Il 22 marzo è la Giornata
Internazionale dell’Acqua. Una risorsa sempre più scarsa a causa
dell’esplosione demografica, fino a rappresentare un “casus belli” in varie
zone del mondo. Ma il futuro sarà davvero costellato di conflitti per l’acqua?
Per i media sì, per gli esperti no. La soluzione è la cooperazione.
1. Nilo (Egitto ed
Etiopia), Tigri ed Eufrate (Turchia, Siria ed Iraq), Danubio (Ungheria, Rep.
Ceca e Slovacchia), Mekong (Cina e Paesi dell’Indocina), Indo (India e
Pakistan), Colorado (Stati Uniti e Messico), Okawango (Namibia e Botswana),
Canepa (Ecuador e Perù). I
fiumi, da sempre fonte di vita, nei suddetti casi sono anche fonte di discordia. Si
stima che al mondo vi siano oltre 262
bacini fluviali condivisi tra più Stati: 59 in Africa, 52 in
Asia, 73 in Europa, 61 in America Latina e Caraibi, e 17 in Nord America; in
totale 145 Paesi al mondo hanno almeno un bacino in condominio. E, salvo rare
eccezioni, quasi ovunque la domanda è sempre la stessa: a chi appartiene
l’acqua? Non c’è una risposta univoca. L’acqua
non rispetta i confini nazionali, anzi in molti casi li definisce. Quasi sempre le sorgenti di un
grande fiume si trovano in un paese diverso rispetto alla foce, gli affluenti
si diramano in altri stati ancora mentre lo sfruttamento idrico a monte
condiziona enormemente la portata d’acqua a valle. Ciascun Paese, a seconda che si
trovi a monte o a valle di corso d’acqua, accorda la sua preferenza ad un
criterio diverso per definire la questione.In
compenso c’è una letteratura sempre più copiosa sugli episodi di velata o
aperta ostilità che nel corso del tempo hanno visti protagonisti Stati
rivieraschi. Non a caso nel 1995 il
presidente della Banca Mondiale aveva dichiarato che “le
guerre del prossimo secolo saranno combattute per l’acqua”, e
il caso del Nilo (più
volte l’Egitto ha minacciato azioni belliche contro gli Stati a monte) è forse
l’esempio più emblematico delle tensioni che
possono nascere in previsione di una crescente scarsità di tale risorsa. Il
corpus giuridico internazionale si riduce alle Helsinki rules,
redatte dall’Associazione Internazionale di Diritto, che enunciavano il
principio dello sfruttamento equo e razionale delle risorse idriche. Successivamente, nel 1997 l’Onu ha
adottato la “Convention on the Law of the Non-navigational Uses of
International Watercourses”.
2. L’acqua appartiene alla Natura e tocca all’umanità (fino a prova
contraria fa anch’essa parte della natura e non ne è padrona) garantirne l’accesso
e l’utilizzo razionale, nel rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani. Ma
il diritto degli Stati sovrani non e’ dello stesso avviso. Attualmente, solo l’Ecuador ha affermato
nella propria costituzione la tutela dell’ambiente come bene comune. Nessun
altro Stato al mondo ha riconosciuto la tutela della natura come fine ultimo
dell’azione generale, al pari, ad esempio, del diritto al lavoro o alla salute.
Al contrario, l’affermazione dellasovranità sui corsi d’acqua
rimane ancora oggi, nel mondo dell’economia globalizzata, l’espressione piu’
forte e autorevole della supremazia statuale,
intesa come controllo legittimo di un territorio e dello sfruttamento delle sue
risorse. E nessuna risorsa come l’acqua e’ in grado di alimentare tensioni o di
garantire uno sviluppo armonioso tra Paesi e tra comunità di uomini. L’ecopolitica,
ovvero lagovernance geopolitica
e strategica delle risorse naturali, è sempre stata un dossier sensibile e
vulnerabile per la gestione del potere degli Imperi. Anche nell’ultimo tra gli
imperi territoriali in ordine cronologico, l’Unione Sovietica, si sono
registrati numerosi casi di rivolta contro i Soviet locali per la cattiva
gestione delle risorse naturali, in particolare quelle d’acqua. Lo scenario
temuto dagli esperti di “idropolitica”, nuova branca della geopolitica, prevede
un futuro
costellato di guerre per il controllo dell’acqua (cd “idroconflitti”) tali da far impallidire anche quelli per il petrolio, di
cui, paradossalmente, la medesima sopracitata area geografica possiede il 60%
delle risorse mondiali. Non è un caso che si parli già di “acqua
in cambio di pace”. I principali fiumi contesi nell’area sono il Nilo, il
cui bacino idrografico interessa dieci nazioni dell’Africa Orientale; il Giordano,
che attraversa Libano, Siria, Israele, Territori palestinesi; il Tigri e l’Eufrate,
che nascono entrambi in Turchia, attraversano il territorio siriano e si
congiungono in Iraq prima di sfociare nel Golfo Persico con il nome di al-Shat
el-Arab. Con 400 milioni di abitanti, pari al 6% della popolazione mondiale, e
circa 200 miliardi di metri cubi di acqua l’anno, Nordafrica e Medio Oriente
rappresentano la zona piu’ sensibile alla questione acqua a livello planetario:
tenendo presente che in media un milione
di persone necessitano di due miliardi di metri cubi di acqua l’anno, il
fabbisogno idrico della popolazione nordafricano-e’ soddisfatto solo per un
quarto. Si prevede che nel
2030 la popolazione mondiale raggiungerà la preoccupante cifra di 8 miliardi di
individui, di
cui ben 3 miliardi in situazione di grave crisi idrica. E su quasi tutti i
media si alternano file di esperti che già ipotizzano un inasprimento degli
attuali conflitti o addirittura l’accensione di nuovi.
3. In realtà, non tutti
sono dello stesso avviso. Non pochi specialisti rimarcano che la cooperazione
nell’utilizzo delle acque è tutt’altro che impossibile, scansando i minacciosi
proclami di quanti profetizzano un futuro apocalittico. A sostenerlo è
soprattutto la World Water Week,
dal 1991 la massima assise mondiale dove vengono discussi i problemi più
urgenti sull’acqua. Organizzata con cadenza annuale dallo Stockholm International Water Institute,
raduna esperti, tecnici, politici, opinionisti e leader da tutto il mondo per
confrontarsi sullo stato di salute dell’idrosfera. Significativo al riguardo è
stato il dibattito del 2006. il 28 agosto, nella giornata conclusiva
dell’appuntamento, gli esperti riuniti concordarono un netto rifiuto sull’ipotesi di
un avvenire caratterizzato da idroconflitti. La
mancanza d’acqua, fu il pensiero predominante, è un problema dovuto alla
cattiva gestione della risorsa, a cui è possibile rimediare attraverso una
diretta collaborazione tra i paesi interessati. Nel mondo esistono già diversi
accordi bilaterali, multilaterali e transfrontalieri per la condivisione
dell’acqua, ma quasi tutti sono passati sotto silenzio. Tra il 1948 e il 1999, secondo
l’UNESCO, si sono registrate 1.831 “interazioni internazionali”, compresi 507
conflitti, 96 eventi neutrali o non significativi, e 1.228 importanti istanze
di cooperazione, a dimostrazione che nei bacini condivisi la cooperazione è più
probabile del conflitto. Ma allora perché si parla così spesso di “guerre per
l’acqua”? Semplicemente perché un
conflitto (rectius:
l’affermazione di un possibile conflitto), trova spazio sui media molto più
facilmente rispetto ad un accordo. “Le guerre dell’acqua
fanno notizia, gli accordi di cooperazione no”, dichiarò a margine del meeting
Arunabha Ghosh, idrologo, coautore del Rapporto per lo sviluppo umano del 2006
sul tema della gestione dell’acqua. Un altro esperto, il prof. Asit K. Biswas,intervistato dall’IPS
dichiarò che le guerre dell’acqua “Non hanno assolutamente senso,
perché non ci saranno – almeno non per i prossimi 100 anni”.
Biswas spiegò che la vera causa delle carenze idriche nel mondo non è tanto la
scarsità della risorsa quanto la sua cattiva gestione. Ci sono anche casi in
cui le deficienze di gestione diventano oggetto di strumentalizzazione,
soprattutto nei paesi non democratici, dove la colpa della scarsità della scarsità
idrica viene riversata sugli Stati vicini accusandoli apertamente di “rubare”
l’acqua. Emblematici furono gli anatemi
di Mubarak contro l’Etiopia dopo
la riunione di Entebbe dello scorso anno, offerti in pasto al popolo per
distogliere l’attenzione dall’inefficienza della sua amministrazione. Accuse
quasi sempre seguite da minacce di possibili ostilità contro i Paesi vicini per rafforzare il consenso della gente attorno al regime di turno.
Peraltro, in buona parte dei paesi autoritari l’acqua viene offerta
gratuitamente proprio per ragioni di propaganda, incentivando gli sprechi e
peggiorando così la situazione. Ma la realtà dimostra che tendere la mano al proprio vicino si dimostra più profittevole che
impugnare le armi. Con l’augurio che sia il primo passo che porti i governi a
considerare l’acqua come “patrimonio dell’umanità”, da gestire assieme
attraverso logiche solidali e di mutuo sostegno, lontane da qualsiasi interesse
economico o politico. La condivisione delle risorse può essere una strada verso
la pace perché obbliga tutti a lavorare insieme, creando una naturale
interdipendenza tra le nazioni. L’acqua c’è: basterebbe cooperare. Un esempio? Israele e Giordania: dagli anni Settanta i due paesi collaborano
alla gestione del fiume Giordano con reciproco vantaggio,
dando vita ad un sodalizio che non si è interrotto neppure in tempo di guerra.
E che ha rappresentato la base di partenza verso la cooperazione in altri
settori, in particolare quello dei trasporti. Collaborare conviene a tutti.
Perché costruire è sempre meglio che distruggere.
di Luca Troiano, tratto dal blog EcoInchiesta
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