mercoledì 5 settembre 2012

CHI PRODUCE, CHI CONSUMA E CHI COSTA. Migliorare la distribuzione dei redditi, rendere più efficiente la spesa pubblica, ridurre le tasse

Come si può leggere di fianco, tutta una serie di Paesi europei sono dedicati a consumare e non a produrre. Questi sono la Grecia, il Portogallo, l'Irlanda, la Spagna e la Slovenia (che stava dichiarando nel 2011 bancarotta, ma è stata salvata, questa sì, dalla Germania). L'Italia (secondo Paese manifatturiero d'Europa dopo la Germania) se applicasse una tassazione meno massiccia sul lavoro così da diminuire il costo (che nel frattempo è aumentato), spostando le necessarie entrate tributarie sui consumi e sulle rendite, e agevolando una forte redistribuzione dei redditi e del potere di acquisto attraverso interventi legislativi ad hoc, potrebbe ritornare facilmente ad essere competitiva e ad aumentare la produttività, risanando più agevolmente il suo disavanzo. 
In alternativa, 


si potrebbe incentivare il consumo di beni italiani, regolamentando meglio il "made in Italy" e promuovendolo... ma la stretta sui redditi che è stata attuata agevola invece le importazioni di beni provenienti da aree produttive asiatiche o comunque a più basso tasso di diritti, finendo così per spostarci sugli assi del diagramma verso destra. E' anche vero, però, che questa alzata di scudi protezionista statunitense ed europea sta allarmando gli investitori occidentali in Cina, i quali denunciano anch'essi il dumping interno da parte delle aziende statali cinesi, oltre che il rischio di vedersi i beni prodotti dalle industrie occidentali delocalizzate nel frattempo in Cina trattati alla stessa stregua e quindi fortemente daziati (vedasi qui articolo), tanto da ripensare seriamente ad un ritorno in madrepatria.
Ma in Italia invece, mentre si chiacchiera dell'ennesima riforma della legge elettorale e della forma Stato (come se la soluzione fosse di ingegneria istituzionale e quanto finora riformato dello Stato e delle leggi elettorali sia servito a qualcosa), non c'è forza politica che metta seriamente sul tavolo una serie di scelte decisive da compiersi per rilanciare il paese. Ed il governo Monti sta pian piano diventando lo specchio fedele di questa impasse.

Urge rendere più efficiente la spesa pubblica, con forti e decisivi segnali che non sono il palliativo della spending review, ma la potatura di tutti i privilegi che in essa si sono ormai annidati e consolidati da anni di clientelismo politicistico. Il ministro Fornero dice che nel settore pubblico si potrebbe anche licenziare: è possibile farlo già dal 1993, ma il problema non è licenziare per abbassare i costi, ma aumentare l'efficienza del personale pubblico occupato, a cominciare da quello medico-sanitario. Le riforme sanitarie fin qui implementate, da chiunque ha governato, hanno unicamente spostato i costi dallo Stato ai privati, di fatto permettendo che le inefficienze si diffondessero insieme alle iniquità. Una fra tutte l'introduzione nel 1999 con la riforma sanitaria c.d. Bindi dell'introduzione dell'attività libero-professionale privata detta intramoenia nelle strutture sanitarie pubbliche da parte del personale medico dipendente. E' inaccettabile che un cittadino debba pagare 2 volte per ricevere una prestazione sanitaria, una quando paga le tasse (insieme all'IRAP che paga il suo datore di lavoro) e una seconda volta quando per prenotare una visita specialistica o diagnostica che hanno 1 anno di lista d'attesa si vede costretto ad accettare un appuntamento "privato" che gli è concordato, nella stessa struttura pubblica, in pochissimi giorni.      
Poi occorre che venga fortemente regolamentato il diritto alla casa, che è stato oggetto e vilipendio del mercato immobiliare e finanziario. Questo diritto passa per la formulazione di una nuova legge di regolamentazione delle aree urbane e di urbanizzazione, che da faccenda privata qual sono diventate anni fa (i cui effetti sono stati la devastazione dei territori oltre che dell'economia del tessuto sociale ed urbano degli stessi, e questa crisi finanziaria che è innanzitutto immobiliare) debbono ritornare ad essere questioni di utilità pubblica e di ordine pubblico. Innanzitutto cominciando con il costruire meno recuperando di più. In secondo luogo ristabilendo la pubblica utilità anche alle aree di urbanizzazione industriale-commerciale e residenziale (dato che la "privatizzazione" dei terreni edificabili ha consentito l'impennata dei costi immobiliari e le conseguenze finanziarie che conosciamo, oltre che un eccesso di volumi non corrispondente alle richieste), calmierando i prezzi dei terreni edificabili, oggi lasciati al borsino del mercato ovvero della speculazione. Inoltre occorre una nuova legge che privilegi la locazione (oggi ci sono un milione e mezzo di case sfitte!) liberando i proprietari, che affittano i loro immobili a prezzi legalmente regolamentati, dal pagamento della tassa IMU come seconde case, anche se affittate, per equipararle alla prima di residenza, e sposando il grosso della tassazione su tutti gli immobili sfitti ed improduttivi o con prezzi di affitto fuori regolamentazione. La riduzione degli affitti libererebbe subito dei redditi disponibili per le famiglie, consentendo ad esse di poter far fronte all'inasprimento della tassazione che è avvenuta sui consumi, sui redditi da lavoro e sulle utenze. 
Infine, fare una riforma del mercato del lavoro che agevoli il rientro occupazionale dei lavoratori, facendo ritornare come attori importanti i Centri per L'impiego, oggi abbandonati a funzioni burocratiche di registrazione "contabile" dei lavoratori disoccupati o in mobilità, e che di  fatto non offrono nessun servizio serio di reinserimento nel mercato del lavoro, sia attraverso la ricollocazione del personale non occupato, sia in termini di formazione professionale, funzioni oggi che sono state dismesse e spostate ad agenzie private che non possono avere a cuore gli obiettivi sociali che la funzione di regolazione del mercato del lavoro richiede ma unicamente quelli profittevoli dei margini economici che queste società private realizzano, e così facendo prestando un cattivo servizio ad un ceto imprenditoriale che ancora stenta a comprendere che non è di questo che ha bisogno, ma invece di personale che venga adeguatamente accompagnato al reintegro lavorativo e formativo. E ciò non richiede profitti, ma investimento! I Centri per l'Impiego vivono oggi asserragliati all'interno degli uffici, e non svolgono nessun servizio nel territorio, nè stringono accordi programmatici con le associazioni di categoria imprenditoriali con i quali predisporre delle adeguate politiche formative di reinserimento al lavoro e di neo-inserimento giovanile (vedi quanto abbiamo scritto qui nel blog). Al 97% degli imprenditori che hanno meno di 10 dipendenti nelle loro aziende non importa nulla dell'art.18, ma importa essere supportati da servizi adeguati. Se gli attuali impiegati pubblici dei Centri per l'Impiego non sono in grado di svolgere adeguatamente le nuove sfide che il mercato del lavoro richiede, devono essere formati e se necessario rimpiazzati con personale che ama lavorare e non unicamente buscare lo stipendio mensile. Aspettiamo, quindi, il ministro Fornero alla prova dei fatti.
Limitiamoci a questo, per adesso, solo per non affaticare ulteriormente la lettura. Come è stato più volte ribadito, ci meritiamo un ceto dirigente che compia scelte decisive ed improrogabili, poichè in questi frangenti di quello che c'è più bisogno, come Leonardo Tinelli ha abilmente sottolineato qui, è di più Stato e delle sue funzioni generali e concrete di garanzia di ogni interesse. Quelle qui esposte sono piccole cose che possono farsi velocemente e possono liberare risorse ed energie per le famiglie. Senza una maggiore efficienza legislativa e della spesa pubblica, non ci sarà debito pubblico da saldare e riduzione delle tasse. 

Nessun commento: