseguito in più di qualche anno, dato che l'ipotetico risparmio della bolletta energetica gioco-forza vorrebbe che fosse reinvestito nell'ammodernamento degli impianti di illuminazione come indicato dalla lettera d) di quanto sopra riportato.
La tecnologia esiste: gli impianti di illuminazione pubblica potrebbero essere sostituiti da impianti con moduli fotovoltaici cosiddetti "stand alone" o "a isola". Questi impianti, provvisti di lampadine a corrente continua e un modulo fotovoltaico la cui energia elettrica prodotta viene poi accumulata nelle batterie che la erogano la sera e la notte, possiamo già vederli funzionanti in parecchi Comuni italiani, in particolar modo nelle strade urbane periferiche e con maggiore frequenza in quelle extraurbane. Questi impianti, però, hanno costi di manutenzione e di reintegrazione di alcune parti (vedi le batterie) che li rendono ancora non sufficientemente competitivi. A cadenza biennale le batterie devono essere sostituite e smaltite. Inoltre, come la maggior parte delle fonti di produzione energetica da rinnovabili, sono sottoposti all'alea dell'intermittenza.
Una soluzione efficace potrebbe essere quella di utilizzare ogni modulo di ogni lampione come costituente una rete di un più grande impianto fotovoltaico che, collegato ad una cabina centrale ed ad un inverter, immette (vendendola) l'energia prodotta in rete. Le cablature cittadine già esistenti, adeguatamente rinnovate dove necessario, possono rendere la soluzione rapidamente applicabile. Durante le notti, poi, l'illuminazione pubblica utilizzerebbe l'energia elettrica fornita dalla rete, utilizzando lampadine a più basso consumo, e facendo in modo che il consumo notturno non superi il piano previsto di produzione di energia elettrica annuale dalla rete di moduli fotovoltaici montati sui lampioni. Senza qui tirarla per le lunghe, a Milano (a Sud le condizioni sono molto più vantaggiose) 8 metri quadri di moduli fotovoltaici (oggi ve ne sono di molto efficienti dal punto di vista della potenza di picco) possono riuscire a produrre (tenuto conto delle inefficienze di produzione dovute alle perdite di rendimento sul modulo stesso, lungo la rete di cablaggio e di trasformazione in corrente alternata con gli inverter) anche 1.000 kWh annui. Se consideriamo che i comuni moduli fotovoltaici misurano circa 1,7 metri quadri (ovvero con circa 5 moduli fotovoltaici di potenza di picco di 250 Watt siamo abbondantemente nel computo di sopra, ed oggi è possibile trovare sul mercato moduli di tale potenza a costi medi di 125 euro per qualità medio-basse), ed utilizzando lampadine a led dal consumo di 7 Watt orari (la cui durata è garantita 5 anni seppur il costo adesso si aggiri ancora sui 25 euro per lampadina a led) per una illuminazione notturna media annua di 12 ore di 5 lampioni avremmo un consumo annuale di 160 kWh, molto al di sotto della produzione che realizzerebbero i moduli montati sugli stessi lampioni (indicata in 1.000 kWh annui a Milano... a Catania sarebbero 1.700 kWh annui!). Il ricavato dell'eccesso produttivo, immesso e venduto in rete, può in parte ammortizzare l'investimento iniziale (certamente non costituito solo dai moduli fotovoltaici e dalle lampadine) in tempi molto ragionevoli (anche senza l'incentivazione prevista dai conti energia), ed in parte essere accantonato per gli interventi manutentivi e reintegrativi che si renderebbero necessari periodicamente (sostituzione inverter dopo 10 anni, lampade a led ogni 5, ecc), ed infine potrebbe anche diventare cassa per gli affamati bilanci comunali. Ma già l'obiettivo di produrre l'energia elettrica che si auto-consuma sarebbe un risultato più che soddisfacente.
Rispetto, invece, alle misure di moderazione dell'illuminazione notturna, è chiaro che vanno sicuramente limitati gli sprechi di energia luminosa
dove questi vengono individuati ma le misure di spegnimento od affievolimento
dell’illuminazione pubblica dovranno essere valutate con estrema attenzione
perché non possono prescindere dal ruolo sociale dell’illuminazione pubblica
nel garantire la sicurezza dei cittadini all’interno delle città, per quanto
riguarda la salvaguardia della normale mobilità pedonale e dal punto di vista della
sicurezza stradale.
Il risparmio di energia elettrica dedicata all’illuminazione
pubblica ottenuta attraverso gli spegnimenti o gli affievolimenti comporta sicuramente un risparmio di energia primaria e quindi una
riduzione di emissioni di CO2, ma per una valutazione del risparmio economico
conseguente a tali interventi va ricordato che il risparmio è in parte
‘virtuale’. La fornitura di energia elettrica per l’illuminazione pubblica
costa indicativamente 17 centesimi di euro per ogni kWh* escluse le imposte e
l’IVA, a tale importo il costo vero e proprio dell’energia contribuisce per
circa 10 centesimi di euro, i restanti 7 centesimi sono costituiti da oneri
generali di sistema e spese di trasmissione, distribuzione e misura
dell’energia elettrica. La valutazione del risparmio economico deve quindi
tenere conto che pur consentendo sollievo alle casse della Pubblica
Amministrazione una parte consistente delle spese accessorie contenute nella
bolletta per l’illuminazione pubblica verrebbe ‘rigirata’ ad altre utenze e che
verrebbe meno il gettito costituito dalle imposte .
Quindi, la soluzione migliore è quella di destinare il risparmio finanziario per l'ammodernamento degli impianti di illuminazione, i cui costi possono essere rapidamente recuperati ed ammortizzati in non più di 5 anni, o anche meno se si evolvono tecnologicamente i lampioni spesso già esistenti nelle nostre città.
Da questo dibattito, tralasciamo che la più felice e semplice soluzione sarebbe stata (ed ancora lo è) l'utilizzo dei tetti degli edifici pubblici per l'installazione di impianti fotovoltaici (oppure l'installazione di impianti micro-eolici e micro-idroelettrici dove possibile, e con la produzione di biogas da biomassa per i generatori idonei all'utilizzo di queste fonti energetiche primarie), che già renderebbero i Comuni autonomi nel fabbisogno di energia elettrica (e anche termica, con soluzioni miste oggi esistenti sul mercato), e che se sommati all'ammodernamento degli impianti di illuminazione pubblica diverrebbero fonte di finanziamento delle casse comunali.
*Utenze di illuminazione pubblica in BT in Maggior
Tutela IV trimestre 2012
IL RISPARMIO FINANZIARIO DELL'ACCORPAMENTO DELLE PROVINCIE
Il recente decreto di accorpamento delle Provincie appena varato, è un altro esempio di improvvisazione frettolosa dovuta alla necessita, tutta ragioneristica e dopotutto manco con i conti ben fatti, di far fronte ai costi, in questo caso, della democrazia.
Mario Seminerio, nel post Provicine, risparmiateci almeno il caos scritto ieri sul suo blog, mette il dito nella piaga di un governo che dice di non riuscire a quantificare il risparmio finanziario derivante dall'accorpamento delle Provincie. Naturalmente Griffi dichiara ciò perchè non può dire che l'unico risparmio effettivo che ci sarà è quello che derivante dal risparmio delle spese relative alla costituzione delle assemblee elettive provinciali, e relative giunte amministrative. Poichè le Provincie accorpate, con buona pace di tutti i demagoghi che vorrebbero eliminarle per risparmiare il nulla e rendere ancora più ingovernabile l'Italia, certamente conserveranno le attuali sedi come decentramenti delle sedi centrali. Ad esempio, se le Provincie di Verona e Rovigo sono state accorpate, certamente la sede centrale diverrà quella di Verona, e qui saranno eletti i consiglieri provinciali e qui sarà costituita la relativa giunta. Ma la sede di Rovigo conserverà i suoi uffici ed impiegati come sede distaccata e decentrata di quella di Verona. Lo stesso avverrà per le Provincie di Taranto e di Brindisi, per fare un altro esempio.
Poi, caso veramente paradigmatico della improvvisazione della cosa, è quella che emerge dall'accorpamento di Provincie che nella sommatoria coincidono con la Regione stessa. Vedi quanto accadrà nel 2014 (anno di entrata in vigore del decreto, se resterà tale e quale) per la Lucania, dove l'accorpamento delle Provincie di Matera e Potenza coincidono con la stessa Regione. Altro caso emblematico è quello del Molise.
Seminerio nel post prima citato sopra rimanda ad un suo scritto relativo a quello che se ne dovrebbe fare delle Provincie (linkato nel suo post), e che io qui vi sintetizzo così: eliminare le cariche elettive e le relative giunte, e utilizzare le Provincie per il governo dei territori con amministratori di nomina regionale.
In sè la proposta avrebbe parecchio senso, se non valutassimo che nel frattempo le frizioni sulle competenze per alcune materie di maggior interesse per i cittadini (sanità, per esempio) delle Regioni con lo Stato nazionale hanno di fatto messo in chiara evidenza che con la moltiplicazione dei centri decisionali non si va da nessuna parte. E che quindi, sarebbe da annullare in primo luogo l'infausta riforma del Titolo V della Costituzione effettuato nell'ultima seduta parlamentare utile nel marzo del 2001 dell'allora maggioranza di centro-sinistra (e del governo Amato allora in carica), la cui unica utilità - in vista della perdita del consenso in favore del centro-destra - fu solo quello di erigere delle mura fra le regioni, permettendo che ogni Regione potesse decidere nelle materie di competenza previste dall'art. 117 e seguenti della Costituzione in maniera autonoma e concorrente con le altre regioni oltre che con le leggi nazionali. Gli stessi accorpamenti delle provincie decisi per decreto dal Governo Monti saranno oggetto di conflitto con le stesse regioni (vedi il Presidente Zaia della Regione Veneto che si è già espresso per la contestazione in Corte Costituzionale del decreto poichè non è materia di deliberazione nazionale!).
La questione, per essere pertinente, dovrebbe rispondere non al fatto se la democrazia costa, ma se quei costi sono efficienti, ovvero se la relazione costo-beneficio è a somma positiva. Se non lo è non significa che la democrazia costa troppo, ma che i costi sostenuti per gli organi democratici periferici non comportano un adeguato beneficio alla collettività ed ai territori. Ed allora è sul funzionamento e l'utilità di questi che dovremmo ragionare, per rendere appunto alla collettività ed ai territori quel costo per la tenuta democratica degli stessi.
Che l'Italia necessiti di un ridisegno della geografia governativa è più che evidente. Che questa riconfigurazione invece venga istruita ed informata dalle utilità di partito (se non dalla vera a propria propaganda da 3 soldi) e non dalla necessaria integrazione territoriale, la dice lunga sul bla bla bla che si sta sprecando sulla questione, e che agli italiani piace un sacco abituati come sono alla chiacchiera salottiera dei talk-show.
L'Italia è stata governata per parecchi anni della sua storia unitaria e anche repubblicana senza che ci fossero le regioni. Le Provincie, istituite ben prima delle Regioni anche perchè coincidenti con le aree delle prefetture, dovrebbero essere organi non decisionali ma amministrativi e organizzativi delle leggi e delle politiche nazionali. Qui, nel post Quiz: qual è la regola d'oro ho già scritto la mia: lasciare la governace dei territori a coloro che lo abitano e lo conoscono. Lo Stato centrale resta l'unico organo produttore di leggi, dove vengono fissati gli obiettivi nazionali di tutela dei diritti di cittadinanza, e poi nei territori provinciali e comunali (con precise funzioni e materie) organi amministrativi le implementano. Quello che si dovrebbe fare è eleggere democraticamente assemblee che non hanno potere deliberativo ma esclusivamente applicativo ed organizzativo, e dove i consiglieri di maggioranza (in numero stabile e fisso) occupano le posizioni di governo delle materie di competenza (amministrazione della sanità e implementazione delle politiche organizzative della salute, per esempio). Queste assemblee sarebbero come dei veri e propri governi locali, dato che la loro funzione sarebbe solo quella di applicare le leggi votate dalle assemblee nazionali ed attuare le politiche di implementazione (lo si applichi, per esempio, alla quanto scritto sopra sulle politiche di risparmio energetico). I consiglieri di minoranza, anch'essi in numero stabile e fisso, avrebbero solo funzioni di controllo dell'operato della maggioranza. Queste assemblee governative (o giunte provinciali democraticamente elette) potrebbero essere elette con le norme per le elezioni dei consigli comunali con più di 15.000 abitanti (cioè, a doppio turno, ma con un premio di maggioranza fisso ed indipendente dal numero dei suffragi ottenuti dalla parte vincente).
Ai Comuni conserverei anche i poteri deliberativi, e quindi la divisione fra consiglieri comunali e giunta comunale, a rafforzamento del legame popolare fra eletti e territorio.
Nel post Distretti produttivi e territorio: il luogo della crisi abbiamo già dimostrato che dove non esistono regioni (ma le provincie godono di autonomia anche decisionale e deliberativa per motivi linguistici etnici e storico-derivanti), le Provincie lavorano al governo della cosa pubblica molto meglio e efficacemente. Invece la moltiplicazione dei poteri decisionali ha ridotto l'Italia in un territorio per nulla integrato, anzi le riforme fin qui introdotte di moltiplicazione dei poteri decisionali hanno ancor più allargato le differenze fra le diverse aree dell'Italia, con un Sud che in misura maggiore rispetto a 20 anni fa ha allargato le sue distanze dal resto d'Italia e non riesce più ad esprimere la sua identità culturale (come invece avveniva, eccome se avveniva, quando non esistevano i festival del cinema regionali!!!)
Per finire, il federalismo non è da intendersi nella maniera barbara
Nessun commento:
Posta un commento