lunedì 30 aprile 2012

CRISI DELLA ECONOMIA E CRISI DELLA POLITICA


riceviamo  e pubblichiamo da Leonardo Tinelli.


Lo stato di crisi economica e la crisi della politica nel nostro continente, condizione che non favorisce soluzioni condivise, porta in evidenza come il “politicamente amorale” sia il nuovo spettro che si aggiri per l'Europa con straordinarie capacità di egemonia e diffusione per come le casematte della dimensione pubblica siano state nel tempo abbattute.
Come si sa nell'agire politico è decisivo e decidente colui che esprime forza e, per noi tutti, oggi, anche un consenso, una considerazione pubblica, più o meno interessato. E che questa forza, che diventa anche potere, subito sottoposta a legittimazioni esterne e legislative, ma anche a vincoli intrinseci, abbia la facoltà di diffondersi, come la modalità con la quale viene reso corrispondente il rapporto tra governo e governati, e immaginata immediatamente come giustificata ogni istanza collettiva e ogni interesse personale, sembra la convinzione universale condivisa dai più. Dove la stessa forza che è alla base dell'agire politico, è quella stessa adeguatezza, quella corrispondenza dei governati verso chi governa.


In tutto questo appare evidente che le ragioni della costituzione del nemico esterno che è alla base dell'utilizzo del sistema dei partiti, smettono di essere efficaci, e in questo la stessa forma partito implode, fino a giustificare da sé la propria scomparsa insieme alle istanze pubbliche e morali che la distinguevano.
Istanze pubbliche che tradiscono, in questo modo, il proprio spirito, in quanto sempre più caratterizzate secondo una moralistica consensuale immediata che si crede in grado di opporsi alla forza del decidere che la politica inevitabilmente deve esprimere, facendo credere che la moralistica consensuale sia la politica e che la partecipazione abbia quella stessa forza del governare che chi governa deve sapere utilizzare.
Ma la contraddizione che il “politicamente amorale” presenta non riguarda tanto il cosiddetto sistema politico, quanto la negazione di quella che è la fonte e la ragione permanente della economia e della politica medesima. Ovvero la negazione della base etica dell'agire umano che è la scaturigine e lo stesso motivo dell'economia e della politica.
Ed è sorprendente come l'economia si nasconda in un giusto dividere vantaggi più o meno concreti, e in un evitare perdite più o meno trasferibili verso altri, e come il solo sviluppo delle sue conoscenze sia l'allargamento del concetto di condivisione dei vantaggi e quello dell'occhiuto trasferimento delle perdite, come pure l'integrazione delle energie umane ai processi di produzione o alle abilità di vendita. E da nessuna parte una qualche cognizione che veda la condizione dell'equilibrio dei vantaggi e delle perdite, come requisito fondamentale di quella che è di fatto l'economia, viene più utilizzato, se non da qualcuno che pretende che i conti e non l'economia siano in equilibrio. Tenuto conto che carestia ed abbondanza, povertà e ricchezza non possono pretendere di valere per tutti senza che per tutti si preveda una completa corrispondenza tra questi opposti e un concreto percorrere la via che dalla povertà raggiunga la ricchezza come il contrario. (Si veda Guido Rossi sul Sole 24 del 22 aprile alle prese con Krugman)
La politica ha preso esempio dall'economia e non sa più di se stessa. Se non nella forma della sempre più rapida ricerca del vantaggio, credendo in questa maniera che la logica degli opposti abbondanza/carestia, povertà/ricchezza, possa essere impedita o sospesa, o, addirittura, ridotta ad una via che prevede l'abbandono di qualsiasi complessità del fatto economico concretizzata nella forma del detenere una disponibilità di valore, meglio se nella forma denaro, immediatamente utilizzabile.
Queste due caratteristiche della valorizzazione economica attuale, rapidità della individuazione e della disponibilità del vantaggio e la disponibilità di denaro/valore tesaurizzato, rendono ancora più diffuso il processo di comparazione del valore delle merci, ovunque questa vengano prodotte e in qualsiasi contesto economico nascano. Fino a compromettere la ragione essenziali dello scambio, che da essere per definizione bilaterale, reciproco e in equilibrio più o meno stabile, viene ad essere giustificato solo se rappresenta un flusso rivolto ad una e ad una sola meta, addirittura ad uno e ad uno solo obiettivo, non importa se caratterizzato dal consumo o dalla integrazione produttiva strumentale.
La conseguenza più vistosa di questo processo è la diffusione del produrre e della organizzazione del fatto produttivo per ogni angolo del mondo, disponendo qualsiasi intenzione produttiva della capacità di utilizzare i flussi di merci e disponibilità umane che la logica dello scambio unidirezionale rende sempre disponibili ovunque. Piegando lo stesso processo di valorizzazione ad una concretizzazione impropria, quella che lo vede interno al processo produttivo e di scambio fino al punto da scandirne la presenza allo stesso ritmo  della ricerca immediata di vantaggio che il movimento dell'economia crede oggi più efficace.
Il processo di valorizzazione, invece, non ha una valenza economica diretta. E le teorie economiche sono lì a dimostrarlo tutte. Tutte, infatti partono dal fatto che il processo di valorizzazione, ovvero l'attribuzione del valore a qualcosa abbia già avuto modo di essere concretizzato. Al contrario l'economia  riconoscendone la presenza paradossalmente lo diseconomizza anche con la semplice collocazione, quale fatto economico, in un contesto di comparazioni di valore già ritenute agenti, già collocate nella ricerca del momento della migliore utilizzazione.
Si può ritenere che l'azione economica decidendo il tempo della valorizzazione si avvalga della stessa logica della partecipazione politica, che conta e non può riconoscere il fatto che non sempre i sistemi di esercizio della politica attuali garantiscono la continuità della partecipazione. Piuttosto ne regolano la rapsodicità, il tempo della loro presenza, contando sul fatto che tra partecipazione e rappresentanza nelle democrazie ci può essere una concordanza e un tempo di utilizzo assai divaricabili.
L'economia, in altri termini si avvale delle stesse liberalità della politica quali possibilità pura, esercizio senza condizionamento alcuno che crede così di rappresentare concretamente il futuro, secondo formule della produzione che separano per addizionalità temporale, per concentratività operativa, per utilizzazioni diverse, il nuovo dal precedente sistema, del quale nulla è dato sapere. Ovvero l'economia, come la politica decide solo lo stato economico o lo stato politico che si vive, addirittura senza distinguere se si tratta di guerra o di pace, se si tratta di politica interna o di politica esterna se si tratta di utilizzare  disponibilità finanziarie legali o di disporne secondo quantità fuori da ogni paragone, tendenzialmente legali/illegali.
In questo quadro la politica non può cercare stati di esercizio permanenti, ne risulterebbe limitata, addirittura lo stesso concetto di egemonia, riferito ad un consolidato giudizio collettivo sulle cose della civiltà, appare inutilizzabile, per come anche il più piccolo convenire su elementi indubitabilmente decisivi della nostra vita civile, quale ad es. dove bisogna riconoscere una funzione decisiva allo Stato, appare un legame che vincola strettamente per come aperta sembrerebbe la possibilità di una alternativa immediatamente utile e giustificabile.
In questo stato di cose, non sorprende che allo stesso modo con il quale le ragioni della crisi economica, non possono essere discusse e indagate se non attraverso quei caratteri del vantaggio che fanno già l'economia che salverebbe dalla crisi, le ragioni della politica si confondano con l'impossibile, con la teoria. E a nessuno è più concesso di vivere la politica come la condivisione di beni che durano garantita dalla permanenza della reciprocità direttamente verificabili e l'economia quale diretta espressione del di più che l'operatività umana genera.
L'esito drammatico di queste dinamiche è la impossibilità di intendere e fare scienza della situazione che si vive. Ovvero se il passato è ciò che radicalmente l'affermarsi delle forme nuove dell'economia e della politica, impediscono e la soluzione è soltanto nella affermazione nuova di quanto si intende quale economia e politica per lo più e secondo occasionalità pura, allora nessuno verrà mai a capo di cosa significa crisi dell'economia e della politica.
Ma la circostanza del tutto originale che si mostra richiama gli essenziali sui quali economia e politica nascono.
Si scopre così che l'attribuzione di valore, qualsiasi attribuzione di valore non consiste in un attribuire valore a qualcosa, ma a concepire che qualcosa possa acquisire valore a partire dal fatto che questo qualcosa continua ad essere fatto... mentre non si smette di fare!
Ovvero la base etica dell'agire umano, quella condizione di rispondere alle sollecitazioni del mondo senza soluzione di continuità, attraverso la quale si decide di fare del tutto implicitamente, ma in un tessuto di operatività continuo.
Ed è in forza di questa continuità che le separazioni del tempo, intese anche come età dell'uomo, per giunta, possono essere intese. Ancora più diretta è la continuità/separazione che si impianta nella relazione morte/vita, che alla lunga trascuriamo contenti di vivere dormendo o di dormire credendo di essere svegli. Facendo intervenire la consolazione o il divertimento in ciò che questi opposti continuamente indicano drammaticamente.
Da qui si vede meglio come la base etica impone che l'imperfezione, quel fare che continua ad essere necessitato di operatività, domina la vita umana, imponendosi sempre nelle stesse ragioni che costituiscono lo spazio che gli opposti nutrono. Gli opposti stessi non avrebbero senso se non fossero riempiti di imperfezione a tal punto da costituire la stessa idea di mondo e di mondo trasformabile, oggetto e soggetto della trasformazione. Quale massimo grado della imperfezione dominante!
Da qui considerare che la vicinanza agli opposti, ovvero una debita distanza o una lontanissima loro presenza sono gli stati reali che gli uomini vivono. E ogni cosa, ogni comportamento, ogni azione in quanto vicinanza o lontananza dagli opposti, trova sempre una sua piena giustificazione nella operatività che la segue e in una conferma della presenza del dinamismo che gli opposti consentono sempre!
Che dunque all'economia vada riconosciuto l'argomento della permanente valorizzazione prima che gli stessi beni vengano intesi come tali, e che alla politica si conceda aprirsi alla sudditanza e al rispetto, costituisce almeno il motivo della ricerca intorno a quale circostanza questi attributi siamo stati dimenticati!
Ovvero, come il valore, inteso quale seguitazione del fare imperfetto permanente dell'uomo è l'elemento dal quale dipende la riconoscibilità della misura economica, allo stesso modo il rispetto, la dipendenza, la relazione è la prima faccia della politica in concreto.
Qualsiasi incontro in pratica non dispone del suo esito imperfetto se non facendo in modo che l'incontrarsi sia la sua stessa imperfezione, lo scontro, la relazione fallita. Ma per come si possa intendere l'incontro, non sarà dal non incontro che ci si incontrerà. Dunque, l'incontro è la dipendenza e il rispetto. Formule che erroneamente intese farebbero credere che qualcuno possa avere o non essere rispettato. Al contrario il rispetto è l'accettazione della relazione fino al suo esito imperfetto che così si offre al controllo completo di chi si incontra!
La completezza della cognizione dell'incontrarsi infatti è il primo tratto che l'imperfezione garantisce, cosa che qualsiasi ragione dello sviluppo economico sposta in ambiti vaghi e incerti. Quando la ragione economica modificando la persistenza del valore strettamente connessa al fare, addirittura unica sua espressione il valore, (la forza!!!) ne vuole una manifestazione derivata e controllabile che sopravanzi la misura economica stessa e ne renda disponibile il controllo. Cosa che la misura economica in quanto tale, legata al fare umano non consente!
La ragione economica, dunque nasce già in una dimensione diseconomica, ovvero integra astrattamente il valore al punto da non sapere per nulla della sua natura. Dire qui che l'economia teorica nasca nell'illegalità è dire ancora poco!!! Ovvero che non sappia dell'economico a tal punto da non avere nessun punto di paragone tra ciò che è legale e ciò che supera la regola, dove non si sa sia della regola sia del suo superamento, ma offrendo in ogni occasione quale materia sulla quale tiranneggiare formule parziali e poco studiate di quella dimensione etica che continuamente concretizza il valore.
Ma il modo migliore con il quale poi le quantità maggiori e minori possono corrispondere al valore e alla sua riconoscibilità è la comparazione numerico matematica. Si ricorre, in altri termini, al numero e alle formule che niente sanno dell'economico in quanto tale per consentire che la sostituibilità sia permanente nella illusione di avere, in questo modo, a che fare con la dimensione economica sempre.
Dunque, si potrebbe dire che tutte le aggregazioni numerico economiche massive non solo si presentano come incontrollabili e non intendibili, ma sfuggono allo stesso principio d'uso che le ha generate e in queste condizioni si trasferiscono e vengono adottate. Tanto che viene da chiedersi se non sia proprio questa economia senza valore che tutti aspettano di utilizzare, come quella competenza inesistente che riconosciuto il numero e la formula della grandezza numerica si imponga quale necessità per ogni esigenza e per ogni relazione compromettendo fino in fondo ogni ragione politica. Anzi credendo di raggiungere così quella perfezione della politica che da sempre si desiderava quale soluzione della sua crisi.
Se, infatti partecipazione e rappresentatività sono per la loro stessa natura permanentemente in conflitto, tanto da esigere uno statuto di autonomia antagonistico, per aver già... partecipato, per essere già stato rappresentante, a nessuno verrà in mente di sospenderle per affermare la necessità obbligata del governo, ridestando la decisività della politica, fin quando la utilizzabilità della competenza inesistente del numero non sarà abbattuta. Ovvero fin quando il trascinamento della politica nella economia continuerà ad essere esercitato per quella forza adesiva che il numero espressione delle grandezza inavvicinabili è in grado di trasferire direttamente alla politica.
In questo modo la crisi della politica secondo partecipazione inesistente e rappresentatività equivocata è lo stesso dell'inavvicinabilità delle grandezze economiche, dove ognuno è garantito dal rapporto che la politica fornisce all'economia e viceversa. Stranissima sorte questa di qualcosa che ancora qualcuno insiste a chiamare scienze! 

2 commenti:

Giuliet ha detto...

Allora accanto ai tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, ne mettiamo un altro, il potere economico e lo regolamentiamo. Per bene.
Altro che il pareggio di bilancio in Costituzione per giustificare lo smantellamento dello Stato Sociale.
Una volta eravamo più creativi.

Giuliet ha detto...

Allora accanto ai tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, ne mettiamo un altro, il potere economico e lo regolamentiamo. Per bene.
Altro che il pareggio di bilancio in Costituzione per giustificare lo smantellamento dello Stato Sociale.
Una volta eravamo più creativi.