Raymond Depardon - lavoratrice al lavoro su macchina elettroerosione |
Ciò che segue è un post di Transit - Ogni cosa è connessa (link nell'elenco di Esercizi di Stima, scorrendo a destra del blog N.O.I.).
Per coloro che hanno lavorato in fabbrica, o che si sono occupati di fabbriche perchè le hanno studiate o le hanno avviate, possono capire della strana relazione emotiva che fra un uomo ed una macchina viene, col tempo, a definirsi.
Questa relazione emotiva con quell'appendice strumentale della tua mente che è una macchina, è il risultato di tutti quei gesti, di tutte quelle parole e quei sensi investiti e depositati nella realizzazione di un qualcosa che avverti ogni volta come un mistero, anche se innumerevoli volte ne hai riprodotto apparenti copie fedeli, e seppur ad una più attenta osservazione ne riconosci il tradimento e l'imperfezione del gesto, ovvero quanto ancora abbiamo da imparare e condividere nonostante le nostre paure di morire. Come la macchina di questa storia.
Adesso mi sembra d'aver buttato migliaia di ore, un pezzo di
vita che comunque non sarebbe tornato. Eppure, davanti alla macchina,
sbuffando, bestemmiando, sudando, quel tempo passava. Era il tempo del mio
lavoro, quello che mi faceva paura. Quando inizi qualcosa, quando ti avvicini
alla nuova macchina, c'è sempre il timore: quei gesti, visti fare dagli altri,
ti risultano incomprensibili. Poi, come accade sempre, subentra l'abitudine, la
meccanicità: ripeti gli stessi gesti senza pensare, senza più timore. Il brutto
della fabbrica. Il bello della fabbrica. Sì, perchè quella macchina, ormai, la
conoscevo meglio di tutti. Nel gran casino di tutte le altre macchine, la mia
la riconoscevo, ne sentivo vibrazioni e scricchiolii: se qualcosa non andava
bastava andarci ad orecchio. In fondo, facendo sempre lo stesso, si ha tempo
per pensare: ogni cosa è precisa, millimetrica, quella mano lì e fino a quel
punto, poi cambio, giro, e via. Allora la testa può vagare: ai cavoli propri,
alla parola buttata lì con il compagno, quello accanto, che ti dà il cambio per
un caffè. Nella lista dei lavori, alla mattina presto, o alla sera già tardi,
il mio nome era sempre affiancato alla sua sigla: quasi un atto dovuto, tutti
sapevano che io e Lei ormai andavamo in coppia. Poi, qualche mese fa, le prime
voci: tagliare, siamo in crisi, bisogna delocalizzare. Questa parola ha
riempito la bocca di tutti e il cervello di pochi. Io pensavo sempre di
scamparla: la macchina era tosta, di quelle che fanno le lavorazioni difficili.
Non qui, non a me. Invece. Invece è capitato anche a Noi. Prima solo qualche
ammiccamento, poi le certezze. Sono arrivati dei ragazzi, da lontano: niente
Inglese, niente Italiano, solo i gesti, per insegnarli a capire la macchina. Io
no. Se la sono sbrigata altri. A me non va di insegnarli la lingua della
macchina: poi me la portano via, portano via il mio lavoro. Lo facciano altri.
Io ho continuato da usarla: questi, la notte, non lavorano. E io sono ancora il
più bravo. Oggi il mio Capo mi ha detto: “Sai, ha cessato di vivere alle 11 e
45”, con una brutta ironia, come se si parlasse di un malato di un'altra
famiglia. L'hanno smontata , quasi per intero. A me è venuta una grande
tristezza. Chissà che farò, da domani: chissà se quei ragazzotti sapranno
sentirla, ascoltarla, se sapranno capire fino a dove devono arrivare i gesti, i
movimenti. Chissà se il mio nuovo lavoro mi darà soddisfazione. Adesso, che la
macchina è solo uno scheletro, mi chiedo che senso abbia averci sputato quasi
il sangue, lì sopra. Forse è solo lavoro, forse è solo un modo per tirare
avanti. Forse.
di Daniela Mattioli - tratto da Transit - ogni cosa è connessa
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