giovedì 25 ottobre 2012

Per un Manifesto della Rete italiana per la Decrescita



Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Puntualizziamo solo che non percepiamo la decrescita come un'utopia, ma invece la concreta possibilità di tenere in piedi e sostenere impresa e lavoro, territorio e cittadinanza, sostenibilità ambientale e coesione sociale.
P.S.
Il documento non è firmato, a segno - come ci scrivono coloro che ce lo inviano -  di no-egoità attiva.

Buona lettura


Lanalisi e gli orizzonti della rete italiana per la Decrescita. Cè un mito che, nellultimo secolo,
ha fondato limmaginario sociale e che, ancora oggi, costituisce il sottofondo comune delle
ideologie politiche moderne, sia di destra che di sinistra: è il mito della crescita. Questa
credenza, cui è connessa lidea di uno sviluppo illimitato, ha portato con sé le parole dordine
della massimizzazione della produzione, dei consumi e dei profitti fino a consegnarci allattuale
religione del mercato globale.

Questo sistema di pensiero si fonda, e al tempo stesso riproduce, una rappresentazione
dellessere umano come homo economicus: un soggetto privo di legami, individualista,
razionale, utilitarista, orientato a massimizzare i propri interessi e ad accrescere la propria
ricchezza come potere monetario, generico, universale; un soggetto casualmente inserito in un
ambiente concepito come mondo esterno da sfruttare e piegare ai propri fini, in una crescita
incessante del proprio potere di disporre delle cose e degli altri esseri viventi.

Si tratta di una visione del mondo che pur essendo fondamentalmente errata, produce effetti
concreti sui comportamenti individuali, con conseguenze disastrose sugli equilibri ecologici,
sociali e politici. Riconosciamo che la scelta delle società occidentali di puntare unilateralmente
sullaccumulazione economica, sulla crescita della produttività e dei consumi, ha prodotto in
Occidente per tutta una fase storica, una maggiore ricchezza materiale. Tuttavia lunilateralità
di questo approccio ha finito col dissolvere i legami sociali e minacciare il collasso degli
ecosistemi. Inoltre il costo di questi traguardi economici è stato pagato non solo dalle classi
lavoratrici e dai soggetti considerati non produttivi, ma anche e soprattutto dai paesi e dalle
popolazioni del resto del globo, costrette ad adattarsi e a modificare i propri sistemi sociali e
produttivi secondo le nostre esigenze economiche e politiche.

Allo stesso tempo la crescita dei redditi è stata possibile attraverso uno sfruttamento
sconsiderato dei sistemi ecologici. Evidenze scientifiche non più ignorabili (caos climatico, picco
del petrolio, perdita di biodiversità) mostrano come lattuale modello di sviluppo sia, già oggi,
insostenibile per la biosfera.

Gli effetti negativi si fanno sentire anche sul piano sociale. Non solo per lemergere di nuove
povertà e per laumento delle disuguaglianze economiche, ma anche per la crescita del disagio,
della precarietà lavorativa ed esistenziale, delle forme di depressione, in una generale sfiducia
verso il futuro che assume anche forme violente e autodistruttive. Da questo punto di vista
dobbiamo imparare a leggere più a fondo il malessere, langoscia, linfelicità che attraversano le
nostre società. Questo modello di sviluppo, fondato sulla crescita, negli ultimi decenni ha
prodotto un aumento del tempo di lavoro, del precariato e dello stress e, insieme, ha via via
eroso e consumato il nostro tempo libero, il tempo delle relazioni, il tempo per noi stessi e per le
cose che ci sono più care.

A livello politico laccumulazione della ricchezza finanziaria, il cui controllo è sempre più nelle
mani di pochi, produce una formidabile concentrazione del potere, svuotando di fatto la
democrazia di autentico significato. Il consumo di risorse globali si sta chiaramente traducendo
in un aumento dei conflitti locali e delle guerre per il controllo delle risorse e, dunque, in una
restrizione degli spazi di democrazia reale nel mondo.

Ma leffetto più perverso di questo sistema è la sua capacità di suscitare una forma di
adattamento alla patologia. Linquinamento, i mutamenti climatici, la crescita del numero degli
esclusi e la loro colpevolizzazione, le guerre per le risorse stanno diventando un paesaggio
consueto a cui ci abituiamo passivamente, senza modificare i nostri comportamenti e gli assetti
di fondo della nostra società. In altre parole la crescita produce dipendenza.

Ad ogni modo questa breve fase di ricchezza e creazione di benessere sta volgendo al suo
termine nello stesso mondo sviluppato. Dalla metà degli Settanta la crescita del Prodotto
Interno Lordo (PIL) non solamente si è ridotta nei paesi più avanzati, ma sopratutto non si
accompagna ad alcun aumento del benessere individuale. Continuare oggi a coltivare lidolatria
del PIL significa non voler aprire gli occhi sullassurdità di unidea di ricchezza che non fa i conti
con I costi ecologici e sociali dello sviluppo.

Posti di fronte alla percezione dei limiti sociali ed ecologici dello sviluppo, del degrado indotto
dalla mercificazione della vita, della crescente conflittualità internazionale attorno alle risorse
naturali crediamo che, per imboccare sentieri davvero alternativi, sia necessario rimettere in
discussione il mito fondativo della nostra società, la crescita. Se per decenni abbiamo
combattuto con tutte le nostre forze contro la povertà, oggi ci rendiamo finalmente conto di
dover invece mettere in discussione la nostra ricchezza, il nostro modello di benessere.
Riscopriamo così un tema antico, e al tempo stesso di grande attualità, il tema dei limiti, o più
propriamente, della giusta misura.

Non siamo ideologicamente contrari ad ogni forma di crescita. Per andare verso una futura
società sostenibile alcuni prodotti e comportamenti dovranno essere ridotti o abbandonati,
mentre altri dovranno essere sostenuti e sviluppati. Ciò a cui ci dichiariamo contrari è piuttosto
lassunzione della crescita come principio fondamentale di orientamento del nostro
immaginario. Riteniamo che la qualità della vita in un pianeta finito - non possa continuare a
fondarsi su una crescita quantitativa generalizzata, ma debba misurarsi sulla capacità di
ri-definire priorità, di ri-pensare qualitativamente tecnologie, istituzioni, lavoro.
In termini generali si tratta di riequilibrare lossessione della produzione con la consapevolezza
delle necessità di riproduzione, di rigenerazione, di cura delle persone, delle relazioni, dei
contesti, dellambiente.

Parlare di decrescita, dice Serge Latouche, è come lanciare una sfida, azzardare una
provocazione. Per un verso si tratta di un atto iconoclasta, per un altro di un nuovo modo di
raccontare il nostro essere qui, ora, nel mondo. Vogliamo provare a mettere in dubbio la divinità
che abbiamo adorato o, anche, le mappe e le cornici simboliche dentro a cui ci siamo mossi per
secoli e che siamo abituati a confondere con la realtà. Ci si può domandare se sia possibile
rimettere in discussione il nostro immaginario, se sia realistico pensare di istituire una società
non improntata ad una crescita fine a se stessa. Noi affermiamo che riconoscere la nostra
interdipendenza ecologica e sociale, la nostra fragilità umana sia lunico vero realismo, lunico
modo per evitare di portare a conclusione un processo di adattamento patologico che,
consumando il fondamento ecologico su cui ci siamo sviluppati, ci porterebbe al collasso.
Non siamo contro la tecnologia, ma per un'altra tecnologia. Sobria, durevole, sostenibile,
conviviale. La capacità di ripensare oggi i nostri assetti tecnologici ci permetterà forse di
moderare il rischio di una decrescita obbligata, o autoritariamente imposta domani. Dobbiamo
mostrarci capaci di rimettere in gioco i nostri valori di fondo e accettare il rischio di immaginare
un dopo-sviluppo, una società di decrescita.

Essere realisti oggi non significa adattarsi ad un sistema che si sta autodistruggendo, ma
disporsi ad assumere decisioni lungimiranti, prendendo come riferimento una prospettiva
temporale e politica più vasta di quella a cui siamo abituati. E per questo occorre ricostruire un
rapporto e un patto tra generazioni: dobbiamo imparare a pensare attraverso la prospettiva di
più generazioni e non solo della nostra. Questo richiama inoltre la necessità di creare nuove
istituzioni nazionali ed internazionali e/o la radicale riforma di quelle esistenti.
Non si tratta di insegnare il comportamento ideale e nemmeno di colpevolizzare i singoli atti
consumistici. La sfida più importante sta piuttosto nella capacità di mettere in campo delle
differenti pratiche sociali, relazionali, simboliche. evocative, più ricche umanamente e
socialmente, alla fin fine più desiderabili.

Dobbiamo affrontare, contemporaneamente. una serie di cambiamenti sottili nel nostro modo di
pensare e di essere. Non si tratta di proporre astratte utopie o pianificazioni tecnocratiche: in un
mondo complesso non possiamo sapere cosa accadrà o quando, ma possiamo senza dubbio
cominciare a muoverci a partire da noi stessi, da dove ci troviamo, dalle nostre relazioni, dal
nostro territorio, dai luoghi che abitiamo, mettendo in moto processi virtuosi. In questo senso ci
proponiamo di reinventare un'altra idea di bellezza che ci porti a vedere le città, il territorio, i
paesaggi, le comunità umane in modo differente.

Vogliamo ritrovare il senso dei beni comuni, dei beni relazionali, sperimentare nuove forme di
condivisione, praticare un consumo sociale, una condivisione più profonda. Abbiamo fiducia
nella possibilità di istituire una società che metta al centro le persone e le relazioni e non le
merci e gli scambi economici e che rivaluti limportanza dei beni immateriali su quelli materiali.
Che valorizzi modi di relazione antiutilitaristici e non strumentali e che sappia dare spazio alla
solidarietà e al bene comune, piuttosto che allinteresse privato. Che valorizzi lambiente
naturale, e le altre forme viventi, per la loro bellezza e dignità e non solo in termini strumentali.

Questo significa anche ricostruire forme di legame con i territori, valorizzando le risorse e i beni
locali, le reti di economia sociale e solidale, rispondendo in primo luogo alle necessità della
comunità locale e dellambiente e non a quelle del mercato. Il territorio è, per noi, la dimensione
appropriata da cui ripartire per costruire una maggiore partecipazione e un reale
decentramento: in altre parole per favorire lautonomia, ossia la possibilità per ciascuno di
definire in modo partecipato norme e regole di governo economico e sociale delle comunità.

Si tratta di una ricerca non conclusa, che ci mette in gioco profondamente e radicalmente.
Sappiamo altresì di essere guaritori malati. In una società di mercato orientata alla crescita
non esiste essere umano che, per quanto assuma un comportamento ascetico, possa
contemplare dallesterno la cultura della merce. Anche se ci priviamo di ogni oggetto, non di
meno restiamo culturalmente prodotti da questa società: solo riconoscendoci impregnati di
questa cultura, possiamo fare il primo passo e cominciare ad essere, finalmente, malati
guaritori. Capaci di prenderci cura della fragilità nostra e di un pianeta che, assieme alle altre
creature, vogliamo continuare ad abitare.

Unutopia dunque? Unutopia forse sì, ma unutopia concreta. Due scenari sembrano infatti
profilarsi allorizzonte, quello di una decrescita reale, necessaria, subita, fatta di razionamenti
imposti ai più poveri e foriera di prevedibili involuzioni autoritarie, come è del resto già accaduto
negli Venti e Trenta del secolo scorso, a seguito dei fallimenti del liberismo ottocentesco, e
quello, invece, di una decrescita condivisa, sostenibile e responsabile che al contrario può
dischiudere grandi opportunità per la democrazia e lautogoverno delle società. Vi chiediamo di
unirvi a noi per aiutarci a fare sì che sia la seconda, e non la prima, lalternativa entro cui possa
confluire il corso della storia del XXI secolo.

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