lunedì 23 settembre 2013

Fra Cina e Giappone non mettere il dito



Mentre il dibattito va perfezionandosi sullo stato di decadenza dell'Europa, all'indomani dei risultati delle elezioni parlamentari tedesche che han visto la prevedibile vittoria della politica dell'uscente cancelliere Merkel e l'articolata disfatta della sinistra tutta, e che sarà sempre più centrato sulla prossima scadenza elettorale decisiva del rinnovo del Parlamento Europeo, n.o.i. qui proviamo a guardare un po' più lontano. Ci siamo abituati.
Lo sguardo lo rivolgiamo verso la Cina e il Giappone.




La politica economica del ministro Abe, cosiddetta Abenomics, sembra non condurre ai risultati sperati... almeno se leggiamo questo diagramma che segue.

Il ministro Abe ha ritenuto che immettendo denaro nel mercato e svalutando lo yen, prima o poi il risultato economico sarebbe arrivato, ovvero quello di far riprendere le attività produttive nipponiche attraverso una politica monetaria che avrebbe favorito le esportazioni.

E' il principio della guerra valutaria, che anche qui in Italia intorno alla questione della moneta unica ha anche i suoi sostenitori. Se svaluto la mia moneta favorisco le esportazioni (rendo più competitive le mie merci) e sfavorisco le importazioni (rendendo meno convenienti le importazioni). Il surplus commerciale delle partite correnti risultante nelle speranze di Abe avrebbe così salvato il Giappone. In realtà sta accadendo il contrario.
E' vero che le esportazioni sono balzate del 14% ad agosto rispetto ad  1 anno fa, così come riferisce il Ministero delle Finanze nipponico, ma è anche vero che queste merci sono valutate in yen, e che quindi in termini monetari le importazioni sono aumentate del 16% contro il 14 delle esportazioni, e considerando che lo yen è stato svalutato del 20% possiamo ricavare che il volume di merci è di fatto diminuito. Il deficit commerciale, così, è aumentato del 25% , ovvero di 960 miliardi di yen (9,6 miliardi di dollari)!

E' stato il peggior deficit commerciale di agosto, superiore del 27% di quello del 2012, e molto lontano dai surplus del 2010 e 2009... e il 14° deficit commerciale consecutivo!
Dal gennaio 2013, il deficit commerciale nipponico è cresciuto del 66%, e del 332% rispetto al 2011. Un vero e proprio fiasco commerciale. Un fiasco che si è concretizzato e ancora si concretizza soprattutto nei riguardi della Cina, che non ostante gli attriti storici fra i due Paesi gli scambi commerciali rappresentano il 25% delle esportazioni nipponiche verso la Cina ed il 21% delle esportazioni cinesi verso il Giappone. In termini monetari nipponici, le importazioni hanno avuto un incremento maggiore rispetto alle importazioni. Ad ogni modo, sono lontani i tempi del 2007 quando i saldi delle partite correnti fra Giappone e Cina vedevano saldi positivi nei confronti dello yen. L'unico dato positivo è che sono riprese bene le esportazioni nipponiche verso l'Europa e gli USA. Comunque, le importazioni sono cresciute in settori decisivi: ferro e acciaio +16%, macchinari +21%, le cui sottocategorie computer +18% e macchine elettriche +21%, di cui la sottocategorie di queste con la dicitura semiconduttori del +44%. Seguono abbigliamento +21% e mobili +20%. A seguire altri manufatti.

Un quadro fosco quello delle importazioni. Le fasi di deindustrializzazione avvenute in questi ultimi anni, con una intensificazione della delocalizzazione produttiva in particolare verso la Cina per via dei salari più bassi (di cui scriveremo subito dopo!) è ciò che veramente sta condizionando i risultati economici, e non le fantasie monetariste che assomigliano più a giocate di poker che a reali valutazioni delle contingenze.
Quindi, non sembra che sarà la svalutazione dello yen a salvare il Giappone, se le industrie vanno nei mercati che ritengono nel futuro prossimo più appetibili, e dove la manodopera costa meno. Ma poi, è così vero che costa meno?

I rapporti che provengono dalla Cina non sono così rassicuranti rispetto alla convenienza del costo della forza lavoro cinese. Molte imprese straniere che da anni si sono insediate sui territori a sud della Cina, oggi stanno abbandonando e spostando le fabbriche verso l'entroterra cinese, dove gli scioperi e le rivendicazioni salariali non sono così maturi come negli insediamenti produttivi della prima ora.

Dal 2008, ovvero da quando i contratti di lavoro sono stati regolamentati, i salari sono aumentati del 15% su base annua, e le masse operaie hanno preso maggiore consapevolezza della loro forza e scioperato di più.

 Seppur il salario medio minimo cinese è cresciuto dal 2012 del 22%, e seppur ancora il costo del lavoro resta più conveniente rispetto all'Occidente, si prospetta che entro il 2020 i salari, e di conseguenza i costi di produzione, raddoppieranno. Nel frattempo la Cina sta spingendo affinchè aumentino gli investimenti stranieri verso aree meno congestionate industrialmente, e in produzioni a maggiore intensità tecnologica che manuale come è stato finora. La concorrenza con l'Occidente, quindi, si farà ancora più stringente, e i vantaggi produttivi e commerciali della Germania potranno riprendere vigore, se questi sono i preludi.

Ciò che sta frenando gli investitori, però, non è solo il quadro ancora fosco dell'economia globale, o anche i maggiori costi della manodopera, ma soprattutto i maggiori costi della terra, dell'acqua, dell'energia, dei trasporti. La Cina è, paradossalmente, diventata più costosa del Messico, del SudEst asiatico, dell'India. Della stessa Russia, almeno secondo quanto scrivono qui e dal cui scritto riprendiamo il sintetico grafico che segue.

Alcuni analisti dicono che gli investimenti in Cina non saranno più guidati dai progetti di delocalizzazione di fabbriche labour-intensive per favorire la diminuzione del costo al consumo e aumentare i profitti, ma adesso da una maggiore attenzione verso il nuovo ceto medio che va formandosi nella Cina.
Ora sembra che le nuove destinazioni per le produzioni a basso costo di lavoro siano indirizzate verso i primi territori dei processi di delocalizzazione delle industrie occidentali, ovevro nel SudEst asiatico. Staremo a vedere.


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