riceviamo e pubblichiamo da Leonardo Tinelli.
Lo stato di crisi
economica e la crisi della politica nel nostro continente, condizione che non
favorisce soluzioni condivise, porta in evidenza come il “politicamente
amorale” sia il nuovo spettro che si aggiri per l'Europa con straordinarie
capacità di egemonia e diffusione per come le casematte della dimensione
pubblica siano state nel tempo abbattute.
Come si sa nell'agire
politico è decisivo e decidente colui che esprime forza e, per noi tutti, oggi,
anche un consenso, una considerazione pubblica, più o meno interessato. E che
questa forza, che diventa anche potere, subito sottoposta a legittimazioni
esterne e legislative, ma anche a vincoli intrinseci, abbia la facoltà di
diffondersi, come la modalità con la quale viene reso corrispondente il
rapporto tra governo e governati, e immaginata immediatamente come giustificata
ogni istanza collettiva e ogni interesse personale, sembra la convinzione
universale condivisa dai più. Dove la stessa forza che è alla base dell'agire
politico, è quella stessa adeguatezza, quella corrispondenza dei governati
verso chi governa.
In tutto questo appare
evidente che le ragioni della costituzione del nemico esterno che è alla base
dell'utilizzo del sistema dei partiti, smettono di essere efficaci, e in questo
la stessa forma partito implode, fino a giustificare da sé la propria scomparsa
insieme alle istanze pubbliche e morali che la distinguevano.
Istanze pubbliche che
tradiscono, in questo modo, il proprio spirito, in quanto sempre più
caratterizzate secondo una moralistica consensuale immediata che si crede in
grado di opporsi alla forza del decidere che la politica inevitabilmente deve
esprimere, facendo credere che la moralistica consensuale sia la politica e che
la partecipazione abbia quella stessa forza del governare che chi governa deve
sapere utilizzare.
Ma la contraddizione che
il “politicamente amorale” presenta non riguarda tanto il cosiddetto sistema
politico, quanto la negazione di quella che è la fonte e la ragione permanente
della economia e della politica medesima. Ovvero la negazione della base etica
dell'agire umano che è la scaturigine e lo stesso motivo dell'economia e della
politica.
Ed è sorprendente come
l'economia si nasconda in un giusto dividere vantaggi più o meno concreti, e in
un evitare perdite più o meno trasferibili verso altri, e come il solo sviluppo
delle sue conoscenze sia l'allargamento del concetto di condivisione dei
vantaggi e quello dell'occhiuto trasferimento delle perdite, come pure l'integrazione
delle energie umane ai processi di produzione o alle abilità di vendita. E da
nessuna parte una qualche cognizione che veda la condizione dell'equilibrio dei
vantaggi e delle perdite, come requisito fondamentale di quella che è di fatto
l'economia, viene più utilizzato, se non da qualcuno che pretende che i conti e
non l'economia siano in equilibrio. Tenuto conto che carestia ed abbondanza,
povertà e ricchezza non possono pretendere di valere per tutti senza che per
tutti si preveda una completa corrispondenza tra questi opposti e un concreto
percorrere la via che dalla povertà raggiunga la ricchezza come il contrario.
(Si veda Guido Rossi sul Sole 24 del 22 aprile alle prese con Krugman)
La politica ha preso
esempio dall'economia e non sa più di se stessa. Se non nella forma della
sempre più rapida ricerca del vantaggio, credendo in questa maniera che la
logica degli opposti abbondanza/carestia, povertà/ricchezza, possa essere
impedita o sospesa, o, addirittura, ridotta ad una via che prevede l'abbandono
di qualsiasi complessità del fatto economico concretizzata nella forma del
detenere una disponibilità di valore, meglio se nella forma denaro,
immediatamente utilizzabile.
Queste due caratteristiche
della valorizzazione economica attuale, rapidità della individuazione e della
disponibilità del vantaggio e la disponibilità di denaro/valore tesaurizzato,
rendono ancora più diffuso il processo di comparazione del valore delle merci,
ovunque questa vengano prodotte e in qualsiasi contesto economico nascano. Fino
a compromettere la ragione essenziali dello scambio, che da essere per
definizione bilaterale, reciproco e in equilibrio più o meno stabile, viene ad
essere giustificato solo se rappresenta un flusso rivolto ad una e ad una sola
meta, addirittura ad uno e ad uno solo obiettivo, non importa se caratterizzato
dal consumo o dalla integrazione produttiva strumentale.
La conseguenza più vistosa
di questo processo è la diffusione del produrre e della organizzazione del
fatto produttivo per ogni angolo del mondo, disponendo qualsiasi intenzione
produttiva della capacità di utilizzare i flussi di merci e disponibilità umane
che la logica dello scambio unidirezionale rende sempre disponibili ovunque.
Piegando lo stesso processo di valorizzazione ad una concretizzazione
impropria, quella che lo vede interno al processo produttivo e di scambio fino
al punto da scandirne la presenza allo stesso ritmo della ricerca immediata di vantaggio che il
movimento dell'economia crede oggi più efficace.
Il processo di valorizzazione,
invece, non ha una valenza economica diretta. E le teorie economiche sono lì a
dimostrarlo tutte. Tutte, infatti partono dal fatto che il processo di
valorizzazione, ovvero l'attribuzione del valore a qualcosa abbia già avuto
modo di essere concretizzato. Al contrario l'economia riconoscendone la presenza paradossalmente lo
diseconomizza anche con la semplice collocazione, quale fatto economico, in un
contesto di comparazioni di valore già ritenute agenti, già collocate nella
ricerca del momento della migliore utilizzazione.
Si può ritenere che
l'azione economica decidendo il tempo della valorizzazione si avvalga della
stessa logica della partecipazione politica, che conta e non può riconoscere il
fatto che non sempre i sistemi di esercizio della politica attuali garantiscono
la continuità della partecipazione. Piuttosto ne regolano la rapsodicità, il
tempo della loro presenza, contando sul fatto che tra partecipazione e
rappresentanza nelle democrazie ci può essere una concordanza e un tempo di utilizzo
assai divaricabili.
L'economia, in altri
termini si avvale delle stesse liberalità della politica quali possibilità
pura, esercizio senza condizionamento alcuno che crede così di rappresentare
concretamente il futuro, secondo formule della produzione che separano per
addizionalità temporale, per concentratività operativa, per utilizzazioni
diverse, il nuovo dal precedente sistema, del quale nulla è dato sapere. Ovvero
l'economia, come la politica decide solo lo stato economico o lo stato politico
che si vive, addirittura senza distinguere se si tratta di guerra o di pace, se
si tratta di politica interna o di politica esterna se si tratta di
utilizzare disponibilità finanziarie
legali o di disporne secondo quantità fuori da ogni paragone, tendenzialmente
legali/illegali.
In questo quadro la
politica non può cercare stati di esercizio permanenti, ne risulterebbe
limitata, addirittura lo stesso concetto di egemonia, riferito ad un
consolidato giudizio collettivo sulle cose della civiltà, appare inutilizzabile,
per come anche il più piccolo convenire su elementi indubitabilmente decisivi
della nostra vita civile, quale ad es. dove bisogna riconoscere una funzione
decisiva allo Stato, appare un legame che vincola strettamente per come aperta
sembrerebbe la possibilità di una alternativa immediatamente utile e
giustificabile.
In questo stato di cose,
non sorprende che allo stesso modo con il quale le ragioni della crisi
economica, non possono essere discusse e indagate se non attraverso quei
caratteri del vantaggio che fanno già l'economia che salverebbe dalla crisi, le
ragioni della politica si confondano con l'impossibile, con la teoria. E a
nessuno è più concesso di vivere la politica come la condivisione di beni che
durano garantita dalla permanenza della reciprocità direttamente verificabili e
l'economia quale diretta espressione del di più che l'operatività umana genera.
L'esito drammatico di
queste dinamiche è la impossibilità di intendere e fare scienza della
situazione che si vive. Ovvero se il passato è ciò che radicalmente
l'affermarsi delle forme nuove dell'economia e della politica, impediscono e la
soluzione è soltanto nella affermazione nuova di quanto si intende quale
economia e politica per lo più e secondo occasionalità pura, allora nessuno
verrà mai a capo di cosa significa crisi dell'economia e della politica.
Ma la circostanza del
tutto originale che si mostra richiama gli essenziali sui quali economia e
politica nascono.
Si scopre così che
l'attribuzione di valore, qualsiasi attribuzione di valore non consiste in un
attribuire valore a qualcosa, ma a concepire che qualcosa possa acquisire
valore a partire dal fatto che questo qualcosa continua ad essere fatto...
mentre non si smette di fare!
Ovvero la base etica
dell'agire umano, quella condizione di rispondere alle sollecitazioni del mondo
senza soluzione di continuità, attraverso la quale si decide di fare del tutto
implicitamente, ma in un tessuto di operatività continuo.
Ed è in forza di questa
continuità che le separazioni del tempo, intese anche come età dell'uomo, per
giunta, possono essere intese. Ancora più diretta è la continuità/separazione
che si impianta nella relazione morte/vita, che alla lunga trascuriamo contenti
di vivere dormendo o di dormire credendo di essere svegli. Facendo intervenire
la consolazione o il divertimento in ciò che questi opposti continuamente
indicano drammaticamente.
Da qui si vede meglio come
la base etica impone che l'imperfezione, quel fare che continua ad essere
necessitato di operatività, domina la vita umana, imponendosi sempre nelle
stesse ragioni che costituiscono lo spazio che gli opposti nutrono. Gli opposti
stessi non avrebbero senso se non fossero riempiti di imperfezione a tal punto
da costituire la stessa idea di mondo e di mondo trasformabile, oggetto e
soggetto della trasformazione. Quale massimo grado della imperfezione
dominante!
Da qui considerare che la
vicinanza agli opposti, ovvero una debita distanza o una lontanissima loro
presenza sono gli stati reali che gli uomini vivono. E ogni cosa, ogni
comportamento, ogni azione in quanto vicinanza o lontananza dagli opposti,
trova sempre una sua piena giustificazione nella operatività che la segue e in
una conferma della presenza del dinamismo che gli opposti consentono sempre!
Che dunque all'economia
vada riconosciuto l'argomento della permanente valorizzazione prima che gli
stessi beni vengano intesi come tali, e che alla politica si conceda aprirsi
alla sudditanza e al rispetto, costituisce almeno il motivo della ricerca
intorno a quale circostanza questi attributi siamo stati dimenticati!
Ovvero, come il valore,
inteso quale seguitazione del fare imperfetto permanente dell'uomo è l'elemento
dal quale dipende la riconoscibilità della misura economica, allo stesso modo
il rispetto, la dipendenza, la relazione è la prima faccia della politica in
concreto.
Qualsiasi incontro in
pratica non dispone del suo esito imperfetto se non facendo in modo che
l'incontrarsi sia la sua stessa imperfezione, lo scontro, la relazione fallita.
Ma per come si possa intendere l'incontro, non sarà dal non incontro che ci si
incontrerà. Dunque, l'incontro è la dipendenza e il rispetto. Formule che
erroneamente intese farebbero credere che qualcuno possa avere o non essere
rispettato. Al contrario il rispetto è l'accettazione della relazione fino al
suo esito imperfetto che così si offre al controllo completo di chi si
incontra!
La completezza della
cognizione dell'incontrarsi infatti è il primo tratto che l'imperfezione
garantisce, cosa che qualsiasi ragione dello sviluppo economico sposta in
ambiti vaghi e incerti. Quando la ragione economica modificando la persistenza
del valore strettamente connessa al fare, addirittura unica sua espressione il
valore, (la forza!!!) ne vuole una manifestazione derivata e controllabile che
sopravanzi la misura economica stessa e ne renda disponibile il controllo. Cosa
che la misura economica in quanto tale, legata al fare umano non consente!
La ragione economica,
dunque nasce già in una dimensione diseconomica, ovvero integra astrattamente
il valore al punto da non sapere per nulla della sua natura. Dire qui che
l'economia teorica nasca nell'illegalità è dire ancora poco!!! Ovvero che non
sappia dell'economico a tal punto da non avere nessun punto di paragone tra ciò
che è legale e ciò che supera la regola, dove non si sa sia della regola sia
del suo superamento, ma offrendo in ogni occasione quale materia sulla quale
tiranneggiare formule parziali e poco studiate di quella dimensione etica che
continuamente concretizza il valore.
Ma il modo migliore con il
quale poi le quantità maggiori e minori possono corrispondere al valore e alla
sua riconoscibilità è la comparazione numerico matematica. Si ricorre, in altri
termini, al numero e alle formule che niente sanno dell'economico in quanto
tale per consentire che la sostituibilità sia permanente nella illusione di
avere, in questo modo, a che fare con la dimensione economica sempre.
Dunque, si potrebbe dire
che tutte le aggregazioni numerico economiche massive non solo si presentano
come incontrollabili e non intendibili, ma sfuggono allo stesso principio d'uso
che le ha generate e in queste condizioni si trasferiscono e vengono adottate.
Tanto che viene da chiedersi se non sia proprio questa economia senza valore
che tutti aspettano di utilizzare, come quella competenza inesistente che
riconosciuto il numero e la formula della grandezza numerica si imponga quale
necessità per ogni esigenza e per ogni relazione compromettendo fino in fondo
ogni ragione politica. Anzi credendo di raggiungere così quella perfezione
della politica che da sempre si desiderava quale soluzione della sua crisi.
Se, infatti partecipazione
e rappresentatività sono per la loro stessa natura permanentemente in
conflitto, tanto da esigere uno statuto di autonomia antagonistico, per aver
già... partecipato, per essere già stato rappresentante, a nessuno verrà in
mente di sospenderle per affermare la necessità obbligata del governo,
ridestando la decisività della politica, fin quando la utilizzabilità della
competenza inesistente del numero non sarà abbattuta. Ovvero fin quando il
trascinamento della politica nella economia continuerà ad essere esercitato per
quella forza adesiva che il numero espressione delle grandezza inavvicinabili è
in grado di trasferire direttamente alla politica.
In questo modo la crisi
della politica secondo partecipazione inesistente e rappresentatività
equivocata è lo stesso dell'inavvicinabilità delle grandezze economiche, dove
ognuno è garantito dal rapporto che la politica fornisce all'economia e
viceversa. Stranissima sorte questa di qualcosa che ancora qualcuno insiste a
chiamare scienze!
2 commenti:
Allora accanto ai tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, ne mettiamo un altro, il potere economico e lo regolamentiamo. Per bene.
Altro che il pareggio di bilancio in Costituzione per giustificare lo smantellamento dello Stato Sociale.
Una volta eravamo più creativi.
Allora accanto ai tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, ne mettiamo un altro, il potere economico e lo regolamentiamo. Per bene.
Altro che il pareggio di bilancio in Costituzione per giustificare lo smantellamento dello Stato Sociale.
Una volta eravamo più creativi.
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