Ripubblichiamo uno scritto del 21 Novembre 2012, immaginiamo steso da Maurizio Pallante, su quelle che possono essere le opportunità di creazione di lavoro per i giovani e gli espulsi dalle attività produttive per la crisi in corso.
Maurizio Pallante è uno dei fondatori del Movimento della Decrescita Felice.
Per la verità, questo termine, coniato da Serge Latouchè crediamo sia poco esplicativo di quello che s'intende dire. Forse l'imperativo era quello di distanziarsi il più possibile, anche sul piano del vocabolario, con l'impostazione liberista e/o progressista della filosofia economica della crescita (che riguarda sia la destra che la sinistra), quella che oggi procura negli USA 350.000 morti all'anno causati dall'obesità e che è fondata sui consumi insostenibili, la produzione massiccia di rifiuti, lo sfruttamento umano, la devastazione ambientale.
Nella lettura troverete argomentazioni che i più assidui lettori di questo blog avranno letto in modalità più articolate ed estese in diversi post, dato che la nostra principale attenzione è rivolta al mondo dell'impresa e del lavoro, attenzione che potrete leggere da Voi a fine dello scritto di Pallante. Ci si riconosce, appunto, dai vocabolari: lavoro, piccola e media impresa, diritti di cittadinanza, ambiente, efficienza energetica, innovazione tecnologica, welfare sociale, territorio.
Tutto il resto è ragioneria della coperta sempre più corta, che tutti tirano e che adesso si sta strappando.
Buona lettura.
La crescita è la causa della crisi (potrebbe esserne la
soluzione?)
In un sistema economico fondato sulla crescita della
produzione di merci la concorrenza costringe le aziende ad aumentare la
produttività adottando tecnologie sempre più performanti, che consentono di
produrre in una unità di tempo quantità sempre maggiori di merci con un numero
sempre minore di addetti. L’effetto congiunto degli aumenti di produttività e
della riduzione dell’incidenza del lavoro sul valore aggiunto comporta un
progressivo aumento dell’offerta e una progressiva diminuzione della domanda di
merci. Nei paesi di più antica industrializzazione questo squilibrio è stato
accentuato dalla globalizzazione, che ha permesso alle aziende di delocalizzare
le loro produzioni nei paesi dove il costo della mano d’opera è minore, per cui
il numero degli occupati in questi paesi è diminuito e nei paesi in cui le
delocalizzazioni lo hanno fatto crescere le retribuzioni sono così basse che
non compensano la perdita complessiva del potere d’acquisto.
Il debito è l’altra faccia della medaglia della crescita
Lo strumento per compensare lo squilibrio tra incremento
dell’offerta e riduzione della domanda insito nelle economie finalizzate alla
crescita è stato il ricorso al debito, pubblico e privato, dello Stato e delle
sue articolazioni periferiche, delle famiglie e delle aziende. La somma dei
debiti pubblici e privati nei paesi industrializzati ha raggiunto circa il 200
per cento del prodotto interno lordo. L’incremento del debito è stato superiore
alla crescita del prodotto interno lordo perché sul suo ammontare gravano gli
interessi composti e i tassi d’interesse aumentano con l’aumentare del debito.
Inoltre la sua espansione non ha limiti se non nell’emissione di carta moneta,
la cui convertibilità con l’oro è stata sospesa nel 1971 e dipende soltanto
dalla volontà politica, mentre la crescita della produzione di merci trova
limiti oggettivi nella disponibilità delle risorse, rinnovabili e non
rinnovabili, da trasformare in merci, e nella capacità dei cicli bio-chimici di
metabolizzare gli scarti della produzione, che è stata ampiamente superata
soprattutto in relazione all’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica
da parte della fotosintesi clorofilliana.
Le misure tradizionali di politica economica non
funzionano più.
I tentativi di rilanciare la crescita economica effettuati
da cinque anni a questa parte non hanno dato i risultati sperati. Secondo la
visione ottimistica dell’attuale primo ministro tedesco, signora Merkel, per
superare la crisi ne occorreranno almeno altrettanti. Il fatto è che la domanda
è sostenuta in maniera determinante dal debito, per cui le misure di politica
economica finalizzate a ridurlo deprimono la domanda e aggravano la crisi,
mentre le misure finalizzate a rilanciare la domanda attraverso la crescita dei
consumi lo accrescono.
Per superare questa impasse, senza peraltro
ottenere i risultati sperati, le misure di politica economica adottate sino ad
ora nei paesi industrializzati sono state finalizzate a:
1. ridurre i debiti scaricandone i costi sulle classi
sociali meno abbienti e sui ceti medi, mediante drastici tagli alla spesa
pubblica per i servizi sociali, riduzioni delle tutele sindacali dei
lavoratori, licenziamenti e blocchi delle assunzioni che hanno penalizzato
soprattutto le fasce giovanili, inasprimenti della fiscalità indiretta,
cessione ai privati della gestione dei beni pubblici;
2. rilanciare la crescita finanziando col denaro pubblico
grandi opere infrastrutturali, realizzabili soltanto da grandi aziende
multinazionali.
Inasprimento della lotta di classe dei ricchi contro i
poveri.
Questa strategia, peraltro fallimentare, per superare la
crisi, è sostenuta da un blocco di potere costituito da tutti i partiti
politici, di destra e di sinistra, che hanno la loro matrice culturale
nell’ideologia della crescita di derivazione ottocentesca e novecentesca, dalle
industrie multinazionali e dalla grande finanza, con un progressivo disprezzo
delle regole democratiche a cui pure dicono di ispirarsi. Nei partiti politici
di destra e di sinistra, le differenze sui criteri di distribuzione della
ricchezza monetaria prodotta dalla crescita della produzione di merci sono
sempre meno significative, rispetto alla sostanziale convergenza sulla scelta
di scaricare sulle classi popolari e sul ceto medio i costi del rientro dal
debito pubblico e di rilanciare la crescita attraverso la mercificazione dei
beni comuni e un programma di grandi opere.
Le posizioni neo-keynesiane.
All’interno dell’obbiettivo comune di rilanciare la crescita
l’unica differenza politica sulle strategie per raggiungerlo si verifica con
alcune frange della sinistra, le correnti new labour e
l’estrema sinistra, che sostengono la necessità di
1. ridimensionare le misure restrittive finalizzate a
ridurre il debito pubblico perché hanno un effetto depressivo e, quindi, in realtà
lo aggravano riducendo le entrate fiscali;
2. realizzare una più equa redistribuzione del reddito alle
classi meno abbienti perché è l’unico modo per rilanciare i consumi;
3. aumentare il prelievo fiscale alle classi più ricche per
sostenere gli investimenti, con un’attenzione particolare alla cosiddetta green economy;
4. incrementare la spesa pubblica per creare occupazione nei
servizi sociali a vantaggio delle categorie sociali più deboli.
Un’incredibile rimozione collettiva.
Un’incredibile rimozione collettiva induce i sostenitori
della crescita, a qualsiasi corrente di pensiero appartengano, a ignorare i
legami delle attività produttive con i contesti ambientali da cui prelevano le
risorse da trasformare in merci e in cui scaricano le emissioni dei processi
produttivi e gli oggetti che vengono dismessi al termine della loro vita utile.
Nella fase storica attuale la crescita non solo è la causa di una crisi
economica da cui non ci si può illudere di uscire ripristinando le condizioni
precedenti ad essa, perché non può non accentuare progressivamente lo
squilibrio tra gli incrementi dell’offerta e la diminuzione della domanda di
merci, ma anche di una gravissima crisi ambientale caratterizzata da un
prelievo di risorse riproducibili superiore alla loro capacità di rigenerazione
annua e da un consumo di risorse non riproducibili che ha ridotto
pericolosamente gli stock di alcune di esse, in particolare le fonti fossili,
dove il rapporto tra l’energia ricavata e l’energia consumata per ricavarla è
crollato (l’e.r.o.e.i., Energy Returned On Energy Invested, del
petrolio, che fino al 1940 era superiore a 100, nel 1984 era sceso a 8), mentre
al contempo l’aumento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera ha raggiunto una
soglia pericolosa per la sopravvivenza stessa della specie umana.
Investire nelle tecnologie che riducono gli sprechi di
energia e risorse naturali.
La scelta strategica per uscire dalla crisi aprendo una fase
più avanzata nella storia dell’umanità è lo sviluppo delle tecnologie che
riducono gli sprechi delle risorse naturali aumentando l’efficienza con cui si
usano. Nei paesi industriali avanzati gli usi finali dell’energia sono
costituiti al 70 per cento da sprechi. Se la politica industriale venisse
finalizzata a ridurli, si aprirebbero ampi spazi per un’occupazione utile,
i cui costi sarebbero pagati dai risparmi economici conseguenti ai risparmi
energetici senza aggravare i debiti pubblici e privati. Lo sviluppo di queste
tecnologie consentirebbe inoltre di attenuare le crisi internazionali per il
controllo delle fonti fossili e la crisi climatica causata dalle emissioni di
CO2.
La decrescita selettiva della produzione di merci è
alternativa sia all’austerità, sia al consumismo
irresponsabile.
Il rilancio del consumismo a debito, che comporta un
aggravamento della crisi ambientale, non è l’unica alternativa all’austerità,
che comporta un aumento della disoccupazione, privando del futuro le giovani
generazioni e causando peggioramenti alle condizioni di vita delle classi sociali
più deboli. L’austerità non è l’unica alternativa all’aumento del debito
pubblico. La decrescita selettiva della produzione di merci, finalizzata alla
riduzione del consumo di materia e energia a parità di servizi, è alternativa
sia alle politiche di austerità, che aggravano la recessione, sia alle misure
espansive di tipo keynesiano basate sul rilancio del consumismo a debito, che
mettono in luce solo il collegamento tra più equa redistribuzione della
ricchezza monetaria, crescita della domanda e crescita della produzione di
merci, ma espungono dal loro orizzonte mentale la correlazione tra l’aumento
del debito monetario, finalizzato a rilanciare produzione e consumi, e
l’aumento del debito nei confronti della natura che ne consegue.
Una politica economica e industriale finalizzata alla
decrescita selettiva della produzione di merci.
La causa scatenante della crisi, a partire dalla crisi dei
mutui subprime che le hanno dato avvio nel 2007 negli Stati
Uniti, è stato il numero crescente di case invendute. Lo stesso problema è
particolarmente acuto in Spagna, in Irlanda, in Italia. Questa situazione per
la prima volta dal dopoguerra ha rovesciato uno dei capisaldi dell’ideologia
della crescita, sintetizzato in Francia dal detto Quand le bâtiment va,
tout va. Oggi l’unico modo di rilanciare il settore dell’edilizia non è la
costruzione di nuovi edifici che non troverebbero una domanda, ma la
ristrutturazione, principalmente energetica, degli edifici esistenti, affinché
riducano almeno di due terzi i loro consumi riducendo le dispersioni termiche.
L’unico modo di affrontare la crisi dell’industria automobilistica non è
l’illusione di rilanciare la domanda con l’offerta di nuovi modelli, dal
momento che dagli anni sessanta ad oggi le automobili circolanti in Italia sono
passate da meno di 2 milioni a oltre 35 milioni, ma implementare la produzione
di microcogeneratori, che raddoppiano l’efficienza nell’uso dell’energia,
ovvero dimezzano i consumi a parità di servizi energetici. L’unico modo di
ridurre i costi dei generi alimentari (aumentati del 170 per cento negli ultimi
10 anni a causa dell’aumento dei prezzi delle fonti fossili, che incidono non
solo sui trasporti, ma in tutte le fasi produttive dell’agricoltura chimica) è
l’incentivazione dell’agricoltura biologica, stagionale, di prossimità, con
vendita diretta dai produttori agli acquirenti organizzati nei gruppi
d’acquisto solidale, che richiede un maggior numero di occupati, riduce
l’impatto ambientale e il consumo di fonti fossili, contribuisce a ridurre i
dissesti idrogeologici, ammortizza i maggiori costi di produzione bypassando le
intermediazioni commerciali.
Il blocco di potere cementato dall’ideologia della
crescita.
La classe dirigente dei paesi industrializzati è composta
dall’alleanza strategica tra tre soggetti sociali cementati dall’ideologia
della crescita: i partiti politici di destra e di sinistra che hanno le loro
radici nella cultura industrialista e produttivista maturata nel corso
dell’ottocento e del novecento, le grandi aziende multinazionali prevalse nel
corso del novecento dalla competizione con le loro concorrenti, e il comparto
specifico dell’alleanza tra questi due soggetti costituito dal complesso
politico-militare. Il fulcro su cui questa classe dirigente fa leva per far
ripartire la crescita sono le grandi opere pubbliche, che possono essere
commissionate solo dallo Stato centrale, o dalle sue articolazioni periferiche,
e possono essere realizzate solo da aziende multinazionali. Ma la crescita
economica richiede consumi crescenti di energia e materie prime che si possono
ottenere solo attraverso il controllo militare delle aree del mondo in cui si
trovano. I sistemi d’arma necessari per esercitare questo controllo possono
essere commissionati solo dai partiti politici che li ritengono necessari per
garantire l’incremento dei consumi energetici, e possono essere prodotti solo
da aziende multinazionali. Non a caso le politiche restrittive adottate per
ridurre i debiti pubblici non hanno scalfito i privilegi della casta politica,
non hanno tagliato i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, né le
commesse all’industria militare.
Una nuova cultura per una nuova alleanza sociale.
Una politica economica finalizzata alla decrescita selettiva
della produzione di merci e del consumo di energia e materia mediante la
riduzione degli sprechi, può essere promossa solo da forze politiche non
condizionate dai vincoli dell’ideologia della crescita di origine ottocentesca
e novecentesca e può essere realizzata solo da piccole aziende, professionisti
e artigiani radicati nei territori in cui operano, in grado di effettuare una
serie di interventi puntuali, anche di portata limitata. Il settore prioritario
in cui occorre intervenire è la riduzione degli sprechi e delle inefficienze
negli usi energetici, in particolare negli edifici, che assorbono quasi la metà
dei consumi energetici globali e dove si possono ottenere, a parità di
benessere, riduzioni superiori al 70 per cento. Una politica industriale
finalizzata alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente
offrirebbe opportunità di lavoro non altrimenti ottenibili a una miriade di
operatori del settore e consentirebbe di accrescere l’occupazione in attività
qualificate.
Avviare un confronto tra i potenziali sostenitori di un
progetto politico finalizzato a superare la crisi mediante una decrescita
selettiva della produzione di merci.
Una politica economica e industriale finalizzata alla
decrescita selettiva della produzione di merci si può realizzare soltanto se si
aggrega un’alleanza di forze politiche, sociali, imprenditoriali e
professionali consapevoli del contributo che possono apportarvi con la loro
cultura, le loro scelte comportamentali, il loro impegno sociale o ambientale,
le loro competenze tecniche, la legittima esigenza di utilizzare a pieno i loro
impianti tecnologici per produrre e dare lavoro. I soggetti sociali
potenzialmente interessati a collaborare a un progetto di questo genere, sono i
seguenti.
1. Le forze politiche non catalogabili negli schieramenti di
destra e sinistra in cui si suddividono i partiti accomunati dall’ideologia
della crescita, già presenti in alcune istituzioni. Un esempio emblematico si è
realizzato nel Comune di Avigliana, in Val di Susa, dove alle elezioni
amministrative del 2012 si sono presentate due liste. Una composta
dall’alleanza tra il principale partito di centro destra e il principale
partito di centro sinistra, accomunati da un programma a favore della
realizzazione del treno ad alta velocità con la motivazione che darebbe un impulso
alla crescita e all’occupazione.[1] Nella coalizione antagonista, che ha vinto le elezioni,
sono confluiti i rappresentanti dei movimenti contrari al TAV a causa della sua
inutilità e dei suoi costi, che proponevano in alternativa di indirizzare gli
investimenti sullo sviluppo di attività lavorative a tutela del territorio e a
ripristino delle devastazioni che ha già subito. Accanto ad alcune di queste
esperienze locali è anche in corso di realizzazione un progetto di aggregazione
politica nazionale che sta ricevendo una quantità di consensi superiore a ogni
altro partito storico, sebbene la sua fisionomia sia ancora caratterizzata
prevalentemente dalla contrapposizione al sistema di potere incarnato da quei
partiti più che da un progetto di futuro. Ma le fasi di passaggio di epoca
storica non sono mai lineari. I progetti di rottura e ricostruzione si
chiariscono progressivamente e solo se sono in grado di catalizzare e far
interagire le altre forze che al di fuori delle istituzioni, nei contesti
sociali più disparati e nelle attività produttive, realizzano tasselli di un
progetto con caratteristiche analoghe.
2. Le piccole aziende e gli artigiani, che attualmente
lavorano per lo più nell’indotto delle grandi aziende multinazionali, o come
contoterzisti. Costoro non soltanto non vedono valorizzato socialmente il loro
ruolo produttivo, ma sono costretti a operare in condizioni sempre più precarie
e con utili sempre più ridotti perché in questo modo le aziende multinazionali
per cui lavorano riescono ridurre i costi di produzione e sostenere la
concorrenza sui mercati globali. La liberazione delle piccole aziende e degli
artigiani, che costituiscono il 99 per cento del’industria italiana, da questo
ruolo subordinato all’interno dell’economia della crescita può avvenire solo se
si ricrea una rete di rapporti commerciali diretti con gli acquirenti che
vivono nelle realtà locali in cui esse operano. In questo quadro acquistano
un’importanza strategica i professionisti, che costituiscono il canale di
comunicazione tra produttori e acquirenti. E un’importanza altrettanto
strategica hanno le piccole aziende agricole biologiche di prossimità che sono
in grado di garantire la sovranità alimentare a differenza delle grandi aziende
multinazionali del settore agro-alimentare, che agiscono sul mercato mondiale e
sono del tutto indifferenti alle realtà locali in cui operano.
3. I settori del sindacato che non si sono piegati al
ricatto di accettare la riduzione delle tutele, della dignità, della salute e
dei salari dei lavoratori per consentire alle aziende multinazionali di
sostenere la concorrenza sui mercati mondiali riducendo i costi del lavoro
anziché i costi degli sprechi nell’uso delle risorse, o nella patetica
illusione di attirare gli investimenti stranieri attualmente indirizzati nei
paesi dove il costo della manodopera è molto inferiore, gli orari di lavoro
molto più lunghi e non esistono le garanzie conquistare dai lavoratori europei
nei decenni passati.
4. Le molteplici forme associative in cui si esprime il
bisogno di contribuire al bene comune da parte dei settori più sensibili della
popolazione, che non trovano nelle strutture dei partiti esistenti i luoghi in
cui esprimere la loro cittadinanza attiva: gruppi di acquisto solidale, banche
del tempo, comitati per la tutela del paesaggio, movimenti contro la
realizzazione di grandi opere devastanti per i territori in cui abitano,
associazioni di volontariato sociale e culturale, associazioni volontarie di
comuni impegnati nella tutela del loro territorio e della qualità della vita
dei suoi abitanti, gruppi dell’associazionismo cattolico e di altre professioni
religiose, aziende operanti nel terzo settore, associazioni ambientaliste e di
promozione sociale, comitati di genitori nelle scuole, reti dell’economia
solidale e della finanza etica ecc.
Il Movimento per la decrescita felice invita questi soggetti
a verificare se, sulla base delle riflessioni qui riassunte, sia possibile
realizzare momenti di confronto comuni per collaborare ad affrontare una crisi,
che non è solo economica e ambientale, ma una vera e propria crisi di civiltà.
Movimento per la Decrescita Felice
[1] Secondo il Ministero dello sviluppo economico la
costruzione del TAV costerà 8 miliardi e 200 milioni di euro (dati sottostimati
almeno della metà) e darà lavoro a 6000 occupati: 2000 diretti e 4000
indiretti, pari a 0,73 occupati per milione investito. Secondo il quotidiano
della Confindustria, 1 milione di euro investito nelle fonti rinnovabili crea
da 3 a 4 posti di lavoro, mentre in progetti di efficienza energetica ne genera
13. Il sole 24 ore, 13 febbraio 2012.
fonte: http://decrescitafelice.it/2012/11/proposta-di-confronto-su-un-progetto-per-superare-la-crisi-creare-unoccupazione-utile-e-dare-un-futuro-ai-giovani/
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