La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia fra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall'ultimo modello d'apparecchio.
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d'ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. (...) Più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l'espellere, l'allontanare da sè, il mondarsi di una ricorrente impurità.
Le città Invisibili - Italo Calvino
La gara di quale fra le città d'Italia "differenzia" di più i rifiuti inscena e riproduce paro paro la dimensione di senso della modernità dell'"utile" e dello "scarto", dell'ordine - sociale - e del rifiuto - umano.
Discriminare, amputare, segregare, recludere, differenziare sono tutte dinamiche proprie della produzione e riproduzione di qualsiasi ordine sociale. La letteratura è vasta sull'argomento, M. Foucault ha abbondantemente scritto sulle sintassi discorsive di assoggettamento che ogni sistema di potere adotta e cripta per la costituzione delle categorie di scarto, istanza questa sempre indesiderata rispetto a quanto invece utile perchè "voluto", per lo meno nella modernità. E lo scarto si smaltisce: in discarica come in manicomio, nell'inceneritore come nel forno crematorio, nella munnizza "differenziata" - si spera per la rimaterializzazione - come nella differenziazione sociale - per la si spera rieducazione penitenziaria.
La modernità irrompe separando ciò che è già appartenente alla ciclicità: il progresso economico non ha spazio per forme vitali non corrispondenti agli standard di redditività e produttività, e queste forme prendono il nome di "esuberi". Lavoratori in esubero, occupazioni e produzioni non più economiche, eccedenze di cui paradossalmente non sappiamo trarne valore e ricacciamo ai confini dell'umanità.
Al pari di un'industria economica, produttiva, utile come per esempio lo è stata quella dell'amianto, ora assistiamo all'incremento dell'industria dello smaltimento che smantella, trasporta, tiene a distanza, decontamina, ciò che era l'utile. Sembra che la più reale e grande produzione della modernità sia soltanto l'eccedente: non abbiamo più spazio, come a Leonia, per depositare i nostri rifiuti, nelle nostre case siamo pieni di rifiuti, acquistiamo rifiuti sempre di più, siamo invasi dai rifiuti... umani. Nelle periferie delle città, nelle piazzole di sosta delle statali, nelle campagne attraversate dagli sterrati, nelle carceri sovraffollate, nelle piazze dei mercati ortofrutticoli a fine giornata dove fra rifiuti "organici" ciò che è umano prova ancora a valorizzarne.
E l'industria dello smaltimento è perfino in difficoltà a smaltire... forse bisogna incenerire tutti gli scarti costituiti dalle protezioni e dagli imballi con i quali proviamo a preservare la nostra fragilità. Identitaria.
Negli oceani vi sono estensioni di spazzatura grandi come la penisola iberica, portati là dalle correnti. Più il progresso tecnologico consente di estendere l'abitabilità comoda a Dubai, più sottrae spazi a forme altrettanto vitali: il progresso economico cerca il massimo utile, e ciò che è diventato diseconomico viene rapidamente dismesso. Estensioni enormi ed abbandonate di ex-pozzi petroliferi, aree cittadine ex-industriali con edifici semi-crollati e superfici da bonificare, o ancor peggio strutture industriali in aree che mai hanno lavorato, campagne una volta utilizzate per il pascolo ed il raccolto delle erbe ed adesso lasciate all'incoltura.
La modernità è la storia dell'abbandono e dell'arretramento di ciò che è "fuori" dal parametrizzato. La modernità è la storia della produzione di spazi vuoti: più siamo pieni di superfluo, più l'estensione degli spazi superflui aumenta, spazi quest'ultimi che provvediamo a riempire con il nostro superfluo che è passato di moda e che dobbiamo smaltire. Alla flessibilità massima in entrata deve poter corrispondere la mobilità massima in uscita: ciò che non è possibile riciclare diventa esubero da smaltire. Un esercito di rifiuti umani da far rientrare se possibile, o da far stazionare negli spazi predisposti dall'assistenzialismo, riserva permanente di lavoro di scarto.
La modernità è la storia di popolazioni che spingono, da questi territori vuoti disposti per lo smaltimento dei rifiuti, sui territori pieni di oggetti "inutili". E' come se queste eccedenze produttive e riproduttive abbandonate ricomparissero come incubi notturni nel sonno della ragione moderna dei "graziati" della modernità. Masse di donne e di uomini, decisamente accompagnati alla dismissione delle attività che fin lì erano il sostentamento e la saldatura sociale e comunitaria dei territori da questi abitati, vengono a chiedere quella parvenza di cittadinanza che hanno intravisto in tutti gli oggetti smaltiti nelle loro mani vuote e accoglienti. Masse di donne e di uomini che bisogna contenere ricacciandoli nel vuoto da cui provengono, in campi protetti e funzionali allo scopo, o nella guerra da cui scappano e che abbiamo predisposto per lo smaltimento degli esuberi umani ivi prodotti. Masse umane di rifiuti, di profughi. Masse sigillate come le discariche. E se non lo sono completamente, allora diventano una possibilità economica per il crimine globalizzato di impoverire ulteriormente quei territori con il pagamento ai clan l'accesso all'"opportunità" migratoria: famiglie che vendono i loro pochi averi per mandare, quando vi riescono, un parente nei territori pieni affinchè un po' ritorni attraverso le western union ed i trasferimenti di denaro. Una storia di espulsioni e di espulsioni. O di transizioni su una barca in mezzo al mare per settimane, che è peggio. E quando si è stati fortunati, una storia di transazioni. Di denaro, dopo che di rifiuti umani "stabilizzati".
L'eccezione conferma la regola, infatti. Perchè ne da sostanza e sanzione. L'esclusione e gli esclusi diventano coloro che insieme a noi delimitano la demarcazione di una sovranità e di un potere. E come membri di questa sovranità proviamo ad essere semplicemente cittadini o prima di tutto anche uomini, e quindi sorge la domanda se i diritti sono in capo ai primi... o ai secondi. Mi chiedo cioè se alla iper-produzione di carte dei diritti che abbiamo assistito ed ancora assistiamo, corrisponda veramente la praticabilità di questo diritti o se oppure la mera enunciazione degli stessi ha titolo solo di astrattezza, dato che coloro che non hanno più nessuna sovranità cui accedere e quindi da esercitare non possono disporre di alcun diritto. Home-less, appunto. Senza casa. Oltretutto quando riescono nei loro intenti, è solo attraverso gli strumenti dell'illegalità invece che della legalità. Quale sovranità, quindi, può rappresentare i diritti di coloro che sono rifiuti?
Il rifiuto è già di per sè illegalità. La produzione di rifiuti è già nuova produzione fuorilegge e di fuorilegge. Rifiutati ed espulsi dagli spazi vitali, oggetti e uomini non potranno che rivestire permanentemente l'abito di ciò che deve sempre certificare l'appartenenza ad una legge, e rispondere permanentemente della corrispondenza alla positività della legge, contrariamente al cittadino e all'utile che risponde alla legge solo quando egli vi si nega apertamente, perchè corrotto o rotto. Il rifiuto non ha identità sua autonoma, non si esercita statuto in capo ad essa ed alle sue facoltà. Il rifiuto non ha utilità e mansioni, è ogni volta anonimo se non interviene la positività della legge ad attribuirne un codice. E la cinghia di trasmissione fra la positività giuridica del rifiuto e la stabilizzazione "integrativa" del riutilizzo è l'operatore eco-umanitario, che ristabilisce la rettitudine morale che l'angoscia produttiva del rifiuto genera.
Lo spazio che il rifiuto può unicamente abitare è proprio di quei luoghi che non sono, che Marc Augè definì NON-Luoghi, ovvero quegli spazi di sur-modernità privi di qualsivoglia identità, appunto anonimi, attraversati da istanze veloci ed impersonali, habitat dell'esilio cosmopolita, della certificazione ottenuta dalla misura dell'equivalenza dello scambio: le stazioni, gli hotel, le periferie e i ghetti delle città e del mondo, il web, il mercato. Tutti luoghi dell'eccedenza, e dove si prova ancora a sperimentare da questa inutilità un'altra possibilità di stratificazione sociale.
Se alla centralità del Luogo è possibile accedervi solo se non si nega lo statuto di cittadinanza che oggi ne deriva dall'acquisizione e dal consumo degli oggetti e delle relazioni inter-individuali, il NON-Luogo può diventare l'ultima possibilità marginale di riscrittura di una forma giuridica di relazione tutta nuova. Ma negativa, appunto. Alla volontarietà dell'accesso nel confine fortificato della comunità mercantile e degli apparati che ne favoriscono la riproduzione, tutto intorno un deserto di oggetti e di abitanti che non riescono a ridefinire economia e politica e che non hanno più alcun scopo oltre quello simbolico e pratico di conservare, nel controllo nella custodia se non nell'annichilimento del dismesso, la fragilità identitaria dell'oggetto feticcio che definisce le nostre fragili identità di consumatori, vieppiù incapaci di auto-realizzare alcunchè in quanto espropriati di ogni maestria ed abilità operativa contingente.
Perchè scandalizzarsi se gli ospedali pubblici resteranno in essere solo per coloro che non potranno permettersi di essere curati, per coloro che vi saranno affidati solo per tutelare e per proteggere i sani dai malati ? Perchè scandalizzarsi se le scuole pubbliche resteranno in essere solo per coloro che non potranno permettersi un'istruzione, per coloro che semplicemente dovranno essere in custodia e controllo (neutralizzati) perchè ritenuti turbolenti ed inetti? Perchè scandalizzarsi se le connessioni urbane e i trasporti pubblici segneranno i confini fra ciò che è fuori e ciò che è dentro? Non è già un po' quello che avviene nelle grandi città fra centro e periferie abitate dai rifiuti importati (i migranti)? Non è già quello che avviene fra alcune aree del Paese, fra pianura e montagna, fra Nord e Sud, fra aree produttive e aree neanche buone alla vocazione turistica? E cosa ne deriverà quando questi NON-Luoghi da spazi di transizione permanente diventeranno spazi di confinamento per via della crisi che si sta abbattendo e che istituzionalizza definitivamente la perdità? Non appare paradossale che l'Italia, che sta sperimentando da 4 anni una riduzione del prodotto interno lordo del 2-3 % annui continua invece a produrre rifiuti in maniera crescente? Non appare paradossale che proprio coloro che han sempre chiesto meno Stato adesso ne domandano in più per poter arginare e occultare i rifiuti umani prodotti dalla deregolamentazione mercatista e dallo spegnimento delle tutele riparazioniste e riabilitative tanto care sia alla sinistra che alla destra ed alla politica del riciclaggio?
O forse non lo è affatto paradossale, poichè la diffusa ed indotta miseria comporta che si consumino prodotti e beni malfatti e dannosi alla salute, che si intensifichino le politiche segregazionistiche e di messa in sicurezza della salute di quanto è pieno, che si evolvano le brillanti funzionalità sistemiche parsonsiane della gestione della tensione e del mantenimento della struttura attraverso le politiche coattive di contenimento (sempre più ermeticamente chiusa) di quanto è rifiutato, scartato. E che come nelle moderne industrie, è sempre più pericoloso e costoso da smaltire.
Anche differenziato.
Anche differenziato.
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