Zoe Romano
Nel 2010 Johanna Blakley,
direttrice di un think-tank sui media
all’Università della California, ha rivelato di fronte a una platea nutrita della Ted conference che,
l'industria della moda, a differenza di
altri ambiti del settore creativo non produce valore a partire dalla protezione della proprietà intellettuale:
non solo la maggior parte dei capi e
accessori venduti non sono coperti da
copyright, è proprio questa mancanza di protezione che permette al sistema di essere profittevole.
Grazie a questa libertà infatti, aziende diverse
sono in grado di replicare capi creati
da brand conosciuti in copie più economiche e di renderle disponibili a prezzi più accessibili,
ovviamente senza copiare anche il logo.
Quanto più velocemente gli abiti indossati sulle riviste patinate e esposte nelle vetrine delle vie del centro
senza cartellino del prezzo, diventano
indossabili per tutto il resto della popolazione, tanto più velocemente, più volte l’anno,
diventa necessario gettare i capi
acquistati nei mesi precedenti perché “non sono più di moda” perdendo la loro aura di “coolness” ed
esclusività. In economia questa
strategia applicata su molti prodotti, specialmente tecnologici, è chiamata obsolescenza indotta e la trovate
spiegata in modo chiaro in un
documentario disponibile su YouTube intitolato “Obsolescenza Programmata - Il motore segreto della nostrasocietà dei consumi”.
Nel suo intervento però la
Blakely non si sofferma sulle conseguenze di questo sistema, sulle sue
esternalità negative, ossia gli effetti
che l’azione di tali soggetti economici ha sul benessere di altri soggetti non direttamente coinvolti. In
questo caso ci riferiamo ai lavoratori
dell’intero sistema moda, periferici o meno, e agli equilibri ecologici del territorio.
Qualche anno prima, nel 2005 San Precario insieme a
un gruppo di precari/e (freelance,
micro-imprese e collaboratori) impegnati a lavorare durante la settimana della moda si sono presi la
libertà di sfidare la sfavillante
vetrina della Camera della Moda facendo sfilare una finta stilista all'interno del calendario
ufficiale.
Lo fecero, anzi, lo facemmo per denunciare le
condizioni di precarietà di tutta una
serie di lavoratori che solitamente non sono nell'elenco dei classici sfruttati dal sistema moda. Nelle
azioni di boicottaggio o sensibilizzazione,
l’attenzione di solito si focalizza sulla vita nelle fabbriche del sud del mondo che provvedono
alla manifattura degli abiti pensati e
poi venduti in Europa e negli Stati Uniti. Durante quell’azione invece l’obiettivo era mettere
al centro anche un altro tipo di
lavoratore, quello classificato come parte delle industrie creative e che contribuisce a creare e
comunicare brand, progettare e costruire
palchi per sfilate, disegnare gli abiti, creare mondi di esperienze indimendicabili per rafforzare un
legame speciale con i “lovemark”.
Nei giorni successivi all’azione ci rendemmo
conto di come il marchio Serpica Naro
(anagramma di San Precario) registrato all’ufficio marchi e brevetti di Milano, per partecipare
ufficialmente alla settimana della moda
- il viso di una donna asiatica stilizzato in bianco e nero con una cicatrice sulla guancia sinistra - aveva
subito una profonda e interessante
trasformazione.
Dal suo essere un marchio come gli altri,
costruito per piacere e farsi notare tra
gli altri, era diventato espressione di chi l’aveva costruito ed iniziava ad essere sfoggiato per esprimere
un nuovo modo di intendere il proprio
lavoro e anche la stessa moda.
E’ in quel contesto che sono iniziate le
riflessioni per ripensare un sistema
moda mettendo al centro sia la condivisione di processi, risorse e infrastrutture, sia le piccole produzioni
artigianali sparse sul territorio ma con
la capacità di fare rete e mettere a valore le proprie relazioni. Il brand poteva diventare quindi
uno strumento collettivo per creare un
legame più stretto all’interno del network di relazioni e un’efficace strategia comunicativa per
rendersi visibili all’esterno,
funzionale all’esprimere un’idea di flessibilità del lavoro oltre
la precarietà e un’attenzione alla
filiera corta sostenibile.
Negli anni successivi abbiamo visto svilupparsi la
possibilità concreta di realizzare
quello che fino a quel momento era stata solo un’idea. Nel 2006 il collettivo rimasto dall’azione di
Serpica Naro si è riunito in
associazione no-profit e ha lavorato insieme ad alcuni avvocati specialisti in Creative Commons per
realizzare una licenza che liberasse il
marchio.
Oltre a ciò ci rendevamo conto che l’ecologia delle
relazioni dei piccoli produttori stava
trovando una rinascita attraverso un rinnovato concetto di fai-da-te, meno legato a un hobbismo da
casalinghe disperate o dopolavoro per
passare il tempo prima di andare al centro commerciale.
Il nuovo contesto del fai-da-te o DIY
(do-it-yourself), specialmente
internazionale, si stava riappropriando di un saper-fare perduto
nel rifiuto dei lavori manuali, cercando
di superare la riduzione di tutto a
prodotto o servizio che ci aveva trasformato in semplici
consumatori, incapaci anche di
riconoscere la qualità dei beni acquistati.
Piccoli laboratori nati nei garage, nelle case, in
scantinati cittadini ma spesso anche in
campagna iniziano a connettersi, collaborare e rendersi visibili grazie agli strumenti partecipativi
messi a disposizione dal web 2.0. Piattaforme di e-commerce connettono direttamente produttori a consumatori, community online e social
networks intrecciano persone con le
stesse passioni che possono scambiarsi istruzioni, codici, trovare soluzioni e cercare collaboratori.
Abbiamo quindi deciso di spingerci oltre e portare
l'idea di marchio open-source nata in
Serpica Naro in una sperimentazione più
istituzionale che ci permettesse di raccogliere più risorse e tempo da investire in essa. Presa al volo l’occasione
di un finanziamento dell’Unione Europea
all’interno di un programma di Life Long Learning, siamo entrati in collaborazione con 5 partner
di 4 stati europei, per organizzare una
piattaforma in cui dare il via a questa fase, più istituzionale, di un nuovo modello di
creazione, produzione, consumo e
formazione continua nella moda sulla base delle riflessioni emerse
negli anni precedenti. Per riuscirci,
abbiamo cercato di superare le
inconsistenze del vecchio sistema a filiera lunga affiancandolo ad
uno nuovo, basato su un concetto di
artigianato diffuso, ricontestualizzato,
e addirittura potenziato da nuove tecnologie di produzione
on-demand (come le macchine per il
taglio laser e le stampanti 3d) e da una
cassetta degli attrezzi di codici aperti (come per esempio
cartamodelli, tutorial ma presto anche
software di supporto e macchine tessili
open-source ).
Sono principalmente tre gli strumenti di cui ci
siamo dotati per raggiungere questo
obiettivo. Il primo è il marchio aperto e partecipato. Openwear è un marchio registrato e liberato attraverso
una licenza che ne permette l’utilizzo
nel rispetto di alcuni principi. Individui e gruppi possono utilizzarlo insieme alla Collezione
Collaborativa, il secondo strumento a
disposizione dei membri della community. Il marchio collettivo infatti vuole dotarsi di alcuni
“common” a cui tutti i partecipanti
possono accedere. Una serie di collezioni create in modo collaborativo durante una settimana di lavoro
insieme, con maker, designer e artigiani
ospitati da un’istituzione europea. La prima
collezione è stata intitolata Forward to Basics per concentrare il lavoro progettuale dei partecipanti verso dei
capi base, al di là della stagione, del
sesso e della taglia, con un’attenzione al risparmio di stoffa e al riciclo.
I
capi delle collezioni collaborative Openwear sono e saranno prodotti
in prototipo i cui codici/cartamodelli
con le istruzioni (li abbiamo chiamati
Lookmaps) sono scaricabili dalla
piattaforma. I membri della community
possono utilizzarli per produrre dei capi per sè o da inserire nella propria produzione dando uno stile
specifico o modificando anche la
struttura base del cartamodello (a patto di condividerne i cambiamenti con il resto della community). Al
loro logo affiancheranno il marchio
collettivo Openwear.
Mettere a disposizione questi “common” ha una duplice
utilità perchè oltre a essere
immediatamente utili a chi vuol farne uso, sono lo spunto per ragionare sulle nuove tipologie di
sostenibilità economica che emergono
mettendo in campo processi collaborativi.
Il terzo strumento è la piattaforma online con
cui è possibile dare visibilità
all’attività dei singoli ma anche, e nel futuro speriamo soprattutto, quella degli hub locali in cui
si concentrano le attività collaborative
dal vivo e possono nascere dei circoli virtuosi per l’acquisto collettivo di materie prime, corsi
di formazione, momenti di vendita
diretta e presa di contatto con le persone interessate all’acquisto dei capi e a momenti di
laboratori aperti.
Andare oltre il sistema moda attuale e concentrarsi
sulle piccole produzioni significa, per
esempio, pensare oltre alle collezioni stagionali con data di scadenza inclusa e ragionare invece
per catalogo: una serie di prototipi a
cui aggiungerne altri nel tempo senza farli scadere, ma continuando a rinnovarli con piccole
modifiche o scelte di confezione diverse
(magari utilizzando materie prime di riciclo).
Ripensare la produzione a partire
da questo catalogo potrebbe significare essere più flessibili nel rispondere alla domanda e non
rischiare troppo nell’investire in
qualcosa che non si sa in anticipo se funzionerà o che è facilmente modificabile in corso d’opera
per soddisfare particolari richieste.
Il brand collettivo diventa così una cinghia di
trasmissione per lo sviluppo di
micro-iniziative autosostenibili che condividono uno spazio pubblico online e gravitano intorno a realtà
attive sul territorio per liberare un
patrimonio di creatività e di potenziale innovazione che non riesce ad essere messo a valore a causa delle
difficoltà oggettive nel superare le
“barriere” tra ideazione, produzione e distribuzione di beni così necessari come lo sono gli abiti. Noi ci
stiamo provando!
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