foto di Bruce Gilden |
Congelamento degli aumenti salariali. Conferma del pareggio
di bilancio nella Costituzione e quindi di 45 miliardi di tagli per i prossimi
5 anni alla spesa pubblica. Creazione del commissario europeo al rigore di
bilancio, uno zar che avrà il potere eccezionale di controllare e imporre
misure agli stati che sforano il pareggio di bilancio dal 2013 in poi. Questa
la cornice generale in cui il PD si appresta ad avviare la politica economica
del prossimo governo di centro-sinistra con l'appoggio dei centristi di Monti.
Tre comandamenti che non verranno contestati dal centro o
dalla destra, ma certamente dalle ali non silenziate del populismo di destra o
di sinistra. Tutto proseguirà come sempre. Dunque, niente riforma dell'articolo
18 già riformato dalla riforma Fornero. Impegno a mantenere le politiche
recessive che, secondo il bollettino della banca d'Italia del 18 gennaio
2013 abbatterà il Pil al ritmo di un punto percentuale all'anno. Un film
dell'orrore, ma qualcuno cerca di fare sorridere gli spettatori, promettendo
incentivi alla produttività delle imprese e qualche lenitivo sulla precarietà,
ma senza sbilanciarsi.
Per non far spaventare l'Europa e le imprese: come
reagirebbero all'annuncio che il primo atto del nuovo governo sarà quello di
abolire 46 forme di contratti precari? E lo Stato, parliamo dello Stato
italiano, il più grande sfruttatore di precariato al mondo, all'incirca 200
mila persone nella scuola, e poi nella sanità, non ne parliamo negli enti
locali. Abolire il precariato? Questo è ilnefas, il non-dicibile in
Italia. Perché tutto funziona sul precariato. Meglio non saperlo. E quindi
non farlo. Ma i Tiresia abbondano e annunciano cupi presagi.
Non sorprenderà, invece, apprendere che la riforma Fornero
sarà riformata. Tutti, nessuno escluso, vogliono cambiare la legge approvata
solo sette mesi fa. E per quale motivo, di grazia? Dopo averla approvata sotto
la minaccia terroristica di un fumoso Consiglio europeo del 28 giugno 2012,
perché cambiarla di nuovo? Ma perché la credibilità del «Paese» non si è mai
giocata sull'approvazione di una delle più approssimative e dilettantesche
operazioni legislative che la storia della Repubblica ricordi. La riforma
Fornero è stata neutralizzata, ma non ancora abolita, già dal governo Monti
attraverso una serie di piccole decisioni di sostanza.
C'è una
circolare del 28 dicembre 2012 con la quale il ministero del
welfare ha rimandato l'applicazione della riforma sulla famosa questione delle
“false partite Iva” a metà 2014. E ha escluso l'assunzione dei monocomittenti
iscritti agli ordini professionale (avvocati, architetti, ingegneri o addetti
ai media), ma obbligherà
l'assunzione solo di commessi, estetiste, muratori e
autotrasportatori. La “strana maggioranza”, liberalizzatrice e riformista, si
parva licet, è arretrata davanti al ringhio degli ordini
professionali, ma ha lasciato campo libero allo schiavismo nei lavori meno
“nobili”. Il risultato? C'è un governo che ha autorizzato il lavoro nero nelle
professioni “non nobili”. Un chiaro esempio della credibilità riformatrice di
quella che abbiamo battezzato la
riforma Fornero-Treu-Damiano.
Un'allucinazione durata 400 giorni e sostenuta da Pd, Pdl e
Udc? No, questa è la normalità del governo del lavoro precario, indipendente o
autonomo in Italia. La crisi di credibilità che il governo Monti avrebbe dovuto
risolvere era semplicemente falsa, se oggi tutti i suoi poco credibili alfieri
vogliono credibilmente cambiare la “riforma” Fornero. Ma per gli immaginari
riformisti delle riforme che si sono scatenati alla ricerca dell'equazione
impossibile costerà fatica ammettere che oggi, come nei prossimi anni, il
problema non è come dare nuove regole ai rapporti di lavoro, ma come
garantire la tenuta sociale di un Paese che continuerà a perdere posti di
lavoro.
Così, se da una parte sembra ridicolo che una legge
dell'estate scorsa, vanto del Governo dei tecnici, retoricamente titolata
“Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva
di crescita”, sia ora oggetto di fantasmatiche riforme immaginarie da parte di
tutti (da Ichino allo stesso Monti; da Bombassei a Dell'Aringa; per citarne
solo alcuni), dall'altra genera rabbia la leggerezza con la quale si snobba una
condizione di sofferenza e di impoverimento di tutte le forme del lavoro e
ancor più nella sua assenza.
L'effetto di impoverimento del lavoro – quando c'è – e di
reale povertà e assenza di soluzioni che permettano un'esistenza dignitosa per
se stessi e per la propria famiglia – quando il lavoro non c'è – sono il
portato forse più devastante di questi primi quattro anni di crisi e si
stagliano minacciosi sui prossimi. Del resto era lo stesso “Governo dei
tecnici”, nel Rapporto
sulle politiche contro l'esclusione sociale licenziato sempre la
scorsa estate dalla Commissione di Indagine sull’Esclusione
Sociale (CIES) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a
sostenere l'elevata incidenza delle condizioni di disoccupazione e
precarietà del lavoro nel rischio povertà ed esclusione sociale.
Soprattutto si notava l'esclusione di ammortizzatori sociali
per i lavoratori precari e l'aumento della disoccupazione di lunga durata,
notando gli effetti nefasti del «sottoutilizzo delle forze di lavoro» durante
la crisi, che ha portato «il bacino degli inattivi in età
lavorativa a circa 15 milioni di persone», cui si aggiunge
l'ulteriore incremento del «lavoro irregolare nell'economia sommersa» che
assume «dimensioni rilevanti: secondo l’Istat, i dipendenti irregolari sono 2,3
milioni, a cui si possono sommare 657 mila lavoratori autonomi». Se a
questo quadro aggiungiamo la questione
NEET e le difficoltà degli
over-50 espulsi dal mercato del lavoro siamo dinanzi a un vero e
proprio default sociale, che conferma un dato noto dal 1997, anno
in cui venne approvata la prima legge sulla precarietà, il «pacchetto Treu».
La riforma delle norme del lavoro rappresenta il poligono di
tiro nel quale si esercitano tutti i cecchini che vogliono colpire al cuore il
consenso popolare. Ma quel consenso non esiste. Soprattutto perché quasi
nessuno sembra, credibilmente, insistere sull'urgenza di una misura universale
di tutela sociale, praticabile a partire da una razionalizzazione delle spese
esistenti nella frammentaria e discriminante articolazione degli attuali
ammortizzatori sociali (che secondo alcuni osservatori è di circa 14,5
miliardi di euro), per giungere ai circa 20 miliardi di euronecessari
a prevedere un reddito minimo garantito di circa 600 euro al
mese per i circa 8,3 milioni di persone (2 milioni 734 mila famiglie)
che vivono in condizione di povertà relativa (BIN
Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile).
Ma la real politik non permette di rispondere a questi
problemi assai concreti. Avanti con il rigore e gli incentivi alle imprese. Per
un'Italia giusta.
E per cosa se no?
Pubblicato su Micromega e tratto da N.O.I. direttamente dal blog La Furia dei Cervelli, che trovate nel nostro blogroll, e il cui link al post originale è questo (clicca qui).
Su N.O.I. abbiamo scritto a riguardo a suo tempo su le partite iva, i problemi degli over-50 (vedi nell'elenco link il sito atdal-over 40, e il resto prodotto (finalmente lo si dice chiaramente) dall'ex sindacalista CISL veneziano Treu, passando per Maroni, poi Damiano, poi Sacconi e per finire l'amarena sulla torta dal nome Fornero.
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