Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Puntualizziamo solo che non percepiamo la decrescita come un'utopia, ma invece la concreta possibilità di tenere in piedi e sostenere impresa e lavoro, territorio e cittadinanza, sostenibilità ambientale e coesione sociale.
P.S.
Il documento non è firmato, a segno - come ci scrivono coloro che ce lo inviano - di no-egoità attiva.
Buona lettura
L’analisi e gli orizzonti della rete italiana per la
Decrescita. C’è un mito che, nell’ultimo
secolo,
ha fondato l’immaginario sociale e che, ancora oggi, costituisce il
sottofondo comune delle
ideologie
politiche moderne, sia di destra che di sinistra: è il mito della crescita.
Questa
credenza, cui è
connessa l’idea di uno sviluppo illimitato, ha portato
con sé le parole d’ordine
della
massimizzazione della produzione, dei consumi e dei profitti fino a consegnarci
all’attuale
religione del
mercato globale.
Questo sistema
di pensiero si fonda, e al tempo stesso riproduce, una rappresentazione
dell’essere umano come “homo economicus”: un soggetto privo di legami, individualista,
razionale,
utilitarista, orientato a massimizzare i propri interessi e ad accrescere la
propria
ricchezza come
potere monetario, generico, universale; un soggetto casualmente inserito in un
ambiente
concepito come “mondo esterno”
da sfruttare e piegare ai propri fini, in una crescita
incessante del
proprio potere di disporre delle cose e degli altri esseri viventi.
Si tratta di una
visione del mondo che pur essendo fondamentalmente errata, produce effetti
concreti sui
comportamenti individuali, con conseguenze disastrose sugli equilibri
ecologici,
sociali e
politici. Riconosciamo che la scelta delle società occidentali di puntare unilateralmente
sull’accumulazione economica, sulla crescita della produttività e
dei consumi, ha prodotto in
“Occidente” per tutta una fase
storica, una maggiore ricchezza materiale. Tuttavia l’unilateralità
di questo
approccio ha finito col dissolvere i legami sociali e minacciare il collasso
degli
ecosistemi.
Inoltre il costo di questi traguardi economici è stato pagato non solo dalle
classi
lavoratrici e
dai soggetti considerati non produttivi, ma anche e soprattutto dai paesi e
dalle
popolazioni
del resto del globo, costrette ad adattarsi e a modificare i propri sistemi
sociali e
produttivi
secondo le nostre esigenze economiche e politiche.
Allo stesso
tempo la crescita dei redditi è stata possibile attraverso uno sfruttamento
sconsiderato
dei sistemi ecologici. Evidenze scientifiche non più ignorabili (caos
climatico, picco
del petrolio,
perdita di biodiversità) mostrano come l’attuale
modello di sviluppo sia, già oggi,
insostenibile
per la biosfera.
Gli effetti
negativi si fanno sentire anche sul piano sociale. Non solo per l’emergere di nuove
povertà e per
l’aumento delle disuguaglianze economiche, ma anche per
la crescita del disagio,
della
precarietà lavorativa ed esistenziale, delle forme di depressione, in una
generale sfiducia
verso il
futuro che assume anche forme violente e autodistruttive. Da questo punto di
vista
dobbiamo
imparare a leggere più a fondo il malessere, l’angoscia,
l’infelicità che attraversano le
nostre società.
Questo modello di sviluppo, fondato sulla crescita, negli ultimi decenni ha
prodotto un
aumento del tempo di lavoro, del precariato e dello stress e, insieme, ha via
via
eroso e
consumato il nostro tempo libero, il tempo delle relazioni, il tempo per noi
stessi e per le
cose che ci
sono più care.
A livello
politico l’accumulazione della ricchezza finanziaria,
il cui controllo è sempre più nelle
mani di pochi,
produce una formidabile concentrazione del potere, svuotando di fatto la
democrazia di
autentico significato. Il consumo di risorse globali si sta chiaramente
traducendo
in un aumento
dei conflitti locali e delle guerre per il controllo delle risorse e, dunque,
in una
restrizione
degli spazi di democrazia reale nel mondo.
Ma l’effetto più perverso di questo sistema è la sua capacità di
suscitare una forma di
adattamento
alla patologia. L’inquinamento, i mutamenti climatici,
la crescita del numero degli
esclusi e la
loro colpevolizzazione, le guerre per le risorse stanno diventando un paesaggio
consueto a cui
ci abituiamo passivamente, senza modificare i nostri comportamenti e gli
assetti
di fondo della
nostra società. In altre parole la crescita produce dipendenza.
Ad ogni modo
questa breve fase di ricchezza e creazione di benessere sta volgendo al suo
termine nello
stesso mondo “sviluppato”.
Dalla metà degli Settanta la crescita del Prodotto
Interno Lordo
(PIL) non solamente si è ridotta nei paesi più avanzati, ma sopratutto non si
accompagna ad
alcun aumento del benessere individuale. Continuare oggi a coltivare l’idolatria
del PIL
significa non voler aprire gli occhi sull’assurdità di
un’idea di ricchezza che non fa i conti
con I costi
ecologici e sociali dello sviluppo.
Posti di
fronte alla percezione dei limiti sociali ed ecologici dello sviluppo, del
degrado indotto
dalla
mercificazione della vita, della crescente conflittualità internazionale
attorno alle risorse
naturali
crediamo che, per imboccare sentieri davvero alternativi, sia necessario
rimettere in
discussione il
mito fondativo della nostra società, la crescita. Se per decenni abbiamo
combattuto con
tutte le nostre forze contro la povertà, oggi ci rendiamo finalmente conto di
dover invece
mettere in discussione la nostra ricchezza, il nostro modello di benessere.
Riscopriamo
così un tema antico, e al tempo stesso di grande attualità, il tema dei limiti,
o più
propriamente,
della “giusta misura”.
Non siamo
ideologicamente contrari ad ogni forma di crescita. Per andare verso una futura
società
sostenibile alcuni prodotti e comportamenti dovranno essere ridotti o
abbandonati,
mentre altri
dovranno essere sostenuti e sviluppati. Ciò a cui ci dichiariamo contrari è
piuttosto
l’assunzione della crescita come principio fondamentale di
orientamento del nostro
immaginario.
Riteniamo che la qualità della vita – in un pianeta
finito - non possa continuare a
fondarsi su
una crescita quantitativa generalizzata, ma debba misurarsi sulla capacità di
ri-definire
priorità, di ri-pensare qualitativamente tecnologie, istituzioni, lavoro.
In termini
generali si tratta di riequilibrare l’ossessione della
produzione con la consapevolezza
delle necessità
di riproduzione, di rigenerazione, di cura delle persone, delle relazioni, dei
contesti, dell’ambiente.
Parlare di
decrescita, dice Serge Latouche, è come lanciare una sfida, azzardare una
provocazione.
Per un verso si tratta di un atto iconoclasta, per un altro di un nuovo modo di
raccontare il
nostro essere qui, ora, nel mondo. Vogliamo provare a mettere in dubbio la
divinità
che abbiamo
adorato o, anche, le mappe e le cornici simboliche dentro a cui ci siamo mossi
per
secoli e che
siamo abituati a confondere con la realtà. Ci si può domandare se sia possibile
rimettere in
discussione il nostro immaginario, se sia realistico pensare di istituire una
società
non improntata
ad una crescita fine a se stessa. Noi affermiamo che riconoscere la nostra
interdipendenza
ecologica e sociale, la nostra fragilità umana sia l’unico
vero realismo, l’unico
modo per
evitare di portare a conclusione un processo di adattamento patologico che,
consumando il
fondamento ecologico su cui ci siamo sviluppati, ci porterebbe al collasso.
Non siamo
contro la tecnologia, ma per un'altra tecnologia. Sobria, durevole,
sostenibile,
conviviale. La
capacità di ripensare oggi i nostri assetti tecnologici ci permetterà forse di
moderare il
rischio di una decrescita obbligata, o autoritariamente imposta domani.
Dobbiamo
mostrarci
capaci di rimettere in gioco i nostri valori di fondo e accettare il rischio di
immaginare
un
dopo-sviluppo, una società di decrescita.
Essere
realisti oggi non significa adattarsi ad un sistema che si sta
autodistruggendo, ma
disporsi ad
assumere decisioni lungimiranti, prendendo come riferimento una prospettiva
temporale e
politica più vasta di quella a cui siamo abituati. E per questo occorre
ricostruire un
rapporto e un
patto tra generazioni: dobbiamo imparare a pensare attraverso la prospettiva di
più
generazioni e non solo della nostra. Questo richiama inoltre la necessità di creare
nuove
istituzioni
nazionali ed internazionali e/o la radicale riforma di quelle esistenti.
Non si tratta
di insegnare il comportamento ideale e nemmeno di colpevolizzare i singoli atti
consumistici.
La sfida più importante sta piuttosto nella capacità di mettere in campo delle
differenti
pratiche sociali, relazionali, simboliche. evocative, più ricche umanamente e
socialmente,
alla fin fine più desiderabili.
Dobbiamo
affrontare, contemporaneamente. una serie di cambiamenti sottili nel nostro
modo di
pensare e di
essere. Non si tratta di proporre astratte utopie o pianificazioni
tecnocratiche: in un
mondo
complesso non possiamo sapere cosa accadrà o quando, ma possiamo senza dubbio
cominciare a
muoverci a partire da noi stessi, da dove ci troviamo, dalle nostre relazioni,
dal
nostro
territorio, dai luoghi che abitiamo, mettendo in moto processi virtuosi. In
questo senso ci
proponiamo di
reinventare un'altra idea di bellezza che ci porti a vedere le città, il
territorio, i
paesaggi, le
comunità umane in modo differente.
Vogliamo
ritrovare il senso dei beni comuni, dei beni relazionali, sperimentare nuove
forme di
condivisione,
praticare un consumo sociale, una condivisione più profonda. Abbiamo fiducia
nella
possibilità di istituire una società che metta al centro le persone e le
relazioni e non le
merci e gli
scambi economici e che rivaluti l’importanza dei beni
immateriali su quelli materiali.
Che valorizzi
modi di relazione antiutilitaristici e non strumentali e che sappia dare spazio
alla
solidarietà e
al bene comune, piuttosto che all’interesse privato.
Che valorizzi l’ambiente
naturale, e le
altre forme viventi, per la loro bellezza e dignità e non solo in termini
strumentali.
Questo
significa anche ricostruire forme di legame con i territori, valorizzando le
risorse e i beni
locali, le
reti di economia sociale e solidale, rispondendo in primo luogo alle necessità
della
comunità
locale e dell’ambiente e non a quelle del mercato. Il
territorio è, per noi, la dimensione
appropriata da
cui ripartire per costruire una maggiore partecipazione e un reale
decentramento:
in altre parole per favorire l’autonomia, ossia la
possibilità per ciascuno di
definire in
modo partecipato norme e regole di governo economico e sociale delle comunità.
Si tratta di
una ricerca non conclusa, che ci mette in gioco profondamente e radicalmente.
Sappiamo
altresì di essere “guaritori malati”.
In una società di mercato orientata alla crescita
non esiste
essere umano che, per quanto assuma un comportamento ascetico, possa
contemplare
dall’esterno la cultura della merce. Anche se ci
priviamo di ogni oggetto, non di
meno restiamo
culturalmente prodotti da questa società: solo riconoscendoci impregnati di
questa
cultura, possiamo fare il primo passo e cominciare ad essere, finalmente, “malati
guaritori”. Capaci di prenderci cura della fragilità nostra e di un
pianeta che, assieme alle altre
creature,
vogliamo continuare ad abitare.
Un’utopia dunque? Un’utopia forse sì,
ma un’utopia concreta. Due scenari sembrano infatti
profilarsi all’orizzonte, quello di una decrescita reale, necessaria,
subita, fatta di razionamenti
imposti ai più
poveri e foriera di prevedibili involuzioni autoritarie, come è del resto già
accaduto
negli Venti e
Trenta del secolo scorso, a seguito dei fallimenti del liberismo ottocentesco,
e
quello,
invece, di una decrescita condivisa, sostenibile e responsabile che al
contrario può
dischiudere
grandi opportunità per la democrazia e l’autogoverno
delle società. Vi chiediamo di
unirvi a noi
per aiutarci a fare sì che sia la seconda, e non la prima, l’alternativa
entro cui possa
confluire il
corso della storia del XXI secolo.
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