Una delle cose che più mi sconcerta è l'inesorabile lentezza dei mutamenti in atto. Da più di un decennio ho la netta sensazione che tutto sia scritto, ma in pochi siano davvero in grado di leggere e interpretare.
Le dinamiche economiche e sociali sembrano incanalate lungo i solchi tracciati a suo tempo dallo scoppio della bolla del dot com, che alla fine degli anni ’90 segnò il tramonto rovinoso della new economy, una breve stagione di ingiustificata euforia finanziaria che rifletteva l’utopia transumanista di una tecnologia risolutiva per le sorti del Mondo.
Il “villaggio globale” teorizzato dal sociologo canadese Marshall Mc Luhan nel 1968 sembrava prendere forma definitiva (e intrinsecamente positiva), grazie all’idea di un Web orizzontale, nuova frontiera di uguaglianza e cooperazione capace di riempire almeno in parte l’immenso vuoto ideologico lasciato dallo sgretolamento delle dottrine socialiste. Ma questa nuova illusione lasciò ben presto il posto a una concezione verticale della Rete, dove poche grandi compagnie detengono un dominio assoluto e insindacabile.
Un processo che oggi è emblematicamente sintetizzato nel mercato delle App, centinaia di migliaia di applicazioni a pagamento che sfruttano la Rete ma sono cosa ben diversa dal Web, almeno nella sua accezione originaria. Il “villaggio globale” teorizzato dal sociologo canadese Marshall Mc Luhan nel 1968 sembrava prendere forma definitiva (e intrinsecamente positiva), grazie all’idea di un Web orizzontale, nuova frontiera di uguaglianza e cooperazione capace di riempire almeno in parte l’immenso vuoto ideologico lasciato dallo sgretolamento delle dottrine socialiste. Ma questa nuova illusione lasciò ben presto il posto a una concezione verticale della Rete, dove poche grandi compagnie detengono un dominio assoluto e insindacabile.
Nel 2010 l’edizione americana di Wired, rivista considerata la bibbia di internet, titolò in copertina: Il Web è morto. La tesi, chiaramente provocatoria, partiva dalla constatazione statistica che in dieci anni la percentuale di banda impegnata per la navigazione “classica” su internet era crollata, a fronte di un aumento esponenziale dell’uso di software fortemente specializzati, come quelli per il file sharing o per la fruizione dei video.
In apertura dell’articolo, il direttore di Wired, Chris Anderson, scriveva: «Ti svegli e controlli la posta sull’IPad, con un’applicazione. Mentre fai colazione ti fai un giro su Facebook, su Twitter e sul New York Times, e sono altre tre applicazioni. Mentre vai in ufficio, ascolti un podcast dal tuo smartphone. Un’altra applicazione. Al lavoro, leggi i feed RSS e parli con i tuoi contatti su Skype. Altre applicazioni. Alla fine della giornata, quando sei di nuovo a casa, ascolti musica su Pandora, giochi con la Xbox, guardi un film in streaming su Netflix. Hai passato l’intera giornata su internet, ma non sul Web. E non sei il solo».
A metà degli anni ’90 la quotazione in borsa di Netscape, il primo browser globalmente diffuso, segnò l’inizio della fine, perché i mercati finanziari presero finalmente coscienza della potenzialità economiche della rete e cominciarono a colonizzare questa nuova terra di frontiera sino ad allora abitata prevalentemente da sparute tribù di nativi digitali, in senso cronologico e non anagrafico.
Internet divenne allora un fenomeno di massa, economico prima ancora che mediatico, con milioni di persone che si trasformarono in altrettanti trader della domenica, puntando quotidianamente i propri risparmi su improbabili aziende, molte delle quali non avevano neppure sede e dipendenti, ma soltanto termini che evocavano internet nella ragione sociale. Tanto bastava ad attirare fiumi di denaro che ben presto però si inabissarono nei percorsi carsici dell’alta finanza, lasciando tutti gli altri con un pugno di carta straccia in mano.
È da allora che, a mio parere, tutto ha (ri)cominciato a scorrere sotto traccia, sfuggendo al libero arbitrio dei popoli e creando un gap sempre più evidente tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.
Simon
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